agli incroci dei venti

 


 

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Giorno di festa
di Antonio Landino

Una delle rare occasioni che possono spezzare la disarmante routine del carcere è quel fatidico momento, a lungo atteso, in cui si può ricevere una visita dal mondo esterno.
Dato che non sempre è possibile vedersi con amici o terze persone, di solito i colloqui si effettuano con la rispettiva compagna o con la propria famiglia, per chi ancora ce l'ha.
Ovviamente, tutti i preparativi sono già stati sbrigati in anticipo, si sa bene a che ora e in che giorno ci si vedrà... eppure, ogni volta c'è sempre quella spasmodica attesa, specialmente il primo giorno, che, sotto certi versi, è più innervosente del primo appuntamento da vergini.
Abitualmente ci si alza all'alba (oppure non si è dormito affatto), ci si lava almeno una dozzina di volte in più dell'abitudinario giornaliero, ci si rade al contropelo, ci si rilava, ci si rade ancora, si riesumano e si gettano sul materasso gli abiti migliori, che molto spesso sono passati di moda più della Democrazia Cristiana, ed infine si indossano quelli meno spiegazzati. Si tira fuori un thermos per il caffè, il profumo delle grandi occasioni lo si è già utilizzato tutto per le ultime frenetiche abluzioni, ci si carica di dolcetti e biscotti, aranciata e the, di crostate artigianali, di caramelle, di chewing gum, anche se si deve vedere una persona soltanto, che magari ha il diabete. Poi ci si avvicina con finta nonchalance al primo passaggio obbligato e ci si posiziona nei pressi, in agguato, col sacchetto di carta stracolmo, fumando da fare concorrenza ad una ciminiera della Montedison, un'altro chewing gum per domare l'alito da avvoltoio, si passeggia nervosamente e si aspetta.
Quando finalmente urlano il tuo cognome, si scatta come alla finale mondiale dei cento metri piani, si arriva col fiatone ma impettiti, poi un breve percorso interno che sembra sempre troppo lungo, la solita perquisizione corporale alla ricerca di elicotteri o carri armati nascosti (che però non si trovano mai), le tre flessioni regolamentari a coscia di rana, ci si riveste, addio alle pieghe degli abiti e speriamo di non essere troppo sudati. L'agente di servizio ti precede, si aprono le porte ed i lucchetti, si arriva trafelati alla sala colloqui, e qui i casi sono due; o ci sono già tutti, tranne chi si aspetta, oppure non c'è ancora nessuno, e il primo sei tu. Ci si specchia e rispecchia nei vetri blindati, si pensa: "beh, sto perdendo i capelli, ma col gel non si nota troppo, e poi scurisce", oppure: "devo mettermi a dieta, magari con un po' di corsa, chissà", oppure: "devo far qualcosa per tonificarmi; da domani, flessioni senza pausa", ed intanto, chi aspetti non arriva ancora, ti senti più impotente del solito e così, senza veramente volerlo, osservi di soppiatto gli altri detenuti.
Che, stranamente, non lo sembrano più: sono ex novo, trasformati, rigenerati, non somigliano affatto alle carcasse umane a te affini, a quelle patetiche irriconoscibili caricature con cui condividi la pseudo-vita di tutti i giorni; sono belli, profumati, allegri, parlano pacatamente, con una dolcezza logorroica, inusitata, non ti rendi conto che anche tu in quell'occasione sei esattamente come loro, e ti chiedi se stai davvero sognando tutto. Quando ti succede di aspettare, certe cose non si può fare a meno di notarle, anche se non vuoi. Osservi i bambini, le madri, e ti chiedi come saranno i tuoi familiari, se sei invecchiato tanto, rispetto a come ti ricordano loro. Alcuni astanti sono nervosi, passeggiano come animali in gabbia, sono rosi dall'impazienza perché sono al loro primo colloquio, sono inesperti, sono quelli che vengono solitamente definiti "pivelli". I pivelli del carcere non rimangono a lungo tali, perché il carcere od insegna a sopravvivere oppure distrugge, o impari subito o non ne verrai mai fuori integro... ma tutti sono stati dei pivelli, ed ai colloqui si riconoscono al volo, così come le loro donne: sono truccate, imbellettate, piene di fronzoli e orpelli, dalle acconciature elaborate, con abiti attillatissimi, da sfilata parigina, dai colori sgargianti, dagli spacchi vertiginosi, ed emanano un profumo sconvolgente, strette dentro l'ultimo modello di push-up, gesticolano continuamente e si guardano intorno come se si aspettassero di suscitare consensi generali; si vede subito che sono delle neofite, perché non hanno ancora capito che certe "visioni", in galera, fanno più male che bene, o che addirittura possono fare incorrere in sanguinosi commenti elargiti a voce alta, in pubblico, a cui bisogna necessariamente riparare, ovviamente in privato, alla prima occasione. Le habitués sono del tutto diverse: hanno vestiti molto castigati ed austeri, scuri e sobri, al massimo indossano una catenina religiosa, con i capelli al naturale, il viso acqua e sapone; c'è in loro una pacata rassegnazione, apparentemente commosse ma dentro più dure dell'acciaio al tungsteno; sono solide, forti molto più di noi, serie e affidabili, che non si stancheranno mai; tristemente altere, con una dignitosa ma spavalda fierezza, come a voler significare che ormai non c'è più niente che possa impressionarle o farle paura, neanche la continuità della prigionia della persona che amano.
