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Quando la patria diventa idolo

di Enrico Peyretti *

In questi giorni di dolore e di compassione, come per tutte le vittime di guerra, per i soldati italiani uccisi in Iraq, e' necessario considerare anche un aspetto che traspare, a ben vedere, da quel tanto di retoricamilitare e patriottica che si aggiunge ai sinceri sentimenti popolari nei personaggi piu' usi al potere. La Patria, nelle sue pretese, che accompagnano il suo valore, esige sacrifici umani. Le politiche li mettono in conto. Allora vorrei proporre oggi questa riflessione di oltre due anni fa, scritta per la rivista di ricerca spirituale che era stata diretta da padre David Maria Turoldo: e' apparsa col titolo Quando la Patria diventa idolo, in "Servitium. Quaderni di ricerca spirituale, Sotto il Monte (Bergamo), fascicolo "Idolatrie", marzo-aprile 2001, pp. 66-78.

1. La Patria merita di essere amata, deve essere amata. Dalla Patria, come dai genitori, abbiamo ricevuto tutto: il corpo, la cultura e la lingua, la terra e le tradizioni, il modo col quale tentiamo di vivere, la compresenza in noi degli antenati e dei concittadini. La Patria ci ha generato. Se la vita e' cosa buona, pur con le sue fatiche, siamone grati alla Patria.
La Patria ci nutre. E' la nostra terra, dove poggiamo i piedi, dove abbiamo le cose della nostra vita. Senza la Patria saremmo dei vagabondi, degli sbandati. Pensiamo ai "senza patria": sono i profughi, i rifugiati (oggi 22 milioni, un grande popolo di vittime), sradicati dalla bufera delle guerre e dalla violenza delle "pulizie etniche", mutilati delle loro piu' prossime relazioni umane; sono gli emigrati per necessita', per fuggire da un'oppressione. E' una delle condizioni umane piu' tormentose, io credo.
Perche' noi, in cio' simili alle piante, apparteniamo davvero ad una terra, ad un paesaggio, un'aria, un punto del suolo del mondo. Possiamo viaggiare dappertutto, abbiamo diritto a non essere rinchiusi, ma in quella terra, di nascita o di scelta, noi siamo radicati. Anche quel suolo materiale - che poi vuol dire casa, societa' - e' Patria.

2. Perche' allora dico che diventa un idolo, con intollerabili pretese da idolo? Perche' l'idolo che pretende omaggi servili e sacrifici divoratori si installa proprio nelle cose buone. L'idolo appare buono, appare come un bene, e' l'ombra del bene (vedi l'articolo di Aldo Bodrato in questo fascicolo ["Servitium", marzo-aprile 2001]). L'idolatria e' religiosa.
L'asservimento ad un idolo ha le apparenze del sentimento buono e giusto della gratitudine, della dedizione.
Forse la Patria (naturalmente con la maiuscola) e' oggi un po' spiazzata da altri concorrenti nel pantheon degli idoli, pero' non se la passa poi tanto male. Si puo' allargare all'Europa, persino al mondo (beh, non di piu' che a quello "sviluppato"), oppure restringere alla cosiddetta Padania o alla propria vallicella; si puo' presentare in veste sportiva di squadra del cuore cittadina, o nazionale, nell'agone calcistico o in quello piu' nobile olimpionico; puo' persino competere nella cultura, per un premio Nobel o per un Oscar, col resto del mondo; in ogni caso e' la nostra Patria. E noi siamo suoi.
Siamo suoi. E lei e' nostra. Un'appartenenza trascendente e viscerale. Ci tremano le viscere quando sul pennone piu' alto sale la nostra bandiera (e certamente e' meglio che vederla alzare in battaglia contro altre patrie) e risuona l'inno nazionale. Ha vinto la Patria, abbiamo vinto noi. La Patria ci da' questi fremiti perche' e' grande, ci avvolge, ci ha generato, ci nutre, ci identifica. E anche ci chiama, ci chiede, puo' chiedere, puo' esigere tutto, va amata, va servita.
La Patria fa i nostri interessi, ci difende dagli altri, arricchisce noi e non gli altri. Come non esserle grati? Come non obbedirle? E' la piu' bella, come la "bandiera dai tre colori" (diceva una canzone che cantavamo da piccoli). E' anche la piu' severa.

