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Un gigante
della letteratura africana
intervista a
Wole Soyinka
a cura di Alessandra Garusi
A margine del 15°
Festival del cinema africano di Milano (14-20 marzo 2005), abbiamo
intervistato il presidente della giuria, lo scrittore nigeriano Wole
Soyinka.
Compito dell’artista è presentare alternativi modi di vedere
l’esistenza, non certo risolvere i problemi.
Anche in una democrazia di vecchia data può capitare che, nel nome della
sicurezza, si sospenda la libertà. È quello che oggi sta accadendo negli
Stati Uniti. E questo, purtroppo, non è un caso isolato.
Wole Soyinka resta una delle voci più autorevoli dell’intero
continente africano. Ha vinto il Nobel per la Letteratura nel 1986 – il
primo degli scrittori africani – aprendo così la strada a molti altri,
tra cui Nadine Gordimer e John M. Coetzee. È un artista polivalente –
poeta, saggista, romanziere, drammaturgo – attivo sulla scena dalla fine
degli anni ‘50. Molto impegnato politicamente nel suo Paese, è stato
incarcerato per le sue posizioni contro la guerra. Oggi vive negli Stati
Uniti.
Che rapporto
esiste fra il cinema e la letteratura?
Il cinema è un genere a sé. Si distingue da tutto il resto: dal teatro,
dalla saggistica, dalla fiction. Quello che mi colpisce, poi, è che
mentre il cinema ha sempre preso a piene mani dalla letteratura e mentre
la poesia e la musica si sono sempre influenzate reciprocamente, non
accade mai o quasi mai che dai film nascano dei libri.
Lei è uno
scrittore. Eppure capita spesso di vederLa presiedere delle giurie in
festival cinematografici. Come mai?
In realtà, sono entrato nel cinema molto presto. Ancor prima di iniziare
a scrivere romanzi e poesie, ho partecipato a un paio di produzioni
cinematografiche, che per la verità non erano un gran che. Eppure questo
fatto ha avuto la sua rilevanza. Ma il mio amore per il mondo del cinema
va forse fatto risalire a un episodio dell’infanzia. Allora abitavo con
la famiglia ad Abeokuta, in Nigeria; e per le vacanze si andava dai
cugini a Lagos. Proprio in un cinema popolare della capitale ho avuto
il mio primo incontro “ravvicinato” con il grande schermo, con i film di
Charlie Chaplin. Mi sono piaciuti così tanto che, tornato a casa, ho
ritagliato delle figurine e le ho proiettate sul muro.
Ritiene che
Hollywood, o il cinema americano in genere, abbia influenzato quello
della Nigeria?
C’è un filone
del cinema americano, in particolare, che ha fatto scuola da noi. Si
tratta del fantasy. È un genere che, a Lagos, si è sposato con
uno molto simile, derivante dalla tradizione prettamente nigeriana del
magico.
Va detto che in Africa, e soprattutto in Nigeria, è ancora forte la
credenza della continuità del mondo fisico, reale, con quello
soprannaturale. Per citare un esempio tratto dall’attualità, il capo
di Stato dello Zambia, Levy Mwanawasa, ha recentemente abbandonato il
palazzo presidenziale “perché infestato dagli spiriti”. E lo sta facendo
disinfestare. Non si sa se, poi, quegli spiriti abbiano contatti con
figure dell’opposizione…
Quanto il
cinema contribuisce a modificare i comportamenti e a forgiare nuove
mode?
È una domanda
alla quale è molto difficile rispondere. Sono talmente tanti i fattori
che innescano le trasformazioni: dalle condizioni economiche alle
religioni. Sto pensando alle moschee in via di costruzione, oppure
all’arrivo in Nigeria del reverendo Reinhard Booke1 che in poche
settimane ha collezionato un milione di convertiti, gente che oggi va in
giro come zombie.
È una domanda, questa, che tendo a evitare, perché non è una delle mie
prime preoccupazioni. Compito dell’artista è presentare alternativi
modi di vedere l’esistenza, non certo risolvere i problemi.
Ma se proprio dovessi rispondere, direi che c’è una interazione a più
livelli. I giovani che girano in giro con lo walkman e sono talmente
isolati dal contesto che rischiano di farsi investire da una macchina,
saranno davvero del tutto impermeabili alle influenze esterne? Chi può
dirlo… E chi avrebbe mai detto che la moda dei jeans strappati sarebbe
sbarcata anche in Africa?
Nel corso della
guerra civile nigeriana, Lei venne incarcerato dal 1967 al 1969 per un
articolo, in cui chiedeva un cessate il fuoco. Oggi considera la libertà
e la democrazia finalmente acquisite nel suo Paese?
Non c’è
mai nulla di definitivamente acquisito. Tanto più quando in gioco è la
libertà, non bisogna mai abbassare la guardia. Anche in una
democrazia di vecchia data può capitare che – nel nome della sicurezza –
si rimuova (o si sospenda) la libertà. È quello che oggi sta accadendo
negli Stati Uniti. E questo, purtroppo, non è un caso isolato.
