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frammenti

da LA VOCE

di Gian Ruggero Manzoni

1.

 

La voce, dal profondo, sussurrò: “Lo sai chi sono?”.
L’ufficiale si guardò attorno. Nella trincea era solo. La neve, caduta durante la notte, aveva riempito quasi tutto lo scavo e, dietro e avanti, ogni affronto del terreno, le asperità, le costruzioni degli uomini, i sacchi pieni di terra nera, gli insulti creati per difendersi o per infierire erano cancellati, donando a quella ferita, che correva lungo tutta la vallata, di nuovo quiete, di nuovo pace. Anche i reticolati in parte erano stati coperti dal manto bianco. La neve aveva ridato natura alla natura, morbidezza alla morbidezza. Ancora, il militare, si guardò attorno. Nessuno. Sfilatosi il tascapane e appoggiatolo sul bordo della trincea, tolti i guanti di lana, portò le mani alla bocca e alitò caldo, quindi, senza curarsi dei cecchini nemici, finalmente alzò per intero la figura, cavò l’elmetto e si aggiustò il passamontagna. Le sue spalle e la testa svettavano al di sopra dello scavo. Era un bersaglio facile.
“Lo sai chi sono?”, ripeté la voce.
“Penso di aver capito”, sussurrò appena l’ufficiale, “…penso di aver capito”.
“Sei spaventato?”.
“Non più di tanto. Ti stavo aspettando. Se così dev’essere… così sia”.
“Non ti sapevo fatalista”.
“E’ solo stanchezza. Sì, sono stanco di dover stare sempre chinato”.
“Lo sai che quando deciderò dovrai seguirmi?”.
“Lo so”.
“Hai rimpianti?”.
“Non c’è uomo che non ne abbia”.
“Allora a presto”.
“A presto”, mormorò Riccardo Sensi.
Rimessi i guanti, rimesso a tracolla il tascapane, sollevato il bavere del cappotto, l’ufficiale, senza chinarsi, sempre a figura alta, osservando con infantile meraviglia i ghiaccioli pendere dai rami spogli degli alberi, a passi lenti percorse un lungo tratto della trincea fino al rifugio, all’interno del quale scomparve come divorato dal suolo.

 

 

 

2.

 

Neppure lo vide partire, lo sentì solo arrivare. Il rumore era come di uno sfrascamento a seguito di una saetta. Quindi un bagliore contenuto che gli parve giungere da dentro, non dall’esterno. Poi il caldo, una grande vampata, e il freddo, con il corpo che non rispondeva più. Altri colpi seguirono, ma il danno era già stato fatto. Di nuovo colpi su colpi. Una vera e propria gragnola. Tutti in volto, alla mascella, alla tempia, al naso, alla fronte. Il duro del tappeto, su cui la nuca rimbalzò un paio di volte. Ed ecco le tenebre. Un buio infinito. Non più luci. Non più il fragore eccitato del pubblico.
“Sono qui, Billy”, la voce era di donna, “…non ti preoccupare”.
Le mani di suo fratello ‘Boy’ e dei secondi lo sollevarono. Anche i secondi del suo avversario aiutarono per portarlo nello spogliatoio.
“Ricordi il volto di tua madre, Billy?”.
“Sì”, soffiò il pugile, mentre un rivolo di sangue gli usciva dall’angolo della bocca..
“Ricordi com’era bella quando impastava il pane?”.
“Lo ricordo”.
“Ricordi quando venni a prenderla?”.
“Era il 15 maggio del 1937 …avevo tredici anni”.
“Sono felice che tu lo ricordi”.
“Non posso non ricordarlo…è da quel giorno che la mia vita è cambiata”.
“Adesso sarai di nuovo quello di prima …quando vivevi dei sorrisi di tua madre”.
“Sì …sarò quello di prima …sarò quello di prima…”.
I secondi si davano da fare su quel corpo abbandonato. Arrivò il medico di servizio nell’arena. Cominciò il massaggio cardiaco, mentre ‘Boy’ soffiava aria nella bocca di Billy ‘Hand’ McCrory.

