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"Come faranno mai gli israeliani a
rimediare a tutto questo?" Si chiede un giovane palestinese, mentre si aggira fra le
rovine del campo profughi di Jenin (Cisgiordania), teatro di un intervento militare
israeliano senza precedenti che si è protratto per undici giorni - dal 2 al 19 aprile
2002 - e ha lasciato almeno 600 morti sul campo (ma nessuna commissione d'inchiesta
nazionale o internazionale è stata mai autorizzata). "Ci ammazzano i figli e noi ne
facciamo altri: c'è sempre un modo per porre rimedio
. Sono loro i perdenti,
davvero". Chi parla, è uno dei protagonisti del documentario Jenin Jenin di Mohammad
Bakri, cineasta palestinese con passaporto israeliano. Lo abbiamo visto al 13° Festival
del cinema africano di Milano, nella versione integrale di 54 minuti: cioè compresa la
testimonianza della dodicenne - istigata fin da piccola alla vendetta, forse obbligata a
diventare in un futuro non lontano una kamikaze - censurata dalla tv franco-tedesca Arté
(l'unica in Europa ad averlo acquistato).
Informalmente, quest'opera sta però girando l'Italia fra proiezioni negli oratori e
serate organizzate da associazioni varie, mentre i canali televisivi pubblici hanno poco
professionalmente declinato l'invito.
Poco importa. L'autore - nato nel '53 ad al-Bina, in Galilea, sposato con cinque figli -
è quasi abituato alla censura: il suo documentario d'esordio, nel 1995, col digitale 1948
(53'), sulla Nakba, la "catastrofe palestinese", non è mai stato mostrato in
tv; eppure in tantissimi l'hanno visto.
Sulla stessa scia, Jenin Jenin è stato censurato in Israele; nessuna tv del mondo arabo,
a parte la libanese Future, l'ha comprato; ciò nonostante il film ha vinto il festival di
Cartagine 2003. Un grande riconoscimento per un regista che è stato addirittura
arrestato, assieme a sei membri della sua famiglia - nel villaggio di Bina in Galilea,
dove essi vivono - con l'accusa di aver collaborato nella preparazione e nell'esecuzione
di un attentato kamikaze contro un bus israeliano (come ha scritto su Ha'aretz del 27
agosto il giornalista Uri Ash). Tanto per intimidire ogni possibile dissenso. Questa
battente campagna denigratoria, in patria, ha al contrario contribuito a pubblicizzarlo
ovunque.
È un film di parte ("one side movie", dice infatti il sottotitolo), obiettano
alcuni. Ma finché le risoluzioni delle Nazioni Unite riguardo al Medio Oriente - ovvero
la 242 del 22 novembre 1967, la 338 del 22 ottobre 1973, la 1397 del 12 marzo 2002, la
1402 del 30 marzo 2002 - e i principi di Madrid non saranno rispettati dal governo
israeliano, forse non è possibile fare diversamente. Jenin Jenin va comunque visto.
Perché aiuta a capire.
Un
film sulla sofferenza umana
Il procedimento è
quello tipico dei documentaristi: dare la parola ai testimoni, in questo caso a chi, in
cinque minuti d'inferno, ha perso ciò che aveva costruito in quarant'anni, e lascia
dietro di sé giovani, la cui sola "cultura" è un mix di guerra, violenza e
vendetta senza fine. "Dopo quello che ho vissuto, che senso posso dare alla mia
vita?" Si chiede la ragazzina dodicenne, ripresa in campo lungo, mentre sale su
macerie all'inizio, da cui discenderà solo alla fine del video.
A una prima visione, forse, sfugge l'enorme lavoro di montaggio, durato circa tre mesi,
negli studi della tv satellitare Orbit di Roma; eppure è notevole. Gli argomenti che
vengono via via montati in modo che il concetto espresso da un testimone venga ripreso e
ampliato dalla testimonianza proposta subito dopo. Ne risulta un effetto corale di
prim'ordine. Dove ciascuno trae dall'altro la forza di rilanciare, passando da un proclama
a un ricordo, da un martire a un sarcasmo. Fino all'immagine dell'anziano di spalle che
dichiara: "Resteremo qui fino al giorno del giudizio". Una solenne promessa
condivisa dal giovane che incarna il pensiero medio come dal primario dell'ospedale.
Dunque il racconto è fatto di frammenti in movimento, come quelli che compongono la casa
distrutta e i pezzi di ricordi, elencati uno ad uno (il letto dove è morto un vecchio
padre, il fico di 52 anni
), tracce perdute che il video non può mostrare. Questo è
un film fatto di grandi assenze: Bakri ha potuto infatti raggiungere Jenin solo a massacro
avvenuto, il 26 aprile 2002, giorno in cui l'Esercito ha lasciato il campo. Ci è rimasto
cinque giorni, ritornando solo un'altra volta per alcune rifiniture fotografiche. Ma è
stato sufficiente: scheggia su scheggia si ricostruisce una storia, un'unità fatta di
rovine. E di dolore. È questo che il suo autore vuole sviscerare in tutte le sue infinite
variazioni. Ne risulta dunque un film sulla sofferenza umana: "su un'anima ferita, un
cuore spezzato, un albero sradicato, una casa demolita, un fiore spezzato
".
