L'Algeria e la guerra
dei fondamentalisti contro i civili. In questo tema spinosissimo, decide di entrare Yamina
Bachir-Chouikh, la regista di "Rachida" (nelle sale italiane dal 28 marzo). È
un conflitto ancora in corso, che continua a mietere vittime, malgrado il governo l'abbia
definito come "residuale". Insomma, non siamo ancora nello spazio della memoria
e della storia. E, quindi, tutto è più difficile. "Ma bisognava cominciare a
raccontare, perché raccontare significa resistere", dice Yamina, cui è stato ucciso
un fratello e che in questo tempo difficilissimo non ha mai voluto lasciare l'Algeria.
Ecco, dunque, "Rachida", un film salutato a Cannes - nella sezione Un certain
regard - da una standing ovation, e premiato quale miglior lungometraggio al 13° Festival
del cinema africano di Milano. La storia: Rachida, 20 anni, lavora come insegnante in un
quartiere popolare di Algeri. Un mattino viene avvicinata da quattro giovani. Uno di loro
si chiama Sofiane, è un suo ex allievo. Questi gli ordina di mettere una bomba nella
scuola. Seppur attanagliata dalla paura, lei rifiuta e tenta di dare l'allarme. Loro le
sparano, lasciandola a terra ferita e sanguinante. Rachida sopravviverà e si rifugerà
con la madre in un piccolo villaggio alle porte della capitale. Crede (e si sbaglia) di
poter sfuggire così ai terroristi
Ecco la lunga intervista che Yamina ci ha rilasciato.
Com'è nata l'idea del film?
Quando ho iniziato a scrivere,
non avevo idea di come avrei affrontato l'argomento. Un giorno c'è stato poi un fatto di
sangue: un'insegnante è stata assassinata da terroristi islamici. E allora mi sono detta:
perché non partire dalla storia di questa donna per raccontare la condizione terribile
del popolo algerino? Trovo magnifico il gesto di questa ragazza che avverte la gente della
presenza dell'ordigno, salvando di fatto loro la vita. Nella realtà, purtroppo, la bomba
è esplosa e l'insegnante è morta. Si chiamava Zakia Guessab.
Per quale ragione, nel film, Lei
ha preferito che l'insegnante sopravvivesse?
In nessun momento, volevo cadere
nel voyeurismo, nel sensazionalismo. Non avevo voglia di mostrare dei massacri, del
sangue. Volevo fare un film dove si respirasse la dolcezza dei personaggi, la poesia di
questa cultura. Mi sono imposta di non mostrare la violenza. Perché mostrarla non serve.
Nel film, comunque, si capisce che la violenza è presente, come lo è la paura.
Nel film si dice ad un certo
punto che "il terrorismo è residuale", lo Stato lo ha praticamente vinto. Le
cose stanno davvero così?
Da due anni, il governo fa dei
comunicati affermando appunto questo. Solo che il giorno dopo, puntualmente, con un altro
massacro si riapre il capitolo del terrore. Questa storia non è chiusa. È difficile dire
di aver vinto il terrorismo. In Irlanda ci sono voluti 25 anni. È un male che si nasconde
fra la folla; e quando uno meno se l'aspetta, riesplode. Non si può abolirlo per decreto.
Chi sono realmente i terroristi?
Perché uccidono? Il suo film, questo, non lo dice.
È stata una scelta. All'inizio
non volevo mostrarli. Volevo riprendere solamente le persone che amo. Avevo allora deciso
di farli apparire solo come ombre: per noi era gente conosciuta e, nello stesso tempo,
quando agiscono sono inafferrabili. Se hanno questi visi nel film, è perché la realtà
è questa: sono giovani. Non fanno paura, quando li si incontra per strada. Si mescolano
con la folla. È la loro strategia. Inoltre, non volevo fare un film che fosse un
manifesto politico. Volevo raccontare un dramma, raccontando soprattutto gli uomini. Era
il lato umano della storia ad interessarmi.
Nel film, vengono poste delle domande. Ad esempio, la madre di Rachida chiede: "In
nome di quale religione si uccide la gente?" Non avevo bisogno di entrare in discorsi
sull'integralismo
Quella che viene compiuta, è chiaramente una violenza
integralista. Ma, ad un certo punto, poco importa l'origine. Ciò che interessa dire,
piuttosto, è che non si ha alcun diritto di uccidere la gente. Non esiste una causa
"nobile" per rubare il soffio della vita. Che l'altro professi una religione
diversa, che abbia una cultura differente, che non condivida le mie aspirazioni, non
significa che io abbia il diritto di annientarlo.
Ma nella società algerina si
cercano di capire le ragioni del terrorismo?