 

3.

Era a metà del ponte. Sotto, il fiume, aspirato dal caldo di quell’estate torrida, era diventato un rigagnolo che strisciava in mezzo alla pianura. La vecchia donna, Tatiana Nelgary, pedalava con fatica. Due borse pendevano dal manubrio della bicicletta, una piena di patate l’altra di rape. Il peso che sentiva sul petto e sulla schiena, a ogni giro di catena, aumentava, finché non si trasformò in una vera e propria morsa. Il dolore la scosse. La donna non si fermò, la sua unica figlia, ormai cinquantenne, poliomielitica e ridotta su di una sedia a rotelle, la stava aspettando a casa. Era inchiodata a quella sedia dall’età di dieci anni e Tatiana, vedova dal 1992, doveva provvedere per entrambe. Gli unici beni che possedevano erano una capra e alcune galline. La vigna era andata a fuoco con la guerra civile così, Tatiana, da contadina si era dovuta adattare a diventare la donna di fatica dei Rapic, una famiglia di serbi ortodossi.
“Tua figlia si chiama Olga… non è così?”, domandò la voce.
Tatiana frenò, barcollò, ma poi riuscì ad appoggiare i piede a terra.
“Si chiama Olga …non è vero?”.
Il volto della donna si snaturò, causa lo spasimo che le pugnalava il petto e il braccio sinistro.
“La vita ti ha messo alla prova, Tatiana, ma tu hai resistito ed io ti ammiro per questo”.
“Mia figlia si chiama Olga”, sibilò, “e mio marito si chiamava Zomo… me l’hanno ucciso i serbi …Allah non è stato buono con me”.
“Allah rientra ben poco nelle faccende umane… per lo più lo si evoca per scendere in battaglia… lo stesso è per Gesù… per il Dio degli ebrei… per le divinità degli indù…”.
“Ma Allah esiste?”.
“Se lo credi ciò basta”.
“Io credo in Allah e nella sua misericordia”.
“Sono felice per te… l’importante è credere”.
“Ma tu chi sei?”.
“Quello che tu vuoi credere”.
“Allora sei Allah!?”.
“Come vuoi tu…”.
“Che ne sarà di Olga?”.
“Ti prometto che ci penserò io”.
“Me lo prometti?”.
“Te lo prometto”.
Stanca di attendere la madre, Olga si era addormentata sulla sedia a rotelle quando il cuore, dopo un sobbalzo, le si fermò nello stesso istante in cui aveva smesso di battere anche quello di Tatiana.

 

4.

