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Quei patrioti dimenticati

di Nevio Galeati

 

Una casa in Rua do Samitra, a Buenos Aires. Sono gli ultimi giorni di maggio del 1849 e la peste sta devastando la grande città. Il giovanissimo fra Martin de Campinas porta assistenza a un malato, che deve dettargli la propria storia. Si tratta di un patriota italiano, Luigi Compagnoni, mazziniano romagnolo. Questo l'incipit de Il morbo, romanzo storico di grande fascino e straordinaria scrittura, edito da Diabasis. L'autore, Gian Ruggero Manzoni (nella foto), firma celebre a livello nazionale e internazionale e che ha già pubblicato con Feltrinelli, Scheiwiller, Sansoni, Il Saggiatore, abita in quella stessa frazione di San Lorenzo che aveva dato i natali al protagonista del romanzo.
«Quando uscì il mio romanzo 'Caneserpente' — spiega Manzoni — il compianto Alteo Dolcini mi segnalò un breve saggio di Elio Lodolini, 'L'esilio in Brasile dei detenuti politici romani'. Sono partito da quella vicenda infausta e vergognosa: la Santa Sede che vende come schiavi all'imperatore del Brasile un manipolo di patrioti. Una lunga ricerca di documenti, in Brasile e negli archivi del Vaticano, mi ha consentito di ricostruire parte dell'avventura di quegli uomini che, dal 1837 al 1848, hanno lottato in Brasile e in Uruguay al fianco dei 'senza terra', dei gauchos, dei minatori». Dalla storia alla fiction, dalla descrizione della vita degli indios («Fra loro non bisognava mai essere in debito con alcuno, di modo che, davanti a un giudizio su qualche atto malvagio, si fosse liberi da qualsiasi vincolo») agli afflati quasi religiosi, Il morbo affascina anche per la sua scrittura. «Ho preso spunto dalla memorialistica dell'Ottocento e ne ho ricalcato timbri e sonorità tipiche, esaltandone la dimensione un po' aulica, che però non dimentica i 'cancheri' romagnoli». A fianco di Compagnoni soprannominato 'manaccia', e al frate si stagliano altri due personaggi, la creola Jolanda e la cocorita Felicita.
«Nel ritrarre Jolanda mi sono richiamato ad Anita Garibaldi. Le origini delle due donne, l'eroina e quella della finzione, sono similmente 'poco chiare'. Ma le accomuna anche l'assoluta dedizione al proprio uomo e all'ideale per il quale combattono. Felicita, poi, è una specie di 'spirito santo', che passa il testimone dal patriota al religioso». Un romanzo che parte da un 'manoscritto' forse mai esistito, che parla di un episodio poco conosciuto delle avventure degli esuli italiani oltre oceano e che soprattutto esalta valori universali, a partire dalla solidarietà 'fra i poveri'. Insomma, da non perdere. Il ricavato delle vendite del libro verranno devolute alla ricerca medica sulla malattia di Crohn.

"Il Resto del Carlino" 29 dic. 2002


Il Morbo, dissipamento dell’uomo.

IL DOMENICALE

 

Una stanza che sembra una cella, una cella che diventa fornace, cuore pulsante e dolorante di un mondo in preda alla distruzione. Rio, prima metà dell’Ottocento: un rivoluzionario italiano in fuga, ormai sul letto di morte, un giovane frate, entrambi alle prese con la peste che devasta sfigura il mondo (il Nuovo Mondo). Da subito, l’autore si promette di «ritrasformare il pane in grano»: immessi in un narrare come realtà vivente di una voce nella quale passato (storia), presente (voce) e futuro (morte) rimangono perennemente in circolo tra quelle quattro mura. Luigi Compagnoni narra al giovane frate la sua vita, dalla fuga alla prigionia pontificia fino alle lotte a fianco dei diseredati del Nuovo Mondo. Tutto brucia: anime e carni ardono, si consumano al crepitio di un fuoco insieme ammorbato e vitale, lo stesso racconto – un flusso ininterrotto, dal canto al rantolo, che perfora e trapassa, mondando corpi e pensieri: sangue, sudore, vomito, sperma; raccoglimento ed estremo ascolto di una metastasi musicalissima. In questo movimento, gli ideali diventano, al di là del loro aspetto esteriore e dei loro contenuti, delle soglie: forme cave e risonanti, catalizzatori di energia attraverso i quali intendere il proprio nulla (destino di ogni simbolo, di ogni Tradizione). Questo dispendio, cui la vita obbliga, e al quale questo narrare non si sottrae, diventa accordo a una regola della dissipazione generosa, quasi per l’ombra di una latente ossessione di calcificazione e di blocco. La stessa memoria, quella dei compagni morti o delle imprese, si trasforma in movimento eterno di ciò che continuamente diventa, non un deposito del già accaduto, ma lo smacco al tempo lineare, del tutto sospeso in questa Rio scolante e sanguinante. Allora, il morbo, ci pare quello canceroso di ciò che si blocca e non fluisce più. Qui, invece, l’uomo accoglie la sospensione al proprio miracolo, ad un accadere completamente al presente.

In questo scandaglio attraverso l’essere che non risparmia il suo lato più oscuro e viscerale pare si possa individuare un preciso lucidissimo intento di «dare sfogo alla morte» che Luigi scopre in sé, come di una infezione che deve essere calmierata e ancora si impone l’immagine di una oralità prepotente e amniotica, associata a paesaggi fra acqua e terra, fango lucentezza, malattia e orto. Allora, la salvezza sta tra questo «scambio idraulico» e la grazia immotivata di Felìcita, la cocorita di Luigi: «Felìcita volteggiava e volteggiava, nell’assenza del tempo e nel volo inseguiva il suo volo, perché il battere delle ali era l’unica certezza su cui poteva fare affidamento. L’unico dono dell’origine e della grazia che l’origine le aveva consegnato».

 

Gian Ruggero Manzoni

Il morbo, Diabasis

IL DOMENICALE

Sabato 25 Gennaio 2003

 

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