Società |
Giuria della III Edizione:
Liliana Lazzari, pediatra e scrittrice
Roberto Denti, della "Libreria dei
Ragazzi" di Milano, scrittore
Moni Ovadia, autore e regista
Gentili signori miei non vedo, con tutta
sincerità, il motivo di quei volti scandalizzati.
Mi spiegherò meglio. Non trovo alcuna stranezza nell'affermare di essere stati una
formica. Come scusi, quando? Nella mia altra vita ovviamente, secondo lei il mio discorso,
questa mia patetica affermazione, presenta forse qualche illogicità? Talvolta l'esser
assurdi è la via migliore per chiarire certi concetti; semmai dovreste porvi voi nei
panni di chi formica è stato, cioè io, voi di certo, che magari eravate cavallette,
pavoni o delfini o che altro, non coglierete di primo acchito le mie parole, che già io
stesso fatico a riordinare e collegare ai fatti. Perciò con un abbondante anticipo mi
scuso della mia personale astrusità, dei paradossi e di alcune bizzarrie che, non mi
stancherò mai di ripeterlo, ai miei occhi appaiono più che quotidiane ed usuali; vi
esorto, inoltre, perché vi sforziate di calarvi almeno per un breve istante nella mia
quanto mai singolare situazione ma già sento gli sbuffi e i brontolii del signor Cravatta
e Ventiquattrore là in fondo.
Pazienza, andrò avanti ugualmente.
Tutto ciò, cioè il mio passato ed io, ubbidisce a leggi che superano il rigore
matematico a cui siamo assuefatti, che ci soffoca; il nostro essere, il vostro ed il mio,
vola più in alto della realtà che ci circonda e che amiamo chiamare tale, a volte
gentile si libra verso il basso per poi risalire irrequieto; allora, in quei rari momenti
in cui siamo soli con noi stessi, la mente si sforza per uncinarlo e trattenerlo, ma egli
è leggero e sfugge; le vite che ho vissuto, che abbiamo già vissuto, sono anch'esse
effimere e illusorie, non dobbiamo appesantirle con il nostro pensare laborioso e
granitico, miei signori, non fatelo mai, lasciatevi dunque trasportare per l'erto sentiero
dell'estrosa sebbene concreta fantasia verso la mia logica, che io ricordo almeno e che ho
tanto a cuore esporvi. Ebbene sì, io fui una formica.
Ma di questa mia esistenza non ho che vaghi e caliginosi ricordi, immagini lontane e
sfumate, dai contorni che mischiano sfondi e soggetti, che legano indissolubilmente fra
loro forme e colori, suoni e sensazioni, in un nebuloso groviglio.
La vita di una formica non è una vita semplice; bisogna sempre essere guardinghi, nemici
e pericoli di ogni sorta sono sempre in agguato, dietro ogni sasso o ciuffo d'erba, e
spesso non basta guardarsi intorno per sfuggirli perché piombano letali dall'alto o
magari insidiosi emergono dalla terra. Ricordo molto bene l'attimo in cui nacqui e la mia
prima infanzia.
Inizialmente ero disorientata: un'immensa mole di odori e suoni mi colpivano il volto, ma
solo per qualche secondo, ben presto il brulichio sommesso ma preciso, direi dolce e
ritmato, dell'intensa vita sotterranea, fu da subito rassicurante, così come l'odore del
cibo che iniziava ad accumularsi nei magazzini. In me spaziava l'urlo lancinante di una
gioia incontenibile: ero nata; penetrante e vivida sensazione che talvolta purtroppo si
scorda, corroborante, immediata, stridente, fitta di luce, in cui ancora echeggiava il
ricordo dei confini del nulla dal quale ora ero.
Ma seppur fioca, per quel poco che ne resta in seguito, è sempre una rievocazione acuta;
perdonate le lacrime, ma è per l'inizio che si conserva l'integrità dell'animo, la
purezza, per la fine, quando cala il sipario, anche per gli attori, non rimangono che i
dubbi. E infatti così passò anche lei.
Di lì a poco imparai a vivere in comunità, appresi i gesti rituali, i codici di
riconoscimento, le norme di convivenza che regolavano quella perfetta macchina qual era il
formicaio.
Amavo le mie sorelle e crescevo spensierata con loro; non ancora adatte ad uscire allo
scoperto, passavamo il tempo giocando fra i cunicoli e le gallerie pizzicandoci per gioco,
inciampando e sovente venendo richiamate dalle più anziane operaie.
Il formicaio era immenso; la nostra comunità vastissima, eravamo migliaia, tutte parenti,
tutte sorelle.
Le mie coetanee ed io esploravamo le vie del sottosuolo: una successione di stanze e
magazzini, di cripte e di pozzi che penetravano sempre più in profondità. Ricordo
l'ansia e il piacevole timore che si provava quando, abbandonate le arterie principali e
il confortevole battito simultaneo dei cuori delle altre sorelle, ci addentravamo per vie
traverse e disagevoli, spesso anche pericolanti sotto il peso del terreno, verso
l'intimità dell'umida terra. E lì sole, avvolte dall'oscurità più fitta, dal silenzio
opprimente e ricolmo di comune affanno, ascoltavamo, strette per infonderci coraggio,
l'eco lontano del lavoro di cui presto avremmo fatto parte e fantasticavamo sul mondo
della superficie.
Crescemmo ancora, velocemente, ma il mondo, quello vero intendo, era sempre leggenda.