È un dolore così forte, che non ha quasi bisogno di parole. Il primo, sorprendente
testimone è un muto. Ma nessuno meglio di lui sarebbe capace di mimare efficacemente gli
eventi, a cui ha assistito. I fatti sono talmente enormi che, appunto, non serve una
dialettica particolare. Quindici secondi serratissimi racchiudono tutto: gli agguati, gli
scontri, le barricate, le esecuzioni. Al primo piano, che puzza di morte e ha perso l'uso
del linguaggio, si contrappone un secondo piano più vitale. La città continua a
respirare: i vagiti, i canti, i rumori, le ombre raccontano di una comunità che è stata
colpita al cuore, ma non è umanamente degradata. Ricomincia sempre da capo. E,
soprattutto, non si arrende.
Resistere, nonostante
tutto
Questa stupefacente capacità di resistenza viene sbattuta in faccia al governo di Ariel
Sharon (ma non al popolo israeliano) e anche ai paesi arabi, "dai quali ogni venerdì
- si dice nel film - aspettavamo una manifestazione in nostro favore (che stupidi che
siamo stati
)". E ciò spiega come mai nessun tv araba, a parte la libanese
Future, l'abbia comprato.
Se la maggior parte del mondo arabo ha scelto per opportunismo di non intervenire, le
Nazioni Unite vi sono state costrette. Era il 18 aprile quando Terje Roed-Larsen, inviato
dell'Onu per il Medio Oriente, accusò le forze armate israeliane di avere impiegato mezzi
"moralmente ripugnanti" contro la cittadinanza di Jenin. Il mondo aveva appena
saputo della distruzione di metà del campo profughi, avvenuta nel corso di una delle più
violente offensive della campagna "Muraglia di difesa", cominciata il 29 marzo,
e che aveva portato alla rioccupazione delle aree autonome palestinesi, eccetto Gerico.
"È un capitolo triste e vergognoso della storia dello Stato di Israele", aveva
commentato Larsen ai microfoni della radio israeliana. "Non è solo quello che si
vede", aggiunse. "Sono gli odori dei corpi in stato di decomposizione, che si
avvertono ovunque. È moralmente ripugnante che le autorità israeliane, per ben 11
giorni, abbiano negato l'accesso alla città alle organizzazioni umanitarie in grado di
soccorrere i civili". Quella dell'invitato dell'Onu fu una delle voci più critiche
dell'offensiva militare israeliana. E l'ufficio del primo ministro Sharon non tardò a
bollarlo come una persona "non grata", cui seguì il (prevedibile) rifiuto da
parte dello Stato ebraico di accogliere una missione di conoscenza - nemmeno d'inchiesta -
che il Palazzo di Vetro avrebbe voluto mandare.
L'ultima scena di film è appunto sull'America e sull'Onu. Un uomo fa finta di parlare al
cellulare (in realtà, ha in mano una ciabatta di plastica) con George Bush, al quale
chiede di farsi passare Kofi Annan. Gli domanda come mai il Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite abbia bocciato la proposta di una Commissione di inchiesta sull'attacco
israeliano al campo profughi di Jenin? È stato in seguito a pressioni americane e
israeliane? La comunicazione, improvvisamente, si interrompe. L'uomo dice che la scheda
telefonica è finita. Gli uomini attorno a lui ridono, lui anche.
Il produttore assassinato
Iyad Samoudi, il produttore esecutivo di
Jenin Jenin, è stato ucciso dall'Esercito israeliano il 23 giugno 2002. Quella mattina,
alle 4.30, i soldati erano arrivati per effettuare alcuni arresti. Se c'era una cosa che
Iyad - e, come lui, la maggior parte degli abitati dei Territori occupati - odiava, era
l'umiliazione. "Una volta mi aveva detto che avrebbe preferito morire", racconta
Bakri che, assieme alla troupe, durante le riprese aveva dormito nella casa di questo
25enne.
Così quel giorno maledetto ha preso la porta ed è scappato. Lo hanno colpito senza
ragione. Sposato alcuni mesi prima, senza figli, Iyad aveva visto Bakri recitare in uno
dei tanti film da lui realizzati; voleva lavorare per il cinema e l'aveva dunque
ricercato.
"Era un ragazzo sveglio, sempre pronto a scherzare, pieno di vita", dice il
regista. Jenin Jenin è dedicato a lui, che non ha nemmeno avuto l'opportunità di vedere
questo documentario a montaggio finito.
A.G. |
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