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Mezza storia di una vita mai vissuta

di Gabriele Moschin

del Liceo Scientifico Falcone e Borsellino di Arese

Primo premio della III Edizione

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Società

Giuria della III  Edizione:

 

  • Liliana Lazzari, pediatra e scrittrice

  • Roberto Denti, della "Libreria dei Ragazzi" di Milano, scrittore

  • Moni Ovadia, autore e regista

Gentili signori miei non vedo, con tutta sincerità, il motivo di quei volti scandalizzati.
Mi spiegherò meglio. Non trovo alcuna stranezza nell'affermare di essere stati una formica. Come scusi, quando? Nella mia altra vita ovviamente, secondo lei il mio discorso, questa mia patetica affermazione, presenta forse qualche illogicità? Talvolta l'esser assurdi è la via migliore per chiarire certi concetti; semmai dovreste porvi voi nei panni di chi formica è stato, cioè io, voi di certo, che magari eravate cavallette, pavoni o delfini o che altro, non coglierete di primo acchito le mie parole, che già io stesso fatico a riordinare e collegare ai fatti. Perciò con un abbondante anticipo mi scuso della mia personale astrusità, dei paradossi e di alcune bizzarrie che, non mi stancherò mai di ripeterlo, ai miei occhi appaiono più che quotidiane ed usuali; vi esorto, inoltre, perché vi sforziate di calarvi almeno per un breve istante nella mia quanto mai singolare situazione ma già sento gli sbuffi e i brontolii del signor Cravatta e Ventiquattrore là in fondo.
Pazienza, andrò avanti ugualmente.
Tutto ciò, cioè il mio passato ed io, ubbidisce a leggi che superano il rigore matematico a cui siamo assuefatti, che ci soffoca; il nostro essere, il vostro ed il mio, vola più in alto della realtà che ci circonda e che amiamo chiamare tale, a volte gentile si libra verso il basso per poi risalire irrequieto; allora, in quei rari momenti in cui siamo soli con noi stessi, la mente si sforza per uncinarlo e trattenerlo, ma egli è leggero e sfugge; le vite che ho vissuto, che abbiamo già vissuto, sono anch'esse effimere e illusorie, non dobbiamo appesantirle con il nostro pensare laborioso e granitico, miei signori, non fatelo mai, lasciatevi dunque trasportare per l'erto sentiero dell'estrosa sebbene concreta fantasia verso la mia logica, che io ricordo almeno e che ho tanto a cuore esporvi. Ebbene sì, io fui una formica.
Ma di questa mia esistenza non ho che vaghi e caliginosi ricordi, immagini lontane e sfumate, dai contorni che mischiano sfondi e soggetti, che legano indissolubilmente fra loro forme e colori, suoni e sensazioni, in un nebuloso groviglio.
La vita di una formica non è una vita semplice; bisogna sempre essere guardinghi, nemici e pericoli di ogni sorta sono sempre in agguato, dietro ogni sasso o ciuffo d'erba, e spesso non basta guardarsi intorno per sfuggirli perché piombano letali dall'alto o magari insidiosi emergono dalla terra. Ricordo molto bene l'attimo in cui nacqui e la mia prima infanzia.
Inizialmente ero disorientata: un'immensa mole di odori e suoni mi colpivano il volto, ma solo per qualche secondo, ben presto il brulichio sommesso ma preciso, direi dolce e ritmato, dell'intensa vita sotterranea, fu da subito rassicurante, così come l'odore del cibo che iniziava ad accumularsi nei magazzini. In me spaziava l'urlo lancinante di una gioia incontenibile: ero nata; penetrante e vivida sensazione che talvolta purtroppo si scorda, corroborante, immediata, stridente, fitta di luce, in cui ancora echeggiava il ricordo dei confini del nulla dal quale ora ero.
Ma seppur fioca, per quel poco che ne resta in seguito, è sempre una rievocazione acuta; perdonate le lacrime, ma è per l'inizio che si conserva l'integrità dell'animo, la purezza, per la fine, quando cala il sipario, anche per gli attori, non rimangono che i dubbi. E infatti così passò anche lei.
Di lì a poco imparai a vivere in comunità, appresi i gesti rituali, i codici di riconoscimento, le norme di convivenza che regolavano quella perfetta macchina qual era il formicaio.
Amavo le mie sorelle e crescevo spensierata con loro; non ancora adatte ad uscire allo scoperto, passavamo il tempo giocando fra i cunicoli e le gallerie pizzicandoci per gioco, inciampando e sovente venendo richiamate dalle più anziane operaie.
Il formicaio era immenso; la nostra comunità vastissima, eravamo migliaia, tutte parenti, tutte sorelle.
Le mie coetanee ed io esploravamo le vie del sottosuolo: una successione di stanze e magazzini, di cripte e di pozzi che penetravano sempre più in profondità. Ricordo l'ansia e il piacevole timore che si provava quando, abbandonate le arterie principali e il confortevole battito simultaneo dei cuori delle altre sorelle, ci addentravamo per vie traverse e disagevoli, spesso anche pericolanti sotto il peso del terreno, verso l'intimità dell'umida terra. E lì sole, avvolte dall'oscurità più fitta, dal silenzio opprimente e ricolmo di comune affanno, ascoltavamo, strette per infonderci coraggio, l'eco lontano del lavoro di cui presto avremmo fatto parte e fantasticavamo sul mondo della superficie.
Crescemmo ancora, velocemente, ma il mondo, quello vero intendo, era sempre leggenda.