“Tu scrivi troppo”, disse la voce.
Pierluigi Odifreddi alzò di scatto il capo lasciando di battere sul computer. La grande stanza era illuminata solo dalla lampada posta sullo scrittoio. Il soffitto, alto più di dieci metri, com’era d’uso negli edifici nobili costruiti nel XVI secolo, ristagnava nel buio. Pierluigi scrutò verso l’alto, poi s’alzò e andò all’interruttore e accese lo stupendo lampadario di Murano. Come dal nulla, gli affreschi di Giovan Francesco Penni, che abbellivano le volte del palazzo, apparvero in tutta la loro bellezza. Il restauro, terminato da non più di un mese, li aveva riconsegnati al loro antico splendore. Odifreddi, scosso dai brividi, si rese conto che nella stanza non c’era alcun altro se non lui. Allora si precipitò nell’angolo vicino al camino dov’erano la televisione, l’impianto stereo, il sintonizzatore radio e pile di cd quasi tutti di musica dodecafonica… composizioni di Berg, di Webern e, ovviamente, di Schonberg. Con attenzione guardò che la televisione o la radio non fossero accese e, quando si accorse che la spina che dava corrente all’intero impianto era staccata dalla presa, il cuore gli finì in gola.
“Pensi veramente che l’universo sia razionale e che la sua razionalità sia comprensibile così come scrivi?”.
“Chi parla?”, urlò il matematico perdendo l’equilibrio e cadendo seduto sul pavimento.
“Sono l’unica certezza che l’uomo ha”, rispose la voce con forza.
“Se questo è uno scherzo falla finita! Non lo trovo per niente simpatico!”.
“Più siete istruiti e più è difficile che mi accettiate”, rimandò la voce.
Pierluigi si rizzò in piedi e tentò di uscire dalla stanza, ma non riuscì ad aprire l’unica porta che dava sul corridoio. Allora lo scienziato, in preda al panico, un panico ancestrale, si diresse verso le due finestre, ma anche quelle non si aprirono. Vista l’impossibilità di scappare, preso d’istinto l’attizzatoio, si mise in posizione di difesa e gridò: “Vieni avanti maledetto! Fatti vedere se hai coraggio!”.
“Io non ho sembianza, anche se voi uomini avete spesso tentato di darmela. Guardati allo specchio e mi vedrai”.
Odifreddi, con circospezione e sempre con l’attizzatoio brandito a due mani, si diresse alla specchiera dove, non senza titubanza, rifletté il suo volto. Dopo alcuni attimi, abbassando lentamente il ferro, mormorò: “Non pensavo che tu arrivassi così presto”.
“Io non ho età e tempo, quindi posso giungere in ogni istante… per esorcizzarmi e tentare di scavalcarmi Anassagora escogitò l’Intelligenza del Mondo, Platone l’Anima Mundi, Confucio la Grande Armonia, gli stoici il Pneuma, i cristiani lo Spirito Santo… ma è stato tutto inutile… non vi è servito per vincere il panico che da sempre v’incuto. Infine è con me che dovete fare i conti”.
Continuando a guardare il suo volto nello specchio, il famoso professore bisbigliò: “In questi ultimi anni sono stato talmente preso dal lavoro che avevo smesso di pensarti…”.
“Molte volte anche il lavoro è un esorcismo”.
“Allora proprio nulla vale di fronte a te… neppure il sapere!?”.
“Valgo io… ti ho già detto che sono l’unica certezza che avete”.
“E la mente?”.
“Lo strumento per non dimenticare che esisto… anche se spesso provate, sempre con la mente, di rimuovermi… di allontanarmi… di cancellarmi… di farvi, di me, una ragione, per non sprofondare nel terrore… per non cedere all’orrore”.
“Il terrore… l’orrore… ecco cosa leggo nel mio volto”.
“Perché sei un uomo emancipato…se tu fossi un indio dell’Amazzonia o un aborigeno australiano nel tuo volto leggeresti rassegnazione… inevitabilità… forse pace… finalmente pace. Se tu fossi un cervo o un elefante ti inchineresti a me e accetteresti, così come la gazzella, una volta catturata, accetta i denti del predatore… come l’albero, una volta abbattuto, non si pone più il problema delle sue fronde e della sua radice”.
“Ma allora perché ogni essere vivente, per natura, vuole riprodursi?”.
“Perché tu scrivi?”.
“Potrei dire perché non ne posso fare a meno… ma sarebbe una bugia”.
“Perché tu cerchi?”.
“Perché sono tormentato”.
“E da che cosa?”.
“Dall’idea di essere inutile… dall’idea di essere dimenticato…dall’idea di essere abbandonato… dalla paura del nulla”.
“Vedi che non serve che sia io a darti le risposte? Già tutto è in te… come io sono in te fin da quando sei nato”.
“Come tu sei me…”.
“Sì… come io sono te… alla buonora lo hai inteso… non ci voleva tanto per capirlo… ma ora vieni”.
“Ancora un attimo, ti prego, permettermi che lasci scritto quello che ci siamo detti, poi verrò”.
“Se ti fa piacere. Io non nego mai l’ultimo desiderio a quegli esseri che vivono basandosi sul bisogno e su tale debolezza. Fai pure, se ciò può rasserenarti e farti accettare la mia presenza e il mio invito”.
“No… ci ho ripensato… non lo lascerò scritto…”.
“Forse è meglio così… sarebbe un ulteriore gesto di vanità, e già tanti ne hai fatti”.


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