3. Strano nome, il suo, un po' mostruoso, ermafrodito: Patria, un padre femminile, una madre che e' padre. Qualcuno ha gia' lavorato su questo potente nodo simbolico, che dice totalita', non lascia quello scampo che ancora troviamo nella dualita' dei nostri genitori naturali. E' tutto.
Paterna come Dio, materna come la natura. Dio naturale e natura divina. Piu' completa dei genitori. Ora la Patria comincia ad incombere, a farmi paura. E se non la amiamo e non le obbediamo? Siamo empi, cioe' non pii, non grati, non siamo persone per bene. Siamo anarchici, pericolosi.
Del resto, la Patria ci pensa lei a farsi obbedire. Come? Ci ha pensato per tempo. Si e' fatta Stato (ecco il suo lato maschile, troppo maschile), pur con tante eccezioni: ci sono al mondo meno di 200 stati, ma 2.000 nazioni.
Oggi, dissolto uno dei due imperi, e' venuta una stagione di "autodeterminazione dei popoli", cioe' delle patrie. Va bene l'indipendenza, l'autogoverno, ma il nazionalismo chiuso, l'etnicismo orribilmente "pulito", e la volonta' a tutti i costi di essere patria nella forma dura, armata,
sovrana dello Stato, sono brutte versioni dell'autodeterminazione: una piccola patria senza e contro e fuori dalla grande vera Patria comune che e' l'umanita'.
Lo Stato e' storicamente basato su tre colonne: amministrazione (anche della giustizia punitiva: le pene in cambio del delitto, far soffrire chi ha fatto soffrire, male piu' male), moneta, esercito. Fa la legge e la fa rispettare.
Ha la forza. Anzi, il "monopolio della violenza legittima" (Max Weber).
E' importante la distinzione tra forza e violenza: la forza legale non e' da confondere con la violenza arbitraria. La legge sancita dalla forza dello Stato, forza regolata e limitata dalla legge, e' altra cosa e preferibile alla forza senza altra legge che se stessa, detenuta dai vari poteri di fatto, dalle varie mafie. Questa forza e' pura violenza. Dunque, la Patria-Stato e' molto meglio dell'anarchia violenta (che distinguo dalla ideale anarchia nonviolenta) e della mafia.
Ma lo Stato (nazionale o plurinazionale, di una o piu' patrie), in definitiva, si fa obbedire usando la morte. Il dare la morte e' l'ultima sua risorsa, e pretesa. Alcuni stati hanno ancora la pena di morte, altri l'hanno abolita. Nessuno ha abolito il diritto di guerra, che e' un diritto di morte, una pena capitale collettiva inflitta ai "nemici" indipendentemente da qualunque loro colpa personale, quindi ancora piu' iniqua di qualunque sentenza capitale. Il diritto di guerra oggi viene ristretto (programmaticamente e nominalmente) alla difesa e alla "ingerenza umanitaria". Ma c'e' una guerra che non sia stata giustificata come difesa di un diritto conculcato? Anche Hitler rivendicava lo "spazio vitale" per la Germania schiacciata dalla stolta "pace punitiva" del 1919.