Se in America c’è addirittura chi va a controllare la scelta dei
libri nelle biblioteche, in Africa è anche peggio. Basti pensare al
Togo, dove si è consolidata una dittatura famigliare allo Zimbabwe dove
un ex rivoluzionario – Robert Mugabe – è diventato un dittatore. Il
fenomeno della dittatura non conosce fine. Di conseguenza, la
battaglia collettiva deve continuare.
Esattamente
dieci anni fa, nel novembre 1995, veniva impiccato lo scrittore Ken
Saro-Wiwa assieme ad altri otto militanti dell’etnia ogoni. Questo
sacrificio è servito? Qual è oggi la situazione nel Delta del Niger?
La tragedia di Ken Saro Wiwa è legata alla risposta che ho appena dato.
Ripeto: non bisogna mai abbassare la guardia. La situazione in
Nigeria è migliorata, ora è una democrazia. Un rappresentante del Mosop
(Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni) è stato invitato a
partecipare al Comitato per le riforme politiche. Non che questo sia
molto rappresentativo… Ma è importante continuare su questa strada.
Si deve impedire che una tragedia del genere possa in futuro ripetersi.
Molto spesso i
film africani restano all’interno di questo continente. Come renderli
culturalmente esportabili?
Bisogna riuscire a trovare un idioma che sia traducibile. Possono essere
le immagini, come il filo rosso della storia. Faccio un esempio
concreto: qualche tempo fa, in un cinema di un quartiere popolare di
Lagos, ho visto il pubblico andare in visibilio per l’attore americano
Bruce Lee. Tanto che, ad un certo punto, la gente ha iniziato a dare
calci di karatè per aiutare il protagonista sullo schermo. Si deve
arrivare appunto a questo: a coinvolgere in modo trasversale.
Quale consiglio
darebbe a un regista o a uno scrittore che si propone questo obiettivo?
Bisogna partire dal locale per arrivare al generale. Non c’è un tema
che non possa essere trattato un modo universale. Riguardo ad “Aké. Gli
anni dell’infanzia” (il libro sulla mia infanzia), ad esempio, ho
ricevuto lettere di gente che si era riconosciuta in quella storia, pur
avendo vissuto in Lapponia, in Uzbekistan, ecc. Si tratta di riprodurre,
nel migliore dei modi possibili, un microcosmo.
Visto il suo amore per
il cinema, per quale ragione Lei non ha finora pensato di girare un suo
film?
Va innanzitutto
detto questo: per fare un film, in Africa, serve un capitale enorme. Per
questa ragione, quando si trattò di decidere, optai per qualcosa che il
dittatore Sani Abacha (scomparso l’8 giugno 1998) non potesse mettere a
tacere: cioè una radio clandestina. Arrivava ovunque, persino nelle
caserme, nelle carceri, che con una puntualità commovente si collegavano
ogni giorno. Mentre i libri si possono requisire, la voce arriva in
ogni angolo del Paese. A dire il vero, Abacha tentò di zittirla:
quasi distrusse la mia casa, cercando il trasmettitore. Ma non eravamo
stati così stupidi da nasconderlo lì… Questa cosa lo fece comunque
impazzire.
La vita di Wole
Soyinka
Wole Soyinka è nato
a Abeokuta, in Nigeria, nel 1934. Compie gli studi universitari a Ibadan
e a Leeds, in Inghilterra, dove conseguirà il Ph.D. nel 1973. Dopo due
anni al Royal Court Theatre di Londra come drammaturgo, nel 1960 rientra
in Nigeria, dove comincia a insegnare letteratura e teatro in diverse
università e fonda il gruppo teatrale "Le maschere 1960". Nel 1964 crea
la compagnia "Teatro Orisun", con la quale mette in scena anche le
proprie opere. Nel 1965 pubblica il primo romanzo, scritto in inglese,
Gli interpreti (traduzione italiana 1979).
Nel corso della guerra civile nigeriana, viene incarcerato dal 1967 al
1969 per un articolo in cui chiedeva un cessate il fuoco. La sua
esperienza in cella di isolamento è narrata in L'uomo è morto (it.
1981).
Ancor più che per la narrativa e la saggistica, Wole Soyinka si è
imposto in Africa e in Occidente attraverso il teatro e la poesia. Ha
scritto oltre 20 drammi e commedie e ha adattato in un contesto africano
Le Baccanti di Euripide, L'Opera da tre soldi di Brecht, I negri di
Genet. Fra le sue raccolte poetiche: Idanre and Other Poems; A Shuttle
in the Crypt; Ogun Abibiman (it. 1992); Mandela's Earth and Other Poems.
Ha insegnato in numerose università, fra cui Yale, Cornell, Harvard,
Sheffield e Cambridge, ed è membro delle più prestigiose associazioni
letterarie internazionali. Ha ricevuto diversi riconoscimenti in tutto
il mondo e il premio Nobel per la Letteratura nel 1986.
Perseguitato e condannato a morte dal dittatore nigeriano generale Sani
Abacha, Soyinka vive ora negli Stati Uniti.
Missione Oggi,
ottobre 2005
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