Un giorno, percorrendo con una compagna il lato opposto del formicaio in cui avrei dovuto
essere, (ah curiosità e giovinezza!), venni attratta da un insolito rumore, non il solito
limpido zampettare scorrevole e distinto a cui ero avvezza, non il suono della
produttività delle operaie, della loro precisione, questo era diverso, continuo ed
impacciato e in avvicinamento. Invece che fuggire, inesperte e imprudenti, ci fermammo,
sedotte dall'ipnotico pericolo e avide d'avventura, davanti al rombo crescente che ci
faceva tremare.
Mi spaventò. All'ultimo momento diedi l'allarme così come mi avevano insegnato e
attraverso le altre formiche sentii il mio grido di all'erta propagarsi come un'onda fra
le gallerie. Giunsero alle mie spalle, proprio mentre il rumore da cui ero stata
spaventata prendeva forma e scavava per entrare nel cunicolo, le guerriere; per un attimo
non vidi la mia amica, fui presa e trascinata via, spinta nel cieco trambusto che seguì:
un gigantesco lombrico, d'un ammaliante pallore rosato, con un manto a cerchi elastici che
si dilatavano e si contraevano, s'abbatté incauto contro il nostro regno, profanandolo,
forando di traverso due dei camminamenti secondari della periferia che fece franare
rovinosamente senza rispetto per la perizia con la quale erano stati costruiti.
Mi accucciai atterrita in un angolo, cercando la mia amica, con le zampette raggomitolate
al petto, lasciando terreno alle guerriere, ma non volli andarmene e assistetti ad una
scena che mai ho dimenticato: all'esecuzione che iniziò solerte e senza pietà.
Il lombrico fu attaccato con ferocia da ogni parte, ovunque per la sua lunghezza, le
mandibole acuminate attraversarono le rosee carni, strappando lembi di pelle e aprendo
squarci squamosi dai quali fuoriuscivano trasparenti liquidi che filtravano la terra. Poi
la vidi, vidi la mia compagna. Era rimasta incastrata sotto il peso dell'insetto che
impotente corrugava il suo corpo maculato di ferite, l'addome le era rimasto intrappolato
e inutili erano gli sforzi per liberarla. Lentamente, la vidi essere stritolata dal corpo
del verme. E con il suo corpo, vidi uscirle la vita con un ultimo spasmo di dolore.
Una mano gelida mi accarezzò il cuore ardente. Fu terribile per me, assistetti immobile,
quella era solo una delle innumerevoli formiche, così mi dissero in seguito, che era
morta per la salvezza di noi altre e della nostra casa. E come le altre fu dimenticata.
Questa fu la lezione che ci impartirono, l'ultima prima di uscire assieme a tutte le altre
sotto un sole di cui avevamo solo sentito leggende e racconti.
All'inizio il rammarico per il tepore della tana, per i suoi labirintici meandri fu
insopportabile. Ma ero un'operaia e seppi reprimerlo, la vergogna per la mia debolezza
sarebbe stata altrimenti ancor più avvilente.
Superai la crisi iniziale ma ciò che mi trovai davanti non fu quanto m'aspettavo: delle
mie uscite non ho che sporadiche immagini di torridi scompensi, bagliori accecanti,
indescrivibili fetori e insensati calvari. Nient'altro che molte battaglie, alcune
conquiste, rare speranze, nessuna leggenda. Il mondo così com'era mi sconvolse. Fu la
più grande delusione che ebbi più volte modo di fuggire nei miei incubi. Riflesso di un
ingranaggio all'apparenza esatto, al minimo accenno di vento, crollava in mille e mille
minuscoli frammenti in movimento che graffiavano la superficie ora increspata,
sovrapponendosi e scavalcandosi a vicenda, imprimendo torti e ricevendone di peggiori,
legittimando i propri soprusi raggruppandosi in onde bellicose e prepotenti, scomponendo
per nulla, per un alito di vento, la mirabile armonia nella quale prima convivevano privi
di rancore.
Fu così che io incontrai il mondo: agitata fra onde e maree, naufraga di speranze,
approdata in un isolotto di aspra disillusione senza possibilità di fuggire. Ah, mondo
che illudi!
Sembra difficile che una formica così piccola, così debole, possa difendersi dal mondo,
eppure combatte e non si arrende, persiste e reagisce, a volte si chiede se le sue azioni
sono giuste o sbagliate, se val la pena scontrarsi ancora, a volte risponde, a volte tace
e il silenzio grava; ma ciò che importa alla fine è cercare queste risposte. Almeno
così permettetemi di pensare; ora non sono una formica, questo lo so, ma certe abitudini,
certe convenzioni sono dure a morire, ancora oggi una parte della formica che ero vive in
me, con le sue avventure, le sue storie.
Ormai non riesco più ad andare avanti, ho già detto abbastanza.
Come? Le mie confessioni terminano qui? Forse sì, ma forse le ha già dimenticate, sì
proprio lei che domanda, non le bastano? Ci rifletta meglio sopra, non è molto ma di
sicuro è sufficiente, per cosa? Chiuda gli occhi, ripensi alle mie parole, ai sussulti e
ai mormorii che hanno risvegliato nel suo cuore; rifletta sulla vita, non giungerà da
nessuna parte; questo è il vantaggio, può accanirsi quanto vuole, sì si agiti, si
muova, si ribelli. Ma le ripeto: sono conquiste passeggere, ora non mi fraintenda, non per
questo la distolgo dal tentare, ci sono cascato anch'io e molte volte e pure, nonostante
tutto, penso che continuerò così. Ma allora perché io sono già tranquillo? Domanda
perché io non mi rattristo, non mi turbo, non ne godo, di cosa? Della vita? Oh, a volte
può capitare, sì certo; ma perché allora, dice lei, guardandomi bene, sono così
preparato, così a mio agio, tanto vivace, tanto gagliardo? Ma, non mi faccia ripetere,
glielo ho già detto! Io ho già vissuto. |