4. Dunque, e' la morte l'ultima ragione (extrema ratio) e l'ultimo mezzo dello Stato per affermarsi e difendersi, all'esterno come all'interno. E' la morte data, amministrata, usata, come uno dei suoi mezzi d'azione (sia pure l'ultimo, ma a volte usato anche tra i primi).
Non e' questa una pretesa divina? Il Dio vivente e' Dio di vita e non di morte, ma la scimmiottatura umana di Dio impugna e usa la morte, come il massimo potere (distruttivo) sulla vita. Per Hobbes, teorico dello Stato moderno, ancora sostanzialmente seguito, esso e' un "dio mortale", una divinita' terrena, terribile come il mitico mostro biblico Leviathan, un dio necessario per imporre la pace agli uomini, incapaci di convivere se non vi sono costretti, in definitiva con la minaccia di morte (anche se in Hobbes c'e' contraddizione tra lo scopo primo dello Stato, che e' garantire la vita fisica, e i suoi poteri totali).
"Quando lo Stato si prepara ad uccidere si fa chiamare Patria", ha scritto Duerrenmatt. E' il potente ricatto materno-paterno sul figlio: devi essere grato per la vita ricevuta fino ad obbedire facendo tutto, anche uccidere, anche essere ucciso. Tu hai bisogno della Patria e la Patria "ha bisogno di te", come si scriveva sui manifesti per il reclutamento. Tu puoi perire perche' la Patria viva, e faccia vivere chi ti e' caro. Dimostri amore e lealta' spogliandoti della padronanza dei tuoi atti, dell'estremo dei tuoi atti - uccidere e morire - a favore del comando che la Patria-Stato ti da'.
Questo e' cio' che puo' esigere un dio-padrone.
Quando Abramo penso' che Dio gli chiedesse questo, si preparo' a farlo, seppure con pena. Dio gli fece capire, e fa capire a noi una volta per sempre, che il vero Dio non chiede e non vuole questa obbedienza. Il rispetto della vita va opposto anche ad un eventuale dio, e cosi' serve a distinguere il vero Dio della vita dagli idoli mortali, ad esso opposti, ma apparenti sotto le sue spoglie.
L'idolo Stato continua a chiedere ai padri e alle madri il sacrificio dei figli. Non e' un caso che la tomba del milite ignoto, a Roma, simbolo imponente e sgraziato di questa serie immensa di sacrifici imposti ed ottenuti, si chiami "altare della Patria".
La sovranita' e' il carattere idolatrico dello Stato. Significa insubordinazione a qualunque ordine, non riconoscere nulla al di sopra.
Sovranita' e' dunque sopraffazione. Lo Stato sovrano e' di natura sua belligeno. Sovranita' significa assolutezza, anarchia, anomismo, cioe' illegalita' rispetto all'umanita' intera. Per dare un'anima a questa pretesa, si ricorre alla figura della Patria, come un organismo vivente di cui noi saremmo pure cellule, dotato di diritti personali di indipendenza.
Oggi vari fenomeni, in parte negativi in parte positivi, riducono di fatto il potere sovrano che gli Stati si sono presi. Ma alla sovranita' dei vecchi Stati succede la sovranita' di poteri economici e militari ancora meno visibili e controllabili, meno democratici dei meno democratici tra gli Stati. Idoli dalle mani ancora piu' libere e piu' rapaci, questi nuovi poteri sembrano vestirsi di un'idea piu' grande delle patrie, la globalita' della terra e dell'umanita': in realta', globale e' solo la dimensione de-territorializzata dello sfruttamento, non e' realizzata l'uguaglianza mondiale dei diritti umani, ne' la comunita' mondiale di rapporti di collaborazione e di scambio giusti, ne' la Patria umana planetaria, che Balducci profetizzava. Anzi, questa globalizzazione separa, assai piu' dello Stato moderno nella sua evoluzione sociale, inclusi ed esclusi, cittadini del mercato ed "esuberi" inutili perche' incapaci di acquistare. Di acquistare anche le medicine, per cui l'economia e la scienza li lasciano morire delle piu' curabili malattie. L'idolo e' sovrano.