Le ragioni dei terroristi sono
chiare e precise: è il potere. Hanno deciso che si può prenderlo solo con le armi. E
questo può condurre a violenze terribili. Lo vediamo, oggi, in Iraq. Saddam Hussein è un
despota. Ma tutti sanno che la guerra in corso è per il petrolio, per le immense
ricchezze del paese. In nome di questo, si è disposti a massacrare un popolo.
Lei ha detto che alcuni di
questi terroristi sono giovani che hanno accumulato la violenza dentro di loro, a causa
della totale mancanza di sbocchi nella vita. Ci sono dunque due diversi tipi di
terrorismo?
Sì. Quello dei ragazzi che
vogliono così manifestare il loro malessere; e c'è un altro terrorismo più organizzato
che vuole il potere. In altri termini, il terrorismo religioso si radica nelle pieghe di
una società malata. La causa dei giovani, la loro ribellione, all'inizio era giusta. Ma,
in un secondo momento, essi sono stati strumentalizzati da gente che vuole prendere il
potere. I mandanti si trovano ovunque nel mondo. Nel caso dell'Algeria, molti di costoro
hanno lasciato il paese, ad esempio per gli Stati Uniti o la Germania. E da qui dirigono
la violenza su di un popolo. Utilizzano come carne da macello ragazzini di 16-17 anni e
giovani di 30-35.
Non è un esercito. Potrebbe essere mio cugino, mio fratello
Vivono con noi. La
gente fra loro si conosce. Ma il terrore fa sì che regni la legge del silenzio,
l'omertà. Perciò questo periodo terribile è durato così a lungo. Troppo a lungo.
È vero che ci sono delle complicità. È normale. Ci sono delle aspirazioni a livello
della popolazione, dello Stato islamico. Ma non è la maggioranza. Tutti sono rimasti
sconcertati da questa violenza.
Nel film, cerco di capire il meccanismo, per cui i nostri figli sono diventati violenti.
Non lo sono sempre stati. Un bambino non nasce terrorista... Ciò vuol dire che c'è una
responsabilità da parte del governo, dello Stato, della società. "È anche colpa
mia", dice ad un certo punto Rachida.
La responsabilità è più degli
uomini che delle donne?
Di entrambi. Anche le donne
riproducono degli schemi. Esse, prima di subire le violenze dei fondamentalisti, hanno
già subito. Violenze della tradizione, culturali, ecc. Ma la donna rompe la legge del
silenzio. Perché non vuole vedere morire i suoi figli. È lei infatti che dà la vita ed
è lei che piange i morti. Non si dice forse che "la donna ha il privilegio del
dolore"?
Le donne sono le prime persone che subiscono la violenza, assieme ai bambini. Non so
perché, ma questi due soggetti rappresentano un "pericolo mortale" per i
terroristi. Bisogna dunque eliminarli subito. Dal canto suo, la donna non ha dunque niente
da perdere.
Come fanno le donne a resistere
al terrorismo fondamentalista in Algeria?
Lo fanno violando i divieti: ad
esempio, quello di uscire senza velo o di andare a lavorare. Loro hanno continuato ad
andarci, a capo scoperto, tutti i giorni. Ma non ci si deve nemmeno focalizzare troppo sui
dettagli, dimenticando l'essenziale: l'essenziale non è il velo, ma è il progetto di
società che ci viene proposto, nel quale dobbiamo inserirci per vivere il nostro tempo,
per evolvere.
Qual è il ruolo della
religione?
Si dice che è in nome della
religione che si uccide. Ma smettiamo di fare questa confusione: non può essere Dio ad
aver chiesto agli uomini di uccidere. Dio non è colpevole dei crimini dei
fondamentalisti, come non è mai stato colpevole dei crimini dell'Inquisizione o della
Shoah.
Può riassumere in poche parole
il messaggio del film?
È un inno alla pace, un inno
alla vita. Perché c'è molto humour nel film.
Che cos'è la pace per Lei?
È una cultura. Che si può
imparare, si può inculcare.
Inculcare una cultura del genere richiede tempo. Lo si sta facendo oggi in Algeria?
No. Potrei dire esattamente il contrario. Quando si nasce in una società nella quale, a
partire dalla scuola, si inculca la violenza e l'odio
non è davvero facile. Per
cercare di stabilire un po' più di pace e di tolleranza, i politici dovrebbero decidersi
a proporre un progetto di società. Ne sentiamo una grandissima mancanza. Restiamo
arroccati a delle tradizioni, ad una mancanza di comunicazione, a una cultura
dell'intolleranza.
In questo senso, la società
civile non sta svolgendo un suo ruolo fondamentale?