Un giorno, percorrendo con una compagna il lato opposto del formicaio in cui avrei dovuto essere, (ah curiosità e giovinezza!), venni attratta da un insolito rumore, non il solito limpido zampettare scorrevole e distinto a cui ero avvezza, non il suono della produttività delle operaie, della loro precisione, questo era diverso, continuo ed impacciato e in avvicinamento. Invece che fuggire, inesperte e imprudenti, ci fermammo, sedotte dall'ipnotico pericolo e avide d'avventura, davanti al rombo crescente che ci faceva tremare.
Mi spaventò. All'ultimo momento diedi l'allarme così come mi avevano insegnato e attraverso le altre formiche sentii il mio grido di all'erta propagarsi come un'onda fra le gallerie. Giunsero alle mie spalle, proprio mentre il rumore da cui ero stata spaventata prendeva forma e scavava per entrare nel cunicolo, le guerriere; per un attimo non vidi la mia amica, fui presa e trascinata via, spinta nel cieco trambusto che seguì: un gigantesco lombrico, d'un ammaliante pallore rosato, con un manto a cerchi elastici che si dilatavano e si contraevano, s'abbatté incauto contro il nostro regno, profanandolo, forando di traverso due dei camminamenti secondari della periferia che fece franare rovinosamente senza rispetto per la perizia con la quale erano stati costruiti.
Mi accucciai atterrita in un angolo, cercando la mia amica, con le zampette raggomitolate al petto, lasciando terreno alle guerriere, ma non volli andarmene e assistetti ad una scena che mai ho dimenticato: all'esecuzione che iniziò solerte e senza pietà.
Il lombrico fu attaccato con ferocia da ogni parte, ovunque per la sua lunghezza, le mandibole acuminate attraversarono le rosee carni, strappando lembi di pelle e aprendo squarci squamosi dai quali fuoriuscivano trasparenti liquidi che filtravano la terra. Poi la vidi, vidi la mia compagna. Era rimasta incastrata sotto il peso dell'insetto che impotente corrugava il suo corpo maculato di ferite, l'addome le era rimasto intrappolato e inutili erano gli sforzi per liberarla. Lentamente, la vidi essere stritolata dal corpo del verme. E con il suo corpo, vidi uscirle la vita con un ultimo spasmo di dolore.
Una mano gelida mi accarezzò il cuore ardente. Fu terribile per me, assistetti immobile, quella era solo una delle innumerevoli formiche, così mi dissero in seguito, che era morta per la salvezza di noi altre e della nostra casa. E come le altre fu dimenticata. Questa fu la lezione che ci impartirono, l'ultima prima di uscire assieme a tutte le altre sotto un sole di cui avevamo solo sentito leggende e racconti.
All'inizio il rammarico per il tepore della tana, per i suoi labirintici meandri fu insopportabile. Ma ero un'operaia e seppi reprimerlo, la vergogna per la mia debolezza sarebbe stata altrimenti ancor più avvilente.
Superai la crisi iniziale ma ciò che mi trovai davanti non fu quanto m'aspettavo: delle mie uscite non ho che sporadiche immagini di torridi scompensi, bagliori accecanti, indescrivibili fetori e insensati calvari. Nient'altro che molte battaglie, alcune conquiste, rare speranze, nessuna leggenda. Il mondo così com'era mi sconvolse. Fu la più grande delusione che ebbi più volte modo di fuggire nei miei incubi. Riflesso di un ingranaggio all'apparenza esatto, al minimo accenno di vento, crollava in mille e mille minuscoli frammenti in movimento che graffiavano la superficie ora increspata, sovrapponendosi e scavalcandosi a vicenda, imprimendo torti e ricevendone di peggiori, legittimando i propri soprusi raggruppandosi in onde bellicose e prepotenti, scomponendo per nulla, per un alito di vento, la mirabile armonia nella quale prima convivevano privi di rancore.
Fu così che io incontrai il mondo: agitata fra onde e maree, naufraga di speranze, approdata in un isolotto di aspra disillusione senza possibilità di fuggire. Ah, mondo che illudi!
Sembra difficile che una formica così piccola, così debole, possa difendersi dal mondo, eppure combatte e non si arrende, persiste e reagisce, a volte si chiede se le sue azioni sono giuste o sbagliate, se val la pena scontrarsi ancora, a volte risponde, a volte tace e il silenzio grava; ma ciò che importa alla fine è cercare queste risposte. Almeno così permettetemi di pensare; ora non sono una formica, questo lo so, ma certe abitudini, certe convenzioni sono dure a morire, ancora oggi una parte della formica che ero vive in me, con le sue avventure, le sue storie.
Ormai non riesco più ad andare avanti, ho già detto abbastanza.
Come? Le mie confessioni terminano qui? Forse sì, ma forse le ha già dimenticate, sì proprio lei che domanda, non le bastano? Ci rifletta meglio sopra, non è molto ma di sicuro è sufficiente, per cosa? Chiuda gli occhi, ripensi alle mie parole, ai sussulti e ai mormorii che hanno risvegliato nel suo cuore; rifletta sulla vita, non giungerà da nessuna parte; questo è il vantaggio, può accanirsi quanto vuole, sì si agiti, si muova, si ribelli. Ma le ripeto: sono conquiste passeggere, ora non mi fraintenda, non per questo la distolgo dal tentare, ci sono cascato anch'io e molte volte e pure, nonostante tutto, penso che continuerò così. Ma allora perché io sono già tranquillo? Domanda perché io non mi rattristo, non mi turbo, non ne godo, di cosa? Della vita? Oh, a volte può capitare, sì certo; ma perché allora, dice lei, guardandomi bene, sono così preparato, così a mio agio, tanto vivace, tanto gagliardo? Ma, non mi faccia ripetere, glielo ho già detto! Io ho già vissuto.

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