5. Oggi si denuncia l'uso dei bambini soldati, in Africa. Lo sfruttamento militare degli adulti c'e' sempre stato, nella realta', se non nei codici.
Kant lo denuncio' chiaramente: negli eserciti permanenti, che "costituiscono essi stessi la causa di guerre aggressive", "assoldare uomini perche' uccidano o si facciano uccidere ha tutta l'aria di trattarli come semplici macchine e strumenti in mano altrui (dello Stato), e cio' non si accorda affatto con il diritto dell'umanita' insito nella nostra stessa persona" (Per la pace perpetua, art. 3 preliminare). Sovrani e governi hanno usato, costretto, violentato, i soldati di tutte le guerre, li hanno resi omicidi e fatti morire. Brecht, in Madre Courage, cosi' descrive l'opera del reclutatore di uomini per la Guerra dei Trent'anni: "Dice il pescatore al verme: vieni, andiamo a pescare". Se andarono volontari, e' ancora peggio, perche' furono persuasi dalle propagande dell'uccidere. Ben di rado hanno veramente difeso diritti delle persone e dei popoli, quasi sempre gli interessi dei potenti.
L'abolizione della leva, avviata ora anche in Italia, toglie forse questa strumentalizzazione della persona umana? No, per nulla. In luogo dell'obbligo viene l'adescamento di uomini e anche di donne, e la corruzione ulteriore del concetto di difesa. Imparare ad uccidere e distruggere come
professione, attrezzarsi da specialisti a risolvere cosi' le controversie, diventa un lavoro pagato come un altro (con privilegi di assunzione nel pubblico impiego), e' visto come una funzione normale nella societa', non una tragica necessita'.
Cosi' offesi, usati per offendere, i soldati sono stati poi ipocritamente onorati nei vari monumenti ai "caduti" (eufemismo ipocrita, per non dire "ammazzati"), eretti fin sulle piazzette dei piu' piccoli paesi. La retorica delle patrie matrigne ha chiamato caduti - come se fossero liberi alpinisti - i figliastri mandati ad uccidere e morire, uccisi per non avere abbastanza e piu' prontamente ucciso. Due sono le figure che rappresentano quelle povere vittime, colpite tanto dalle loro patrie quanto dalle patrie "nemiche": il vincitore che alza la bandiera o il moschetto, il colpito che sta per ottenere la "bella morte". Una eccezione da segnalare e' il monumento ai morti in guerra di Termignon, villaggio della Haute Maurienne, in Savoia, a circa 100 km da Torino: una madre piangente, col capo chino e il volto nascosto tra le mani. La famosa "Pleureuse", il piu' onesto dei monumenti, dice che le patrie fanno piangere le madri.
Oggi le guerre sono soprattutto interne agli stati, piu' che guerre fra stati. Il fenomeno e' dovuto alla frammentazione dell'impero sovietico, al disfacimento della vecchia forma di stato, superata verso l'alto dalla globalizzazione e verso il basso dal localismo etnico, e anche al nuovo diritto internazionale dell'Onu, che ha ridotto i casi di guerre inter-statali. Nel Novecento si calcola che siano state piu' numerose le vittime in guerre degli Stati contro i loro stessi cittadini (genocidi degli armeni, degli ebrei, repressioni sovietiche, in America Latina.) che le vittime, gia' tantissime, in guerre tra Stati. Queste ultime, poi, sono ormai molto piu' civili che militari.

