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Cesare Pavese e
il falso allarme del proprio realismo
di
Gianfranco
Fabbri
Sollecitato dalla pregevole iniziativa dell’Espresso, che
consiste nel pubblicare eleganti libri di classici moderni, ho ripreso
in mano “La
spiaggia” e “Il
compagno”, di
Cesare Pavese.
La rilettura ha confermato, dopo anni di mia latitanza dalla penna del
Grande Piemontese, l’estrema piacevolezza nell’andare su e giù per lo
spazio narrativo, senza che ne abbia patito il grado di attenzione e di
coinvolgimento. Lo stile è sicuro, plastico, inframmezzato da belle
pagine fitte di dialoghi naturali, talmente naturali, da far sentire il
lettore in compagnia dei personaggi della storia. I protagonisti delle
trame pavesiane acquistano, pagina dopo pagina, una sicura e stagliata
personalità e una giusta dimensione psico-volumetrica. Sì, perché, a mio
avviso, un buon romanzo deve indurre il lettore a pensare che il Vissuto
trattato non sia soltanto frutto di logiche concordanze, ma sia fatto di
senso del volume della situazione contingente. Dentro questo spazio il
lettore dovrà sentirsi a proprio agio, come se fosse nella sua città e
nella propria casa. Ebbene, Pavese riesce a trascinare il pubblico in
simili maglie e ci arriva, non solo grazie al talento “indigeno”,
“etnico”, ma pure grazie al talento di traduttor-creatore di testi
appartenenti alla Letteratura anglo-americana del ‘900. L’unico rischio
di chi legge è quello di dare a Torino i connotati d’una metropoli
statunitense. In questo, Pavese è meno realista di una Lalla Romano o di
una Natalia Ginzburg, le quali hanno portato avanti, a differenza del
collega, un Piemonte a tutto tondo e veritiero. Nei due romanzi letti,
tutto è vago: il paese natale del protagonista, situato sulle colline
delle Langhe, è suggestivo ma informe: potrebbe essere un paese
qualunque della nostra italica provincia. Ne “La spiaggia”,
l’opposizione tra collina e mare è l’esatto parallelo che esiste nel
cardine esistenziale dei personaggi: l’amico del narrante è giunto a
Genova dai monti e a Genova ha trovato l’amore e l’affermazione della
maturità. Pavese si rende contraltare di questo capir la vita: vede la
malizia mondana , nella quale si incuneano tutti gli stilemi
dell’esistenza, e -conosciuti i compromessi e confermati i dubbi
dell’inizio- torna nelle colline natie assieme a un suo ex scolaro,
ancora adolescente e simbolo della giovinezza perduta. Ne “Il compagno”,
invece, l’opposizione è tra Torino e Roma, dove la prima città
rappresenta (al pari delle colline) la famiglia, il primo amore e il
segnale primigenio di un ideale politico, mentre la Capitale si staglia
come il simbolo della meta da raggiungere. In entrambe le situazioni lo
scrittore sceglie di ricoprire il ruolo del giovane uomo, sempre un po’
tormentato -a metà strada, quindi, tra l’ironia e l’introversione tutta
piemontese e la svagata fascinazione, tipica di un Burt Lancaster o di
un Richard Widmark alle prese col sesso-.
Potrei concludere col dire che l’opera pavesiana rischia di venire
scambiata per una felicissima, quanto mastodontica traduzione da Dos
Passos, e che comunque è proprio grazie ad essa che non si rischia la
noia, come succede troppo spesso con i narratori italiani di questa
opaca stagione letteraria.
la costruzione del verso & altre
cose, 22 settembre 2005
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