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"Andare verso la morte, uccisi ed uccisori, vittime ed
assassini, rovescia la ragione per cui si nasce e si cresce; gli atti quotidiani e le
energie spese non sono piu' un arricchimento del patrimonio umano, ma il contrario; ed
ancora di piu' quando questa scelta viene studiata e pianificata per uccidere cittadini
inermi o sparare nel mucchio: qui non e' persa solo la speranza nel presente, ma anche la
speranza nel futuro, e' la morte della
speranza stessa anche quando puo' sembrare di vincere. Vincere che cosa, se perdi te
stesso? La nonviolenza puo' rappresentare la conquista piu' alta
che i progressisti democratici possono fare per motivi etici, perche' nobilita non
soltanto i loro atti politici, ma anche il loro modo di vedere e di pensare il mondo e
l'essere umano nella sua centralita', dentro l'agire politico e le sue scelte fondamentali
per il futuro".
Cosi' scrive Ali Rashid, primo segretario della delegazione palestinese in Italia (in
"La nonviolenza e' in cammino", n. 739 del 23 novembre 2003), in risposta
all'appello di Farid Adly, che comincia con queste parole: "Noi intellettuali arabi e
musulmani, presenti in Italia e in Europa, non possiamo piu' esimerci dal prendere una
posizione chiara ed esplicita di rifiuto del terrorismo" (ivi, n. 738 del 23 novembre
2003).
Le prime parole del brano citato di Rashid ricordano un detto di Mohamed, il profeta
dell'Islam: "Disse l'Inviato di Dio, il Profeta: "Quando due musulmani si
affrontano, armati di spada, l'ucciso e l'uccisore andranno all'inferno". Allora gli
chiese il discepolo Abu Bakrah: "Questo per l'uccisore, o Inviato di Dio, ma perche'
per l'ucciso?". Rispose il Profeta: "Perche' bramava uccidere il suo
compagno"". (Detti e fatti del Profeta dell'Islam raccolti da al-Buhari, a cura
di V. Vacca, S. Noja, M. Vallaro, Utet, Torino 1982, cap. II, La fede, pp. 83-94, n. 13;
citato in Per un percorso etico tra culture, a cura di Pier Cesare Bori e Saverio
Marchignoli, Carocci, Roma 1996, seconda edizione 2003, p. 174). E' evidente l'assonanza
col vangelo: "Tutti quelli che prendono la spada, di spada periranno" (Matteo
26, 52), dove non si tratta solo del perire fisico, ma del perire umano.
***
Bisogna chiarire il famoso detto di Christa Wolf secondo cui tra
l'uccidere e il morire l'alternativa e' vivere. Il vivere, infatti, non sfugge al morire.
Il dilemma da cui vogliamo uscire vivi e' tra l'uccidere e l'essere uccisi. Questa e' la
tenaglia maledetta con cui la guerra, e ogni violenza, ti persuadono ad uccidere,
rubandoti l'umanita' per lasciarti la vita animale.
Da ogni guerra si torna o morti o assassini. Si salvano i disertori.
Uccidere e' morire ancor piu' che l'essere uccisi. Infatti, io moriro' certamente, o per
limite naturale, o per mano umana. Dal punto di vista
della mia situazione (diverso e' per chi mi uccide), il venire ucciso sara' soltanto
un'anticipazione temporale rispetto al morire. Forse potrebbe
essere addirittura meno doloroso e umiliante di una lunga decadenza e malattia. Non posso
sapere se guadagno o perdo vita nel venire ucciso, come Socrate non lo sapeva del semplice
morire. Perdo anni di vita, ma, come diciamo giustamente, conta di piu' dar vita agli anni
che anni alla vita.
Non e' affatto detto che venire ammazzati sia il massimo male, da cui difenderci con ogni
mezzo. Se mi uccidono mentre lotto per una causa giusta, muoio vivendo per un motivo
umano, e non per mero esaurimento biologico.
