Quei patrioti dimenticati
di Nevio Galeati
Una casa
in Rua do Samitra, a Buenos Aires. Sono gli ultimi giorni di maggio del 1849 e la peste
sta devastando la grande città. Il giovanissimo fra Martin de Campinas porta assistenza a
un malato, che deve dettargli la propria storia. Si tratta di un patriota italiano, Luigi
Compagnoni, mazziniano romagnolo. Questo l'incipit de Il morbo, romanzo storico di grande
fascino e straordinaria scrittura, edito da Diabasis. L'autore, Gian Ruggero Manzoni
(nella foto), firma celebre a livello nazionale e internazionale e che ha già pubblicato
con Feltrinelli, Scheiwiller, Sansoni, Il Saggiatore, abita in quella stessa frazione di
San Lorenzo che aveva dato i natali al protagonista del romanzo. "Il Resto del Carlino" 29 dic. 2002 Il Morbo, dissipamento delluomo. IL DOMENICALE
Una stanza che sembra una cella, una cella che diventa fornace, cuore pulsante e dolorante di un mondo in preda alla distruzione. Rio, prima metà dellOttocento: un rivoluzionario italiano in fuga, ormai sul letto di morte, un giovane frate, entrambi alle prese con la peste che devasta sfigura il mondo (il Nuovo Mondo). Da subito, lautore si promette di «ritrasformare il pane in grano»: immessi in un narrare come realtà vivente di una voce nella quale passato (storia), presente (voce) e futuro (morte) rimangono perennemente in circolo tra quelle quattro mura. Luigi Compagnoni narra al giovane frate la sua vita, dalla fuga alla prigionia pontificia fino alle lotte a fianco dei diseredati del Nuovo Mondo. Tutto brucia: anime e carni ardono, si consumano al crepitio di un fuoco insieme ammorbato e vitale, lo stesso racconto un flusso ininterrotto, dal canto al rantolo, che perfora e trapassa, mondando corpi e pensieri: sangue, sudore, vomito, sperma; raccoglimento ed estremo ascolto di una metastasi musicalissima. In questo movimento, gli ideali diventano, al di là del loro aspetto esteriore e dei loro contenuti, delle soglie: forme cave e risonanti, catalizzatori di energia attraverso i quali intendere il proprio nulla (destino di ogni simbolo, di ogni Tradizione). Questo dispendio, cui la vita obbliga, e al quale questo narrare non si sottrae, diventa accordo a una regola della dissipazione generosa, quasi per lombra di una latente ossessione di calcificazione e di blocco. La stessa memoria, quella dei compagni morti o delle imprese, si trasforma in movimento eterno di ciò che continuamente diventa, non un deposito del già accaduto, ma lo smacco al tempo lineare, del tutto sospeso in questa Rio scolante e sanguinante. Allora, il morbo, ci pare quello canceroso di ciò che si blocca e non fluisce più. Qui, invece, luomo accoglie la sospensione al proprio miracolo, ad un accadere completamente al presente. In questo scandaglio attraverso lessere che non risparmia il suo lato più oscuro e viscerale pare si possa individuare un preciso lucidissimo intento di «dare sfogo alla morte» che Luigi scopre in sé, come di una infezione che deve essere calmierata e ancora si impone limmagine di una oralità prepotente e amniotica, associata a paesaggi fra acqua e terra, fango lucentezza, malattia e orto. Allora, la salvezza sta tra questo «scambio idraulico» e la grazia immotivata di Felìcita, la cocorita di Luigi: «Felìcita volteggiava e volteggiava, nellassenza del tempo e nel volo inseguiva il suo volo, perché il battere delle ali era lunica certezza su cui poteva fare affidamento. Lunico dono dellorigine e della grazia che lorigine le aveva consegnato».
Gian Ruggero Manzoni Il morbo, Diabasis IL DOMENICALE Sabato 25 Gennaio 2003 |
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