6. Non si vuol negare, con tutto questo, che il dovere-diritto (prima dovere, poi diritto) di difesa - difesa degli altri e anche di se' - comporti in qualche tragica e rara circostanza la necessita' di uccidere.
Questa necessita' - come precisa bene Jean-Marie Muller in Le principe de non-violence (Desclee de Brouwer, 1995), correggendo anche Gandhi - e' appunto una necessita' e mai un dovere, perche' nella necessita' non c'e' liberta', quindi non c'e' dovere. Il dovere e' sempre di non uccidere, ed e' un dovere assoluto. Se si verifichi quella tragica necessita' - per esempio nel caso che qualcuno sia attualmente sul punto di uccidere un altro, e davvero non ci sia altro modo di impedirglielo - puo' giudicarlo solo, in coscienza, la persona implicata in quella circostanza. Mai e poi mai qualcuno puo' comandare ad un altro di uccidere. Mai e poi mai si puo' obbedire ad un ordine di uccidere, dato da altri, e non imposto dalla tragedia in cui si e' coinvolti, per evitare un male piu' ingiusto. Se questo ragionamento e' valido, come mi pare evidente, esso deve scardinare del tutto la struttura statale che organizza la morte sistematica dei nemici per "risolvere" (falsamente) una "controversia internazionale" (art. 11 della Costituzione). L'esercito dunque e' sempre immorale, strutturalmente
contrario al dovere primo della vita umana. Gli eserciti vanno semplicemente aboliti dal mondo, esattamente come i sacrifici umani, la schiavitu', la pena di morte, di cui sono il cocktail legalizzato e imposto come rispettabile. Il popolo che per primo lo capisce e lo fara', salira' un nuovo gradino di civilta'.
Come ordina di uccidere, cosi' lo Stato ordina di morire, se cio' serve alla strategia bellica. Ondate di uomini venivano gettati nel fuoco della mitraglia, durante la prima guerra mondiale, per conquistare qualche metro di terreno. In democrazia e' un po' piu' difficile farlo accettare, ma il principio non e' rinnegato. Invece, tu ed io possiamo disporre della nostra vita per una causa degna, per salvare altri, per difendere tutti, ma nessuno puo' disporre di noi sostituendosi alla nostra coscienza e al nostro diritto. L'idolo pretende il diritto di vita e di morte.

7. Facile obiezione: la possibile aggressione armata altrui ci costringe ad attrezzarci adeguatamente, cioe' ad avere un esercito. Non posso avviare una risposta completa nei limiti di questo articolo. Basti dire che il nuovo diritto internazionale cosmopolitico, ancora in coabitazione conflittuale col vecchio diritto degli stati sovrani, vieta la guerra, permette solo l'autodifesa immediata, obbliga a devolvere la controversia alle Nazioni Unite. Le quali - si veda lo Statuto dell'Onu - devono disporre, dopo i mezzi non armati di difesa della pace, anche di mezzi armati, ma sotto il proprio comando. Le maggiori potenze non hanno mai permesso il costituirsi di questa forza sufficiente dell'Onu, che hanno piu' volte esautorato. Tale forza e' per principio forza di polizia, e non esercito per azioni di guerra, stante la differenza sostanziale, e non verbale, tra polizia (se agisce legalmente) ed esercito che fa la guerra. La polizia ha pure le armi, ma armi leggere, e il suo senso e' contenere e ridurre la violenza.
L'esercito ha armi quanto piu' distruttive possibile, e il suo senso, per poter vincere, e' infliggere il maggior danno e dolore possibile al nemico.
La polizia, se agisce legalmente, riduce la violenza, l'esercito la accresce. L'Onu e' l'unica legittima polizia del mondo. Gli eserciti moderni non sono legittimi. Le politiche di difesa, come quella italiana col Nuovo Modello di Difesa (si legga il progetto del 1991, in corso di attuazione), sono in una logica contraria a questa, sono illegali per il diritto pan-umano vigente. Lo Stato che esige ancora di addestrare uomini e apparati ad uccidere, con mezzi potenti di morte e di dominio, e' un idolo omicida.
Cosi' e' anche la Repubblica italiana. Nella classe politica pochissimi, quasi nessuno, pensa questo chiaramente. L'analfabetismo della pace attraversa tutte le posizioni politiche, da un estremo all'altro.

8. Dunque, la Patria e' una realta' molto ambigua. Buona e violenta. E' anche veramente madre. Ma ci usa come padrona delle nostre vite, e fa di noi degli omicidi. Non si puo' vivere bene senza patria. Ma non si vive bene quando la Patria decide di usarci come pedine mortali e mortifere. Ambigua, proprio come gli idoli. I quali non sono orrende falsificazioni, non sono brutti come il diavolo. Ci ingannano e ci dominano proprio perche' hanno qualcosa della bellezza e grandezza di Dio.

