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Texas Death Row
Hotel
Storia di
un americano condannato a morte
Prefazione
di Aniello Montano*
È
con una grande pena nel cuore che, dopo il razionalismo illuministico,
si è ancora costretti a scrivere contro la pena di morte. Nelle pagine
del lucido e famosissimo pamphlet di Cesare Beccaria, Dei delitti e
delle pene, è dimostrato, in maniera lucida e una volta per tutte, non
solo l’inutilità della pena di morte che, per il nostro autore, «ha mai
resi migliori gli uomini», ma anche l’impossibilità di includerla tra i
“diritti” di uno Stato ben organizzato.
Che la pena di morte sia un’atrocità inutile è dimostrato dal fatto che
essa non contribuisce a rendere migliore il reo, perché lo sopprime. E
non rende migliori gli altri uomini con l’esempio dell’efferatezza della
pena, perché, come scrive Beccaria, «non è l’intensità e l’atrocità
della pena, che fa il maggiore effetto sull’animo umano, ma l’estensione
di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente
mossa da minime, ma replicate impressioni, che da un forte, ma
passeggero movimento».
La pena di morte eseguita in nome dello Stato, per il grande lombardo,
non è nient’altro che «una guerra della Nazione con un Cittadino, perché
giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere». Non è da
considerare, perciò, tra i “diritti” dello Stato. Questi, infatti, sono
la somma dei diritti che i singoli hanno ad esso trasferito. E i singoli
non possono trasferire allo Stato un diritto che non posseggono. L’uomo
non è padrone della sua vita, non è – cioè – padrone di uccidersi. Non
può, pertanto, attribuire ad altri quello che non è nella sua
disponibilità. E che non è padrone della sua vita, è vero sia che si
pensi alla vita come a un dono di Dio, sia che la si consideri il frutto
dell’attività riproduttiva della Natura per la conservazione della
specie.
Le pene, come riteneva San Tommaso, «sono come i medicinali». Debbono
aiutare gli uomini a guarire. E nessuno, neppure lo Stato, può
prescrivere “medicinali” che, invece di guarire, sopprimono l’uomo.
L’imperativo «non uccidere!», nella pratica quotidiana e all’interno
della società civile, è, e deve essere, categorico. Non deve e non può
ammettere deroghe, neppure da parte dello Stato. Soltanto nello stato di
guerra o per comprovata legittima difesa, quando cioè drammaticamente si
gioca una vita contro un’altra vita, è sopportabile la deroga.
Nonostante l’evidenza palmare di simili considerazioni e la loro
stringente e comprovata validità, l’uso della pena di morte, questo
atroce retaggio di età barbariche, permane ancora in non pochi Paesi del
mondo, anche in Paesi di grande civiltà, come gli Stati Uniti d’America.
È che l’uso della violenza sugli altri, fino alla tortura e alla
soppressione della vita, è una sorta di male oscuro, di cancro
dell’anima, che può covare in silenzio, ammantarsi anche di buone
intenzioni ed essere pensato come medicina forte in difesa della vita
dei singoli e della tranquillità della comunità, soprattutto laddove
l’antidoto dell’umanesimo vero, quello che conferisce all’uomo un valore
assoluto e indiscutibile, non opera adeguatamente nelle menti e nei
cuori.
Il libro che presentiamo, Texas Death Row Hotel, di Arianna Ballotta,
Mirella Santamato e Pietro Santoro, è un documento di grande forza
morale e di grande efficacia nella denuncia dell’inutile orrore prodotto
dalla pena di morte e una difesa calda e appassionata del valore
indiscutibile e inalienabile della persona umana, anche della persona
che si sia macchiata di una grave colpa. Ed è, altresì, un netto e
lucido atto d’accusa nei confronti delle procedure giuridiche degli USA,
«l’unica democrazia occidentale dove ancora esiste questo retaggio
medievale della legge del taglione, l’unico Paese occidentale dove
vengono messi a morte i minorenni all’epoca del reato [...], dove
vengono uccisi con metodi considerati più o meno “umani” [...] malati di
mente e persone incapaci di comprendere la differenza fra bene e male,
dove vengono giustiziate persone di cittadinanza straniera senza dar
loro nemmeno la possibilità dell’assistenza consolare [...], dove
vengono uccise anche persone in grado di provare la propria innocenza»,
perché, «avendo esaurito i propri appelli» e «pur avendo nuove prove di
innocenza», non hanno «il diritto costituzionale di essere nuovamente
ascoltate da una Corte Federale».
