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Il Tradimento
di  Gian Ruggero Manzoni

“E’ il partito che te lo vieta!”.
“Non ti azzardare a fuggire con quella cagna nera!”.
“Rischi grosso, Marco…tu stai rischiando grosso!”.
“Poi non dire che non ti avevamo avvertito!”.
“Se un qualche compagno ti sparerà in bocca lo farà perché così ci tradisci”.
“Noi ti stiamo parlando da amici…da fratelli di fede…non fare una cazzata simile…non buttare via il tuo domani…lasciala perdere…lasciala perdere…non ne vale la pena”.
A quelle parole il venticinquenne Marco Benedetti, militante comunista e Tenente Medaglia d’Oro al valor militare per la lotta condotta contro i fascisti e i tedeschi dal settembre 1943 all’aprile del 1945, uscì dalla sede della Polizia Partigiana sbattendo la porta. Alle sue spalle l’ultimo ponte con il passato era stato definitivamente tagliato o, almeno, così lui credeva.
Le strade di Milano erano vuote e la città si stava mischiando con le prime luci dell’alba. Solo un qualche merlo, scampato alle trappole degli affamati, lanciava richiami striduli in quella mattina di fine maggio ’45. L’Italia era stata liberata da poco più di un mese e i lutti, lasciati dalla guerra, continuavano a gravare ovunque; ferite profonde, slabbrate, sparse qua e là, come le grosse pietre scalcinate ancora abbandonate sui pavé o fra le rotaie divelte dei tram. Ma Marco, nonostante le minacce dei suoi compagni, aveva deciso. Era stanco di barbarie e uccisioni, di sparare, giustiziare e soffrire. La passione che aveva per Silvia superava ogni barriera ideologica, ogni sanguinosa divisione politica, ogni odio, ogni possibile rancore.
Era stato lui ad arrestare Silvia Romanini lo stesso giorno in cui Mussolini, la Petacci e altri gerarchi furono appesi a testa in giù a Piazzale Loreto, poco lontano da dove Marco abitava. Sì, era stato lui a catturarla. L’era andata a prendere da casa, Silvia si era rifugiata dai genitori, e, pistola alla mano, assieme a un compagno, Marco l’aveva condotta al più vicino comando del CLN dove, dopo un breve interrogatorio, la ragazza era stata rasata e, sulla fronte, con l’inchiostro, l’avevano marchiata con la svastica nazista, perché combattente a fianco delle SS italiane, quindi, caricatala su di un furgoncino aperto, le avevano fatto fare il giro del centro cittadino. Assieme a lei altre disgraziate, tutte a cranio rasato e con i volti pesti a seguito degli schiaffi ricevuti. A quella vista, il popolo milanese le aveva insultate, le aveva sputate, aveva lanciato sassi contro di loro, aveva fatto vedere i pugni chiusi e, solo con le armi imbracciate, i partigiani di scorta erano riusciti a evitare il linciaggio. Ma Silvia Romanini, nonostante le grida, gli scherni, le offese, il pericolo, aveva sempre mantenuto un comportamento dignitoso, un certo distacco, un atteggiamento freddo e composto, e non aveva pianto, non aveva giurato falsamente che era stata dalla parte dei fascisti e dei tedeschi perché costretta, perché la Brigata Nera e la Gestapo avevano minacciato di ucciderle il padre e la madre o perché terrorizzata a causa di chissà quali subdoli ricatti, come, del resto, continuavano ad urlare le altre sue camerate, nel vano tentativo di scagionarsi davanti ai Tribunali del Popolo. Silvia, dalla cattura, sebbene poco più che ventenne, con coerenza e indubbio coraggio, senza abbandonarsi a fanatici isterismi o a gesti di sfida, con calma, aveva sempre ammesso tutte le sue responsabilità e che, come ausiliaria volontaria, armi alla mano, non aveva che seguito ciò che il suo ideale le aveva imposto di fare. Ciò che l’amor di patria e l’ammirazione nei confronti del Duce le avevano suggerito. E questo fino all’ultimo, fino al 25 aprile.