Ma ecco che quella porta cigola, si apre ed entrano finalmente i tuoi familiari; li trovi magri e sciupati, disfatti dagli anni, dal viaggio e dalla tua stessa levataccia, però con una gran luce negli occhi; vorresti dire tutto, ti frughi dentro alla ricerca di parole che hai disimparato a pronunciare e che ti rimangono in gola, ti senti soffocare, vorresti scavalcare quel muro che non esiste ma che però ti separa da loro, vorresti amarli lì, sul posto... ma non puoi, non si può. Loro entrano, e il mondo si ferma; tutto si ferma, e ti senti al centro dell'universo.
Se si tratta dei tuoi genitori, dici loro che stai bene, che mangi come un lupo, che hai quasi o del tutto smesso di fumare, che hai un buon lavoro... e loro ne sembrano quasi convinti, perché ti sei esercitato quotidianamente a mentire e sei diventato piuttosto bravo. Racconti che studi, che i compagni sono degli autentici gentleman (peccato che manchi loro il papillon), che l'avvocato si fa sentire spesso e ci sono buone speranze, che a breve termine sono previste alcune depenalizzazioni... ed altre bugie rassicuranti dello stesso genere. Anche loro ti dicono bugie, poiché declamano di trovarti in gran forma, ironizzano sull'eventualità che la galera ti faccia star bene, che ti migliori addirittura, e poi si parla di cose passate, lontane, di persone che ti salutano anche se non ti hanno mai inviato due righe e di cui tu non rammenti neanche il viso, di quando tu eri bambino, libero, di un'altra vita che, di certo, si ripeterà ancora; basta avere pazienza, grande pazienza, infinita pazienza.
Se hai la tua donna, di fronte, la trovi pallida, emaciata, smunta, appassita come un fiore a cui è stata sottratta la linfa vitale. Lei è piena di brufoli, è nervosa, guardinga, si esprime a scatti ma sorride sempre, ti tiene per mano, ti guarda negli occhi e tu ti senti un verme. Ci si vergogna, quando si effettuano i colloqui. Si pensa: "scusami, se ti ho permesso di venire fin qui, di vedermi così, come un cane alla catena... ma uscirò molto presto, dovessi morire!"
Non si rievocano le tenerezze passate ma si parla del tempo, del viaggio, della casa, dei figli che avremmo potuto avere o che sono già grandi, del loro futuro che non sarà come il tuo, mai, a nessun costo, e le palpebre si fanno pericolosamente pesanti, ci si schiarisce la voce, ma la nostalgia ormai ti ha preso nella sua spirale di rimpianti, così si rimane in silenzio, a lungo, a guardarsi e basta, perché ci sarebbe così tanto da dire che non si trovano le parole.
E ci si vergogna per quel che non si riesce a confessare, ci si vergogna nella propria dignità di uomo, pensando che qualcuno ha frugato addosso alla persona che ami, smanacciandola, palpandola, profanandola nella sua castità forzata, facendola arrossire... ed anche per questo, capisci quanto sei amato e quanto poco puoi amare, in cambio. È questa, la verità più grande, che poi non è altro che la paradossale bugia che sgorga dal profondo, che disturba ma fa sperare, che uccide ma tiene anche in vita... perché domani ci sarà un'altro colloquio, e poi un'altro, e forse un'altro ancora. Ma tutte le cose belle finiscono presto, ed il tempo che abitualmente non passa mai è già volato via, come per dispetto... e così è già arrivato il momento dei saluti, delle rassicurazioni superflue, degli abbracci a distanza, dei baci non dati, delle carezze negate, degli amplessi rimandati nei sogni di ogni notte, delle raccomandazioni reciproche e delle rinnovate promesse eterne. Perché c'è sempre qualcosa per cui vale la pena di vivere, qualcosa che fa scansare un cappio, che alcuni ipotizzano amnistia o indulto, ma che i più fortunati tra noi identificano nei sani e puliti valori che abbiamo lasciato fuori. Gli stessi valori che ci si sforza di conservare, intatti, quando il momento magico passa, si allontana, altri due calcoli e poi via, a stilare il nostro Superenalotto sul calendario, quello che arricchisce davvero. Sembra la cronaca di una rinascita, ma invece è la mortificazione ridotta al lumicino, la persecuzione perpetua, il rinnegare l'amore che ci è già stato negato.
I reduci dei colloqui si riconoscono a vista: sono ipertesi, muti, con un sorriso ebete stampato in faccia, con l'espressione estatica di chi ha ricevuto un visita dal paradiso e non rientrerà tanto presto in simbiosi con la cruda realtà. Si offre loro una cicca, un caffè, gli si dice che sono fortunati... ed invece, in questo mondo di sbarre, forse i più fortunati sono quelli che non hanno più nessuno, che hanno perso tutto. Perché sono quelli che possono permettersi di non sperare, di non illudersi, di attenersi di più all'evidenza dei fatti, al contrario degli altri, che si sentono ancora più colpevoli per aver lasciato fuori qualcuno che si sforza di vivere, di esistere, di amare in silenzio e da lontano, nell'unico modo consentito, fatto di dolore, di rabbia, di assenza, perché altro non si può, ma non si può neanche confessarlo.

 

La grande promessa

 
 

 

 
 

agli incroci dei venti, 10/10/05