Nelle intense e drammatiche pagine del libro, con documenti e commenti,
si dà conto di una vicenda al limite dell’assurdo. Si racconta
dall’interno la storia di Richard Wayne Jones senior, condannato a morte
per un delitto non commesso e che si ritrova solo e senza mezzi
finanziari a lottare contro la procedura giuridica americana, in questi
casi non attentissima ai particolari e assolutamente decisa a chiudere
al più presto l’inchiesta e il processo offrendo un colpevole
all’opinione pubblica.
Attraverso le lettere di Richard ad Arianna, la giovane italiana che,
con il marito e alcuni amici, corrisponde con lui, lo sostiene, gli
rende alcune visite e gli è vicina nell’ora della morte, non solo
vengono ricostruite e, per quanto possibile, documentate tutte le
circostanze che avrebbero potuto provare, se riscontrate, la non
colpevolezza del condannato, ma si sfata anche un luogo comune: quello
della condizione di rispetto per la loro persona e di quasi privilegio
in cui sono tenuti i condannati a morte nelle carceri americane.
Risulta di notevole rilievo, infatti, la messa in evidenza della
durezza, al limite dell’umano, del sistema di custodia carceraria per i
condannati a morte e le estreme difficoltà, al limite
dell’impossibilità, per l’imputato prima e per il condannato dopo, a far
valere certi diritti o a fare accogliere e fare vagliare nuove eventuali
prove a suo discarico.
Di forte impatto psicologico e di grande pregio morale è certamente la
descrizione dei sentimenti profondi avvertiti e sofferti, seppure
secondo un’intensità diversa, dagli autori del libro nel vivere
l’esaltante e tremenda esperienza di essere interlocutori, diretti e
quasi quotidiani, e di condividere le tensioni esistenziali e alla fine
la calma rassegnazione di un uomo che sente ogni giorno di più spegnersi
la speranza della vita e che avverte l’incombere della mano violenta
che, in nome di una approssimativa ma implacabile giustizia, lo
ghermirà, stroncandogli la vita.
Fortemente emozionante, nonché di grande efficacia nel far maturare il
rifiuto morale e patico, oltre che logico e mentale, della pena di
morte, è la ricostruzione delle ultime ore di vita di Richard. Il
lettore viene fortemente coinvolto nell’ansia e nella tensione emotiva e
morale vissute da Arianna e dal marito, dentro e fuori dal carcere,
nelle ore di preparazione dell’ “evento” delittuoso. Particolarmente
raccapricciante è la freddezza routinaria dei secondini, dei religiosi,
del personale sanitario e di quanti altri partecipano, anche se a
diverso titolo, all’esecuzione. D’altronde, per loro, si tratta di una
semplice pratica, da sbrigare nella corretta applicazione delle regole e
nella maniera più asettica possibile.
Il libro, con la sua carica di verità e di sincerità, con la sua tecnica
narrativa fortemente coinvolgente e con la sua forte presa intellettuale
e morale, scuote il lettore dal torpore quasi cinico in cui tutti noi
siamo stati precipitati dalla spettacolarizzazione della morte, anche
violenta, offerta dai mezzi di comunicazione e, in particolare, dalla
telematica. Richiama ognuno di noi alle proprie responsabilità civili e
politiche: in primis al dovere di informarsi, di capire e, poi, di
rendersi protagonista attivo dell’impegno, affinché nel mondo, in tutto
il mondo, siano garantiti i diritti degli uomini, di tutti gli uomini,
e, soprattutto e in modo incondizionato, il diritto alla vita.
*
Aniello Montano e’ professore ordinario di Storia della Filosofia all’Universita’
di Salerno e collabora a: “Rivista di storia della filosofia” e “Segni e
comprensione”.
Prefazione di Aniello
Montano [Pdf 52,0 KB]
Ballotta Santamato Santoro
Texas Death Row Hotel.
Storia di un americano condannato a morte.
PhoebusEdizioni. Napoli, 2005
Il libro può essere richiesto
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