Invece, se io uccido, anche per difendermi dall'essere ucciso - per questo atto (difesa
legittima, omicidio legittimo, depenalizzato) la societa' non
mi condanna - mi faccio autore di morte, la morte mi usa; divento rapinatore di una vita
che devo guardare, anche quando e' colpevole, con rispetto sacro e assoluto, se voglio
sperare lo stesso rispetto. L'evoluzione umana non e' ancora arrivata, nelle morali, nelle
leggi, nelle stesse religioni, a saper superare la giustificazione dell'uccidere per
evitare di essere uccisi.
Anche le legge migliori (Costituzione italiana, Carta dell'Onu) giustificano ancora, entro
molti limiti, la guerra di difesa. Ma le alternative a questi
omicidi legittimati sono la necessaria direzione di ricerca, spirituale anzitutto, quindi
pratica e politica.
Se io uccido una vita tolgo rispetto alla mia vita. Questo e' il piu' serio fondamento
possibile alla pena di morte: non la vendetta, ma la presunta
perdita del diritto alla vita in chi toglie ad altri la vita, a cui hanno diritto. Eppure,
la pena di morte va ugualmente condannata, perche' bisogna
evadere, come individui e come societa', dal mimetismo riproduttivo del male, e
trascenderlo. La legge contro il crimine non puo' somigliare al
crimine.
Invece, se vengo ucciso, mi e' tolta la vita fisica, ma diritto e dignita',
indistruttibili, sono intatti, anzi risaltano, come afferma l'onore che
rendiamo alle vittime. La dignita' e' inviolabile: "Non vi spaventate per quelli che
possono uccidere il corpo ma non possono uccidere l'anima"
(Matteo 10, 28). Qui non si tratta di una sostanza immortale, come ha pensato una
filosofia, ma del senso e valore imperdibile della vita offesa,
che dunque non rimane perduta.
***
L'obiezione di coscienza alla pena di morte, alle economie omicide, alla
guerra, all'esercito, alla fabbricazione e commercio di armi, alle spese e
alla cultura militare, alle politiche che includono tutto cio' nel catalogo dei propri
mezzi; il rifiuto del reclutamento obbligatorio come di quello
mercenario, la propaganda antimilitarista, la condanna delle culture e politiche di
dominio; queste obiezioni oggi non spettano solo al soldato, ma
al cittadino e alla cittadina qualunque, ribelli nonviolenti alla societa' violenta, che
li vuole coinvolgere in mille modi. Tutto questo, unito
all'impegno costruttivo di gestione nonviolenta dei conflitti, e' l'atto restauratore di
umanita', che afferma l'uscita in avanti, non di lato, dal
dilemma bellico: uccidere o venire uccisi. A questa tenaglia, in entrambi i casi mortale,
sfugge anche l'obiettore,
come Franz Jaegerstaetter, che paga con la vita, che non si sottrae al venire ucciso da
quella stessa autorita' dia-bolica (cioe', operatrice di
divisione), che gli comandava di uccidere. E questa autorita' non e' solo il nazismo, ma
ogni stato o potere che fa guerra e violenza, qualunque sia la
ragione che adduce.
Sulla tomba di Jaegerstaetter, nel pellegrinaggio internazionale compiuto il 9 agosto, nel
giorno del sessantesimo anniversario del suo martirio-testimonianza, ho visto che un morto
come questo - incatenato, decapitato, sotterrato, tacitato, annullato - agisce, parla,
convoca,
insegna, ammonisce, testimonia, riunisce, incoraggia, consola, guarisce, riconcilia,
sprona, mette in cammino, costruisce politica e storia,
trasmette uno spirito, dunque vive: e' molto piu' vivo lui oggi di quanto era vivo e
potente chi allora lo ha ucciso. Molto piu' vivo lui di noi che vivacchiamo nella paura e
nell'incoscienza. Sperare si deve. Essere ucciso per la giustizia e' vivere e produrre
vita piu' del sopravvivere fisicamente. Uccidere e' morire piu' di colui che e' ucciso. In
Capitini c'e' questa idea: la vita senza morte comincia col non uccidere.
Percio' ogni causa giusta - come dice Ali Rashid - deve ripudiare attivamente l'uso della
morte, che restera' il contrassegno delle cause
ingiuste.
Fonte: La nonviolenza e' in cammino
Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo
a tutte le persone amiche della nonviolenza.
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo
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