9. La nostra Costituzione chiama "sacro" il dovere di difesa della Patria.
E' l'unica volta che compare questo aggettivo, di risonanza religiosa. La difesa, nel momento dell'Assemblea Costituente, era concepita solo come difesa militare, ma, in quanto dichiarata dovere "del cittadino", senza specificazioni, implica anche una difesa civile, non militare, come ha interpretato chiaramente la Corte Costituzionale (vedi il miglior trattato giuridico in materia, quello di Rodolfo Venditti, L'obiezione di coscienza al servizio militare, terza edizione, Giuffre', Milano 1999, pp. 17-18 e 87-88). Il carattere armato e il carattere sacro si fondono nella figura dell'esercito sacralizzato, assolutizzato. La sacralizzazione della difesa, sia della vera religione dagli infedeli, sia della patria dal nemico, da' luogo ad un assoluto paradigma polemico di rappresentazione dei rapporti umani (cfr. Roberto Mancini, Esistenza e gratuita', Cittadella, Assisi 1996, p. 97) che giustifica in chi gestisce la difesa - l'istituzione esercito, posto al di sopra di ogni critica, insignito di simbolismi di superiorita' - il diritto di comando assoluto, fino a disporre delle vite dei sottoposti.
Quando il conflitto viene affidato totalmente, in monopolio, alla logica extra-umana delle armi, e dell'istituzione a cio' attrezzata, la giusta ragione che la terra patria e' necessaria alla vita, diventa la falsa ragione che la vita umana e' necessaria alla terra patria. Qualche verita' umana si e' qui capovolta. Questo accade perche' la cultura del conflitto e' storicamente del tutto deformata: invece di essere gestito e trasformato in senso costruttivo, mediante la forza umana della resistenza e della ragionevolezza, e' consegnato al gioco casuale, extra-umano, delle forze armate, che da' ragione alla parte fornita di maggiore potenza distruttiva. La forza di fatto prevalente e' riconosciuta come fosse un diritto. Solo per puro caso, la prevalenza nelle armi puo' coincidere con la ragione. Tirare a sorte il titolo di vincitore sarebbe assai piu' ragionevole e prudente.
(Nell'impossibilita' di dire qui meglio qualcosa della cultura nonviolenta del conflitto, mi limito a rinviare a Arielli e Scotto, I conflitti, Bruno Mondadori, Milano 1998 [nuova edizione col titolo Conflitti e mediazione, Bruno Mondadori, Milano 2003], e al recente ampio Johan Galtung, Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano 2000).

10. Come districarci in questa ambiguita', senza adorare e obbedire un idolo, ma senza sottrarci al servizio agli altri, alla comunita' da cui riceviamo tutto? E' un continuo lavoro di discernimento, da fare con scienza e coscienza, con vigilanza e coraggio. Il luogo insostituibile di questo discernimento e' la coscienza personale, attenta e informata, libera e generosa, non certo isolata ma "in reciprocita'" (Bernhard Haering) con le altre coscienze vigili.
Discernere vuol dire affrontare la fatica seria di non dare sempre ragione a cio' che la nostra Patria, le istituzioni del nostro popolo, hanno fatto. La nostra storia non e' tutta giusta, come non e' tutta sbagliata. E' stato fatto osservare con rispetto al Presidente Ciampi che non tutti i soldati che hanno combattuto e sono morti nelle guerre combattute dall'Italia, comprese le criminali guerre fasciste, compresa quella in criminale combutta col nazismo, sono da commemorare con elogi, come lui ha fatto in piu' di unaoccasione. Con pieta', si', perche', convinti o obbligati, hanno anche sofferto mentre facevano soffrire altri. L'amor di Patria non e' indiscutibilita', specialmente in quell'atto cosi' carico di pretese assolute, che e' la guerra.

