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Gian Ruggero Manzoni

Gli addii

Moretti & Vitali Edizioni - Bergamo, 2003

Le viscere ondeggiarono

alla lenta spazzolata delle messi.

Ai tanti fu semplice apprezzare

quella scelta vigliacca,

più difficile divenne il criticarla.

Nessuno disse a tono risoluto.

Fra colleghi, amici, vicini di casa

si sussurrarono un arrivederci,

ma era il primo addio,

il secondo fu nel silenzio

di chi andava,

il terzo fu nell’addomesticare

una morte imposta

da chi le candele

spegneva con la mano.

Ricordare gli affetti

significa rammentare

anche se stessi.

La memoria dell’amore

è sentimento che perdura

nel riflessivo conoscersi.

E’ catena di sensazioni

che parte da un ricordo

e che termina circolarmente

nel ricordare la tua missione

di giudice, difensore

testimone e imputato

nel processo della voce.

Così credo ai morti e agli angeli custodi.

Credo nell’estremo del coraggio

e all’intrepidità nel pericolo.

Credo alle donne e agli uomini

che si sono sacrificati

e alle energie che li hanno sostenuti

nel momento del trapasso.

Credo nella reminiscenza

e nelle ali di quei tutori,

eroi romantici di un’esaltazione

soverchiata dalle macchine

dello sgomento e dello spreco.

Credo nel credere

di chi ha molto intuito

e non butta alcunché

di ciò che ruota per accortezza

o in conseguenza al merito.


 

dalla postfazione

[...] Manzoni ci ricorda anzitutto che non si finisce mai di dire addio; l’addio, a chi amiamo e a ciò che amiamo, è il movimento fondamentale del nostro stare confitti nel tempo: innamorati d’infinito – e schiacciati dall’immensa finitudine. Ma l’addio, separandoci, ci abbraccia: svuotandoci ci inchioda alla pienezza del vero: straziando una parte di noi preserva nel pozzo ulcerato della nostra anima il seme del coraggio, il bisogno di resistere, la forza di credere ancora, malgrado tutto, alla vita. Per questo, ogni addio è "una scoperta essenziale": un affondo nella sostanza nuda e palpitante dell’essere. Per questo la poesia non può non piegarsi su quella soglia, su quell’attimo di fuoco in cui un destino si compie lacerandosi, frantumandosi, ardendo.

Non solo le vite individuali sono risucchiate da questa soglia: la nostra stessa civiltà è esposta senza tregua al vento che soffia dall’abisso del Grande Nulla. Dopo l’Olocausto, infiniti "tagli" si sono aggiunti e continuano ad aggiungersi al corpo "malandato", martoriato del mondo. Le "rughe" della generazione in cui Manzoni si riconosce sono il frutto doloroso di questo continuo squamarsi del senso, di questo incessante sfarsi nella polvere delle Città dell’Anima, del volto antico di Dio. Eppure è solo accettando di confrontarsi fino all’osso, fino a piagarsi, con questo "continente accartocciato" che la parola dei poeti può eludere il rischio d’incistarsi nelle trappole del pensiero, nella "rete" sterile delle idee. La poesia non può essere che "energia dell’intero", battaglia senza requie per la bellezza, coraggio "dello stupore e dell’eccesso", rottura degli argini dello stile, anche velocità di colpi ben assestati "quando la delicatezza / viene minacciata dalla volgarità / o dal ribrezzo". Insufflata da questo calore, percorsa dai sussulti cardiaci di questo pathos la scrittura di Manzoni si curva su di sé, sul proprio tormentoso bisogno di chiarezza, solo per trascendersi: per liberarsi confessandosi; per schiudersi all’ appello di una "missione" d’amore e di giustizia (missione, insieme, "di giudice, difensore / testimone e imputato"); per cauterizzare, enumerandole, "tutte le ferite" di cui si fregia il tempo; per opporre al lungo addio novecentesco dell’umano a se stesso l’arrivederci di un sogno ancora possibile nella terra della poesia: la "reciproca comunanza" tra i vivi e i morti, tra i sommersi e i salvati, tra l’essere e il nulla, o fra il riso angelico della gioia e il "tremito incerto" delle lacrime.

di Paolo Lagazzi

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