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campi coltivati» (pp. 100-101). Nei loro percorsi, partecipano al moto di Bahia del 1837, si accordano con i pericolosi ribelli Ferrapos, fanno amicizia con gli indios Bavaxero e li aiutano contro i loro nemici Texeco, decidono di punire gli infidi Bandeirantes, «gente di confine, sciacalli, di cento razze e nazionalità diverse, mischiati come carogne all’inferno, (…) briganti, mercenari al soldo di questo o quel proprietario, cacciatori di taglie e di schiavi, predoni, razziatori di bestiame, stupratori, seviziatori di fanciulli, rapinatori» (p. 126). Passano di avventura in avventura e mai tradiscono l’ideale.

Una bella invenzione narrativa sono i segni impressi sul cranio del coriaceo  personaggio principale, che attirano la curiosità di una cocorita di nome Felicita, che l’autore stesso ha sorprendentemente definito, in un’intervista, «una specie di spirito santo» svolazzante dal pertinace moribondo al frate scrivano (Nevio Galeati, Quei patrioti dimenticati, "Il Resto del Carlino" 29 dic. 2002). Leggiamo un passo del romanzo: «(…) il Compagnoni si lasciò ricadere sui cuscini, perché per la foga si era piegato in avanti, facendosi forza sui lombi. Fra Martin depose la penna e si portò la mano destra alla bocca, in un gesto di meditazione, poi con le dita iniziò a strofinarsi le labbra, mentre gli occhi tornavano a quel che aveva scritto. Venne interessato dal frullo d’ali di una cocorita la quale, dall’armadio posto a lato della porta, volò sulla testa dell’italiano e iniziò a sfregare il beccuccio sulle lentiggini da cui era segnata. Solo allora il frate si avvide che le piccole macchie, nel loro intreccio, creavano le forme di una stella, al centro della quale saltellava l’uccello, vibrante e ignaro della sorte del suo padrone» (p.17). La narrazione sarà d’ora in poi punteggiata da queste pause, col benevolo posarsi e becchettare del volatile, tre i due astanti sempre più provati, a continuare nel loro compito pur nell'avanzare della malattia (contagiato anche il secondo, ma destinato a sopravvivere), travasando sempre il contenuto del proprio vissuto nell’animo dell’altro, per rigenerarlo a nuova coscienza. Alla fine, «Felicita in volo andò a posarsi sul capo del Compagnoni, poi su quello di fra Martin, e poi sul palmo della mano del giovane monaco, il quale l’accarezzò, prima che spiccasse l’ultimo balzo e uscisse dalla finestra in un frullo di ali» (p. 169).

Mai come in questo libro, espressa in una cupa visione scatologica, Manzoni ha esplorato la concreta carnalità del corpo, la sua vulnerabilità di viscere ferite, di sottomissione ai dettami imperiosi della materia di cui siamo composti; è tutto un fuoriuscire di fetori e sozzura, escrementi e lordura, è un corpo aperto e spaccato, un gran corpo che si espande sulla scena fino a dominarla, immerso in un letto di liquami, feci, colera, interiora. Il riscatto dell’identità avviene nell’accettazione dignitosa dei limiti, che sono di ogni essere vivente, e nella caparbia fedeltà al proprio credo, fino all’ultimo, quale estrema coerenza e unica grandezza concessa all’uomo: rimanere se stesso. Poi c’è spazio solo per il patimento e il dolore, l’abbandono e la morte.

Dall’interno, all’esterno. Ciò che accade nell’angusta stanza dove due uomini combattono con il male, è un riverbero della più ampia situazione del mondo di fuori: «Il tanfo e l’odore dolciastro della morte non riusciva a lasciare la camera neppure dopo che il monaco aveva spalancato le finestre, la porta della stanza, e financo l’uscio che dava in strada. Anzi, era andato ad aumentare, perché tutta la città puzzava negli effluvi tipici della decomposizione» (p. 125). Come una zattera in mezzo ai marosi, ai due uniti nel sodalizio della scrittura non resta che proseguire, quale unico appiglio di ragioni rimastogli; Compagnoni si raccomanda alla correttezza dell’altro, che sollecita di continuo pur fidandosene, poiché ci tiene molto che i fatti da lui raccontati ottengano stesura fedele, e richiede che pure il suo carattere, la sua impronta di uomo, venga riportato con esattezza.

È conscio dell’importanza della testimonianza, del lasciare documentazione della propria vita e di quella della sua donna (deceduta prima di lui), dei suoi compagni, delle idee per cui si è lottato, delle fatiche e delle imprese. Dal canto suo, in principio lo scrivente avrebbe voluto mantenere una distanza, un filtro, una cautela, essere solo strumento, fare come i medici che operano senza condividere la pena dei loro pazienti, poiché «si deve rimanere estranei al dettato, perché l’anima del dettatore non si venga a sovrapporre alla tua. Ma di fianco a codesto moribondo non si può fare a meno di entrare nel suo narrare e venirne in qualche modo travolti.

(…) Considerata la situazione nella quale mi trovo e già essendo in peccato, avendo accettato la sfida, conviene che codesta strada continui, perché forse anch’io possa lasciare una traccia del mio esistere» (pp. 71–72). Al di là dei singoli destini, comunque, la narrazione e la sua trascrizione a perpetuazione di memoria è uno dei compiti supremi dell’umanità, perché «l’uomo vive e sopravvive anche per raccontarsi e per farsi raccontare. È così che perdura la vita, e può essere tramandata. Per seme di sesso, ma anche per seme di inchiostro di carta» (p. 150).

In ultimo, anche l’uomo di ventura, che della vita ha sempre fatto occasione di rischio e di movimento, si guarda dentro e scorge quella intrinseca debolezza che lo accomuna a tutti gli altri, e lo concilia con la finitudine che attende ognuno: «Sono stato troppo impulsivo, frate, troppo preso dall’affanno di fare e di fare, che non mi sono mai dato tregua. La paura di scendere a compromessi con il mondo, mi ha spesso impedito di ponderare. Forse ora comprendo che l’ansia che l’uomo porta del tempo non è altro che ansia di morte, doversi rimproverare di non avere agito abbastanza, di non avere vissuto per intero quest’unica possibilità che la natura concede. Forse adesso non mi resta che dire anch’io della morte ho avuto il terrore, perché ho temuto di perdere tempo. Ora la peste ci libera entrambi dal tempo e dalla morte, e finalmente possiamo darci una sosta, per parlare. Per ritrovarci come uomini assieme. La peste ci ha liberati dalla paura del tempo» (pp. 76–77). 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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