11. E' dunque lo sviluppo delle coscienze che da' la giusta misura all'obbedienza. La quale, di per se', "non e' piu' una virtu'", perche' "ognuno e' responsabile di tutto", come chiari' definitivamente Lorenzo Milani. Per ridurre un uomo a strumento per uccidere, cioe' a soldato, a funzionario obbediente (tipo Eichmann), a torturatore fedele, basta aumentare in lui la dose di spirito di obbedienza, di fedelta' ad ogni costo all'autorita', in definitiva alla Patria. E' provato che persone del tutto "normali" diventano capaci di eseguire qualunque ordine quando la fonte dell'ordine appare loro insignita di alto valore: la Patria, ma anche la scienza, lo sviluppo, il benessere, la liberta', la sicurezza, anche la giustizia, e via idolatrando. Si puo' rinviare a Hannah Arendt e al suo La banalita' del male [Feltrinelli, varie edizioni], ma, piu' prossimamente a noi, leggere i resoconti della Commissione Verita' e Riconciliazione in Sudafrica (nei volumi di Marcello Flores, Verita' senza vendetta, Manifestolibri, Milano 1999, e Antonello Nociti, Guarire dall'odio, Franco Angeli, Milano 2000), per vedere il male che si puo' compiere per obbedienza. Piero Giorgi, docente in Australia, constata che la violenza ha origini non congenite, ma sociali e culturali, quindi nell'obbedienza conformistica (The origins of violence by cultural evolution, Minerva E & S, Brisbane 1999), mentre ci sono oggi sulla terra 45 culture nonviolente.
Riassume il problema un lavoro inedito di Angela Dogliotti Marasso (Un percorso di educazione al conflitto: dai presupposti teorici alla realizzazione pratica, Universita' degli Studi di Firenze) nel paragrafo "Fonti sociali della violenza: obbedienza acritica, indifferenza, pregiudizio".
Possiamo dire: non c'e' solo il "peccato originale" (che e' interpretabile anche come una sorta di dato culturale profondamente interiorizzato fino dalla prima educazione), c'e' anche "la luce che illumina ogni uomo" (Giovanni 1, 9). Ma le dottrine politiche assumono in generale la violenza umana come un dato congenito fatale, che lo Stato deve tenere a bada per mezzo di una piu' efficace contro-violenza, in nome della quale e' facile giustificare ogni abuso. Anche i programmi di rivoluzione palingenetica hanno in genere ritenuto necessaria l'ultima violenza per togliere ogni violenza, e cosi' l'hanno perpetuata e a volte persino ampliata, per obbedire ad un bene promesso, ed anche sperato sinceramente ma stoltamente, mediante questa via violenta. L'idolo e' vestito di ogni bene.

12. La Patria non e' una terra, un governo, e neppure una lingua, una storia, un popolo, se non ha un orizzonte che la trascende. Lo dice bene Raimon Panikkar in I fondamenti della democrazia (Edizioni Lavoro, Roma 2000, pp. 24-25): "Senza l'elemento divino non puo' esservi pace ne' giustizia tra gli uomini. Se la mia opinione vale quanto la tua e non esiste un'istanza superiore, dobbiamo allora ricorrere alla violenza della forza", che sia quella delle armi o della maggioranza. Questo ordine "sacro" non si basa su rappresentanti - "la teocrazia rappresentativa e' mostruosa" - ma su simboli. La democrazia delle fazioni, ovvero dei partiti, funziona se si riconosce e si accetta, senza imposizione, un tutto al di sopra delle parti, che lo si chiami patria, oppure Dio, o pace, giustizia, o altro valore. La Patria e' uno scopo degno comune. Senza uno scopo essenziale comune, pur nel dissenso competitivo sulla scelta dei mezzi, non c'e' un popolo, non c'e' Patria. In tal caso, ed e' un caso terribilmente attuale, la cosa che ci ordina con la legge e la forza di obbedirle, fino a morire ed uccidere, non e' neppure una criticabile realta' umana, ma e' un'accozzaglia, un fantasma di popolo, un guscio vuoto riempito dal piu' abile o piu' violento o piu' abbindolatore che, in democrazia, se lo e' fatto consegnare per suo uso privato.
Ho descritto l'idolo politico, che prende il nome altrimenti nobile di patria. Il pericolo d'Italia (parliamo ora solo di noi) non e' questo o quel dolce incantatore e sopraffattore, ma la discordia fondamentale degli animi ridotti alla miseria dell'individualismo e del privatismo, senza una meta valida comune, senza un vivere per gli altri, per l'umanita', anzitutto nei suoi membri piu' bisognosi. E dunque il pericolo e' la condizione degli animi pronti e proni ad adorare la forza. Idolatria, appunto, interiorizzata. "C'e' un totalitarismo che viene dall'alto, ma anche un totalitarismo che viene dal di dentro", diceva nel 1958 Romano Guardini parlando in onore dei giovani martiri antinazisti di Monaco (La Rosa Bianca, Morcelliana, Brescia 1994, p. 56). Dando un avvertimento di valore perenne, egli parlava anche per noi.

