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Proibire il
proibizionismo
di
Lucio Garofalo
Negli ultimi tempi alcuni
mezzi d’informazione di massa hanno riportato alla ribalta del dibattito
politico-istituzionale il dramma della droga. Probabilmente si intende
avallare quella proposta legislativa che reca il nome dell’onorevole
Fini, il cui intento dichiarato è colpevolizzare i tossicomani,
giudicati alla stessa stregua degli spacciatori, annullando cioè la
“liceità” del consumo personale finora tollerato.
Come argomentano i fautori della proposta di legge, la gravità
dell’attuale situazione sarebbe determinata dal “permissivismo”
contenuto nel concetto di “modica quantità”, un’idea ispirata e
alimentata dall’affermazione, soprattutto negli anni ’60 e ‘70, della
“cultura della droga”, intimamente sposata alle cosiddette “culture
alternative” o “controculture”. In effetti, questo è il ragionamento,
rozzo e semplicistico, che fonda lo spirito della legge Fini.
Invece, è un dato incontestabile che la causa dei crimini abitualmente
perpetrati nelle aree urbane più degradate, ad esempio i reati commessi
dai giovani tossicomani, sia proprio nell’esatto contrario del
permissivismo, ossia in quel regime proibizionista che di fatto regola e
decide la questione. Un regime che la legge Fini renderebbe ancora più
crudo, criminalizzando non solo le abitudini di milioni di consumatori
di droghe leggere, ma penalizzando anche altri comportamenti, fino a
negare e calpestare alcuni diritti sanciti dalla Costituzione.
Le misure draconiane previste dalla suddetta legge (non ancora in
vigore) mirano a reprimere il diritto a “farsi”, ma non ne eliminano le
cause reali, nella misura in cui le ragioni dell’alienazione giovanile
nelle droghe sono di natura esistenziale, psicologica, culturale, non
giuridica. Inoltre, quelle norme punitive investirebbero solo i piccoli
spacciatori, ossia gli stessi abituali consumatori di sostanze
narcotiche.
Tale disegno politico cela una perversa volontà di esasperare il
fenomeno della violenza urbana, specialmente di quella minorile.
L’esperienza storica ha dimostrato che l’imbarbarimento di una già
ferrea disciplina repressiva non fa altro che scatenare l’effetto
contrario, generando fenomeni di recrudescenza e l’aumento del
disordine, della rabbia, della disperazione.
Tale proposta di legge costituisce un ulteriore segnale che attesta
l’involuzione in senso reazionario di una notevole parte della classe
dirigente italiana, a cui non corrisponde un pari fenomeno regressivo
nella società civile, che in tal modo si discosta sempre più dagli
ambienti, dagli umori e dai poteri istituzionali del Palazzo.
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