Ascoltando quelle ammissioni, a volte mormorate con ingenua sincerità, Marco non era rimasto insensibile, come l’aveva colpito il fascino acerbo che la ragazza emanava. Il tenente non aveva potuto sottrarsi agli sguardi di Silvia, a quei suoi occhi verdi e profondi, a quella pelle del volto ambrata, a quelle mani affusolate, a quei capelli lisci, lunghi, castano scuri, portati a concio, quindi violentati e gettati nella spazzatura. Per questo, Benedetti, forte della sua posizione di graduato e decorato, era riuscito a non farla rinchiudere nelle affollate celle del carcere di San Vittore e a farle concedere, sebbene continuamente piantonata, gli arresti domiciliari in attesa del processo e del giudizio definitivo. E da quel giorno, tutti i pomeriggi, se non impegnato, si era recato a trovarla e con lei aveva dialogato a lungo, prima con ovvia difficoltà, considerate le opposte posizioni e le diffidenze reciproche, poi, via via, sempre più con tono amichevole, da coetanei quali erano, fino al punto di ritrovarsi in passioni comuni, come quella del nuoto o delle scalate alpine, nell’amore per i cani e per gli animali in genere, nel piacere del ballo o del leggere.
Ma l’assidua frequentazione di casa Romanini da parte del Benedetti non era passata inosservata ai partigiani comunisti i quali, più volte, in sede politica, avevano richiamato all’ordine il tenente, invitandolo ad abbandonare la ragazza al suo destino, fino a quando Marco non decise di sbattere la porta in faccia ai suoi compagni e scegliere la strada del sentimento e della rappacificazione con se stesso e col mondo.
Allontanatosi dalla sede della Polizia Partigiana, salito in macchina, il ragazzo si precipitò verso la casa di Silvia col proposito di lasciare l’Italia assieme a lei, di espatriare in Svizzera, di ricominciare tutto da capo, forse in Africa, oppure in Australia. Già da una settimana aveva impostato un piano di fuga perfetto. La Confederazione Elvetica era a non più di sessanta chilometri e a Lugano, Marco, aveva uno zio, già esule durante il fascismo, così si era procurato del denaro, delle carte false per Silvia e un lasciapassare a firma delle forze armate alleate e con sigillo dell’Arcivescovado di Milano, in modo da garantirsi una copertura neutra e accettabile da parte degli svizzeri.
Giunto dai Romanini, detto al piantone armato che stazionava sul pianerottolo che doveva prelevare la ragazza per condurla al comando del CLN per un confronto, entrato nell’appartamento, svegliata la giovane, presele le mani, dichiarato il suo amore, perso nello sguardo d’intesa di lei, la invitò a indossare il vestito più bello che possedeva e se la portò via sotto gli occhi smarriti e angustiati dei genitori.
Giunti in strada Marco non si trattenne e abbracciò Silvia. Lei rispose con trasporto. Al che si baciarono, a lungo, profondamente. Più di vent’anni di lotte fratricide si annullarono in quel gesto d’amore, così le atrocità della guerra, le sevizie, le vendette.
Furono quattordici i colpi di pistola che echeggiarono nell’aria mattutina. Marco cadde morto dopo il quinto, Silvia ruzzolò in una pozza di sangue al nono.
“Te l’avevo detto…”, masticò il primo assassino, “che la cagna se la stava facendo con quel rosso. Abbiamo fatto bene a tenerla d’occhio”.
“Dai andiamo!”, abbaiò il secondo assassino, “muoviti, ché rischiamo di beccarci una raffica dal piantone! Quella traditrice ha avuto quello che si meritava…”.
I due fascisti che avevano sparato, come spettri, si dileguarono nei vicoli della Milano vecchia.

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