13. Non sono d'accordo col voto degli italiani all'estero. Mi sembra fondato su un'idea di Patria come appartenenza tutta biologica, di sangue, e non civica e politica. E' giusto che io abbia il voto amministrativo nella citta' in cui risiedo e lavoro, dove usufruisco e contribuisco ai servizi, non nella mia pur amatissima citta' di nascita, se non vi abito. E' giusto che abbia lo stesso voto l'immigrato ormai inserito, che contribuisce alla vita di tutti, qui. Ma chi si e' stabilito lontano, altrove, potra' partecipare in qualche modo alla memoria e alla vita spirituale e culturale della Patria, ma non e' membro attuale e attivo della res-publica. Col voto amministrativo e politico, solo di questa si tratta, della cittadinanza repubblicana, (gestione di beni e servizi, orientamento verso scopi comunitari), e non dell'appartenenza di sangue e di spirito, che e' idea poco modesta e anche pericolosa.

14. Termino questi appunti aperti con una indicazione positiva. L'esperienza sopra citata della Commissione Sudafricana Verita' e Riconciliazione (con esperienze analoghe, ma meno chiare e ufficiali in America latina) e' significativa. In una condizione di necessita' (perche' attuare la completa giustizia penale avrebbe spaccato il paese in una guerra civile), il Sudafrica, per merito dei suoi leaders civili e religiosi, ha inventato una strada: rinunciando a punire i colpevoli di violenza (tanto repressiva quanto rivoluzionaria), in cambio della loro completa ammissione di responsabilita', e del loro confronto con le vittime, a cui veniva ridata tutta la dignita' e la parola pubblica, quello stato ha rinunciato a punire, a vendicare quei delitti politici. In fondo, la giustizia vendicativa statale, che ha il merito di sostituire la vendetta privata, si attribuisce tuttavia una funzione di carattere divino, superiore. Per questo, in nome dell'evangelico "non giudicate", Tolstoj negava tale potere allo Stato. Il Sudafrica, con questa esperienza, che andra' bene valutata e meditata, accenna ad una evoluzione possibile: piu' che punire e vendicare, la societa' politica ha il compito, certo, di neutralizzare sul momento l'individuo attualmente pericoloso, ma in seguito deve soprattutto operare per ricostruire il rapporto umano violato dalla violenza. La riconciliazione puo' avvenire solo nella completa verita', ma, su questa base, va cercata piu' della pena vendicativa, che e' ancora violenza. Se gli stati proseguiranno questa ricerca, potranno deporre una pretesa idolatrica, per assumere una funzione piu' umana e piu' laica, che e' poi anche il modo piu' vero di rispondere al pensiero di Dio sull'uomo. Il vangelo (Matteo 5, 25-26; Luca 12, 57-59; cfr. 1 Corinti 6, 1-6) chiede di accordarsi, anche con un compromesso, e di riconciliarsi, piuttosto che andare dal giudice, la cui sentenza non puo' guarire la ferita nel rapporto tra persone.

Enrico Peyretti - Collaboratore del foglio quotidiano La nonviolenza e' in cammino, è uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, in Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace, Annuario della pace. Italia / maggio 2000 - giugno 2001, Asterios, Trieste 2001. Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 de La non violenza è in cammino.

Fonte: Peacelink

Pubblicato in LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO N. 733 del 18 novembre 2003

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo

e-mail: nbawac@tin.it


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