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Francesco
di
Dino Dozzi
Il 4 ottobre è la festa
di san Francesco, patrono d’Italia. Può essere l’occasione giusta per
vedere come Francesco vede e dice se stesso nei suoi scritti.
Il Signore mi
diede
Il testo
privilegiato è il Testamento, tutto in prima persona singolare e con un
ritornello che colpisce: “Il Signore diede a me”. Io ero nei peccati –
dice Francesco – e “il Signore diede a me di incominciare così a fare
penitenza” (FF 110); “poi il Signore mi diede e mi dà una così grande
fede” (FF 112); “e dopo che il Signore mi diede dei fratelli” (FF 116).
Francesco sente e dice che le cose più importanti della sua vita –
conversione, fede e fratelli – le ha ricevute dal Signore. È per questo
che il suo atteggiamento fondamentale nei confronti di Dio sarà
caratterizzato dalla riconoscenza e dalla lode: il capitolo XXIII della
Regola non bollata è un solenne inno di ringraziamento a Dio che ci ha
creati, ci ha redenti e ci accoglierà con sé: “Nient’altro dunque
dobbiamo desiderare, nient’altro volere, nient’altro ci piaccia e ci
diletti, se non il Creatore e Redentore e Salvatore nostro, solo vero
Dio, il quale è il bene pieno, ogni bene, tutto il bene…” (FF 70). Le
parole non sembrano bastare a Francesco per parlare del grande specchio
in cui egli vede se stesso.
Piccolino,
semplice, poverello
Il Testamento
si conclude con queste parole: “E io frate Francesco piccolino, vostro
servo, per quel poco che posso, confermo a voi dentro e fuori questa
santissima benedizione” (FF 131). L’aggettivo “piccolo” o “piccolino”,
che usa sei volte, gli piace per parlare di se stesso. Ma gli piacciono
anche altri attributi imparentati, come “semplice e infermo” (FF 125).
“Poverello” è l’aggettivo che ha avuto più fortuna nella storia, anche
se Francesco l’applica a se stesso una volta sola, nella lettera
all’amica donna Jacopa: “frate Francesco poverello” (FF 253). Il legame
che egli sente di avere con la povertà è unico, tanto da personificarla
e da considerarsi lo sposo di “Madonna Povertà”. Nelle sue ultime
volontà alle “povere signore” di San Damiano dirà: “Io, frate Francesco
piccolino, voglio seguire la vita e la povertà dell’altissimo Signore
Gesù Cristo” (FF 140).
Fratello,
madre, servo di tutti
Francesco si
sente fratello, mai padre, a volte madre, sempre servo. Nella lettera a
tutto l’Ordine dice: “Ascoltate, figli del Signore e fratelli miei” (FF
216); e subito sopra chiama se stesso “frate Francesco, uomo di poco
conto e fragile, vostro piccolo servo” (FF 215). Si sente servo non solo
dei frati, ma di tutti. La sua lettera ai fedeli, indirizzata “a tutti
gli abitanti del mondo intero” presenta il mittente come “frate
Francesco, loro servo e suddito” (FF 179) e si chiude con “frate
Francesco, il minore dei vostri servi” (FF 206). Pur cosciente di avere
tanti fratelli che lo hanno seguito, prende seriamente la frase
evangelica: “Non chiamate nessuno padre sulla terra, perché uno solo è
il Padre vostro che è nei cieli”. Non si sente e non si dice padre, ma
madre sì. A frate Leone scrive: “Così dico a te, figlio mio, come una
madre…” (FF 250), incoraggiando anche gli altri frati ad assumere
sentimenti e rapporti materni nei confronti dei fratelli (FF 136). E
inventa un’immagine straordinaria per parlare del suo rapporto con i
suoi figli-fratelli: “La gallina sono io, piccolo di statura e di
carnagione scura… i pulcini sono i frati…” (FF 610). Così Francesco vede
e dice Francesco.
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