Non dico di no. Ci sono
organizzazioni di donne che, ad esempio, si occupano dei bambini sopravvissuti ai massacri
e gravemente traumatizzati. Ma questi sforzi - pur positivi - della società civile non
sono canalizzati. La stampa algerina, altro caso, gode una grandissima libertà rispetto a
quella del resto del mondo arabo e musulmano. Del resto, i giornalisti hanno pagato un
altissimo tributo di sangue per assicurarsi questa prerogativa. Direi dunque che se il
paese non è precipitato nel caos, è perché c'è stata questa straordinaria resistenza.
Nella guerra contro i civili - si noti: non una "guerra civile" - gli insegnanti
hanno continuato ad insegnare, i medici ad andare in corsia o in sala operatoria, ecc.
In tutti questi anni di conflitto, l'Algeria ha dunque sempre cercato di andare
avanti
Sì. I teatri hanno continuato ad allestire spettacoli, i giovani ad organizzare feste, a
cantare il raï, ecc. Nel film, ad esempio, ci sono canzoni di Cheb Hasni, che è stato
assassinato a soli 26 anni il 29 settembre 1994. Al suo funerale c'era tutta l'Algeria:
gente che ha preso la macchina, il treno, l'aereo o ha fatto decine di chilometri a piedi,
pur di esserci. Niente si è davvero fermato in Algeria in quegli anni. Dall'esterno,
forse, si aveva l'impressione della paralisi. Ma la vita è sempre continuata.
Come sono state le reazioni a
"Rachida" in Algeria?
Molto buone. Quando il film è
uscito ad Algeri, tutti sono venuti a vederlo. C'è stato un largo consenso. Dai tempi
della "Battaglia di Algeri", le sale cinematografiche non si erano riempite
tanto. La gente è venuta con tutta la famiglia: bambini, anziani, nonne,
"barbuti", ragazzi sbarbati vestiti all'Occidentale... Nessuno mi ha
rimproverato di aver fatto un film per l'estero. Questo racconta di un fatto d'attualità:
siamo ancora in mezzo al dramma, non a una distanza di vent'anni, nello spazio della
memoria e della storia. Ho ripreso il quotidiano e la gente si è sentita coinvolta.
Quando nel film appare un terrorista, ad esempio, nella sala sono volati insulti. Quasi si
fosse instaurato un rapporto interattivo tra il film e il suo pubblico.
Lei vive tuttora in Algeria. Non
ha paura dopo questo suo film?
La mia vita non è più preziosa
di quella degli altri. Faccio parte del popolo algerino che ha paura. Ma che, allo stesso
tempo, cerca di andare avanti.
C'è chi dice che il suo film è
stato fatto su richiesta francese. Lei che cosa risponde?
Che non è un film su mandato.
È un soggetto che ho scritto io e ho depositato per prima cosa in Algeria, al Centro
nazionale del cinema, e poi l'ho proposto un po' ovunque: ad Arté France Cinéma, Ciel
Production, Ciné Sud Promotion, ad associazioni, fondazioni, a tutti quei sistemi di
finanziamento cinematografico. C'è stato chi ha risposto e chi non ha accettato. Lei sa
il dolore nel quale mi trovavo? Nessuno poteva darmi un mandato, qualunque esso
fosse..
Non voglio parlarne, ma ero in una sofferenza terribile. Ho perso la persona
a me più cara
Ho resistito al terrorismo, nessuno poteva impormi qualche cosa. Non
sono una donna alla quale si possa imporre qualcosa. Ho deciso di non lasciare l'Algeria e
non l'ho lasciata.
Può dirci chi era la persona
che ha perso?
Preferisco di no. Non voglio
accaparrarmi il dolore degli altri. Il dolore è quello nostro.
Contro la guerra in
Iraq:
una protesta in
sordina
A proposito della guerra in Iraq, abbiamo visto delle enormi manifestazioni nel mondo
arabo, dal Cairo a Teheran. E l'Algeria come vive questo conflitto?
Con molta inquietudine. E questo è normale. La gente ha cominciato a scendere in piazza,
a manifestare. Ma credo che, contemporaneamente, ci sia anche un altro fenomeno in
Algeria: la popolazione ha così tanto sofferto qui, a causa della violenza, che è come
se non si sentisse coinvolta
È come se si dicesse: le bombe non cadono qua
non su di noi. Per troppo tempo, la
violenza si è infilata nel nostro quotidiano: si prendeva un autobus alla mattina con
l'eventualità di esplodere assieme ad esso; si mandavano i figli a scuola con il cuore in
gola al pensiero che avrebbero potuto non tornare.
In questo ultimo anno, oltretutto, le marce non vengono autorizzate. Sono sostituite da
sit-in. La protesta contro la guerra in Iraq, dunque, avviene in sordina.
Y.B.C.
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