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Contrastare l'ondata di odio

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di Tim Robbins

traduzione di Alessandra Muzzi  dell’associazione Traduttori per la Pace

Fonte: Independent Media Institute


Trascrizione del discorso tenuto dall'attore Tim Robbins al National Press Club di Washington, D.C., il 15 aprile 2003.


Mi era stato chiesto di parlare della guerra e della situazione politica attuale, ma ho deciso di sfruttare l'opportunità per parlare del baseball e del mondo dello spettacolo. No, sto scherzando. Più o meno.

Non ho parole per esprimere la mia commozione per l'incredibile sostegno morale offerto dai giornali di tutto il paese negli ultimi giorni. Non mi illudo che tutti questi giornalisti condividano il mio punto di vista sulla guerra. Quando la mia partecipazione a Cooperstown è stata annullata, so che i giornalisti si sono indignati per difendere non tanto le mie idee, quanto il mio diritto di esprimerle. Sono infinitamente grato a tutti quelli tra voi che credono ancora con forza al valore dei diritti garantiti dalla Costituzione. Abbiamo bisogno di voi giornalisti, ora più che mai. Questo è un momento critico per tutti noi.

Nonostante l'orrore e la tragedia dell'11 settembre, c'è stato un breve periodo in seguito in cui ho nutrito una grande speranza. Tra le lacrime e i volti sconvolti dei newyorkesi, nell'aria letale che respiravamo mentre lavoravamo a Ground Zero, di fronte al terrore dei miei figli nel trovarsi così vicini a questo crimine contro l'umanità, in mezzo a tutto questo mi aggrappavo a un barlume di speranza, nell'ingenua convinzione che da tutto ciò potesse nascere qualcosa di buono. Mi immaginavo i nostri leader cogliere questo momento di unità in America, questo momento in cui nessuno aveva voglia di parlare di democratici contro repubblicani, di bianchi contro neri o di nessuna delle altre ridicole divisioni che dominano il dibattito pubblico.

Mi immaginavo i nostri leader andare in televisione e dire ai cittadini che, sebbene tutti vogliano essere a Ground Zero, questo non è possibile. Ma c'è del lavoro da fare in tanti altri posti in America. C'è bisogno del nostro aiuto nei centri di assistenza sociale, per seguire i bambini e insegnare loro a leggere, c'è bisogno del nostro lavoro negli ospizi, per fare visita a chi è solo e infermo, nei quartieri degradati per ricostruire gli alloggi e risanare le aree verdi e convertire terreni abbandonati in campi di baseball.

Mi immaginavo il nostro governo raccogliere questa incredibile energia, questa generosità di spirito, e far sorgere in America una nuova unità nata dal caos e dalla tragedia dell'11 settembre. Una nuova unità che avrebbe mandato un messaggio ai terroristi, ovunque essi fossero: se ci attaccate noi diventiamo più forti, più puri, più istruiti, più uniti. I vostri disumani attacchi rafforzeranno il nostro impegno a sostenere la giustizia e la democrazia. Rinasceremo dal fuoco, come la fenice.

Poi è arrivato il discorso: "Chi non è con noi è contro di noi". E sono cominciati i bombardamenti. Ed è stata restaurata la vecchia logica, nel momento in cui i nostri governanti ci incoraggiavano a mostrare il nostro patriottismo andando a fare shopping e facendo volontariato in gruppi la cui attività consisteva nel denunciare i vicini che avessero mostrato comportamenti sospetti.

Nei 19 mesi trascorsi dall'11 settembre abbiamo visto la nostra democrazia compromessa dalla paura e dall'odio. Diritti fondamentali inalienabili, giusti processi, l'inviolabilità del domicilio privato, tutto ciò è stato messo in discussione in un clima di paura. Una cittadinanza americana
riunita si è presto aspramente divisa, e una popolazione mondiale che ci offriva solidarietà e sostegno ora ci disprezza e diffida di noi, giudicandoci come noi giudicavamo una volta l'Unione Sovietica: uno stato canaglia.

Lo scorso weekend Susan, io e i tre bambini siamo andati in Florida per una specie di riunione di famiglia. Si è bevuto, si è ballato, i bambini sono andati a caccia di dolci e, naturalmente, si è parlato della guerra. La cosa che più mi ha impressionato è stata il numero di volte in cui siamo stati
ringraziati per esserci apertamente opposti alla guerra, perché la persona che ci ringraziava non si sentiva sicura a farlo nella propria comunità, nel proprio ambiente. "Continuate a parlare. Io non ho potuto aprire bocca."

Un parente mi ha riferito che l'insegnante di storia di suo figlio undicenne, mio nipote, ha detto ai suoi alunni che Susan Sarandon stava mettendo in pericolo i soldati con la sua opposizione alla guerra. Un altro insegnante in un'altra scuola ha chiesto a nostra nipote se intendevamo assistere alla recita scolastica. "Non sono graditi qui", ha detto il formatore delle giovani menti.

Un altro parente mi ha riferito della decisione di un consiglio scolastico di annullare un evento locale in cui era previsto un minuto di silenzio per i morti in guerra perché gli studenti intendevano includere nella loro preghiera silenziosa anche le vittime civili irachene. Un insegnante nella scuola di un altro nipote è stato licenziato perché indossava una maglietta con il simbolo della pace. E un amico di famiglia mi ha riferito di aver ascoltato un programma di una radio al sud il cui conduttore istigava all'omicidio di un noto attivista pacifista.

Sono state ritrovate minacce di morte sulle porte delle abitazioni di altri pacifisti che si sono schierati contro la guerra. Vi sono nostri parenti che hanno ricevuto telefonate e messaggi e-mail di minaccia. Mio figlio tredicenne, che non ha fatto nulla a nessuno, è stato messo in imbarazzo e umiliato da un leccapiedi sadico che scrive, o piuttosto imbratta, i suoi articoli intingendo le dita nella melma.

Susan e io siamo stati etichettati come traditori, sostenitori di Saddam e vari altri epiteti dalla cartaccia scandalistica australiana che si fa passare per giornalismo e dai loro "imparziali ed equilibrati" cugini in formato elettronico, 19th Century Fox. Le nostre scuse a Gore Vidal.[1]

Due settimane fa, la United Way ha annullato la partecipazione di Susan a una conferenza sulla leadership femminile, mentre la settimana scorsa ci è stato detto che né noi, né il Primo Emendamento eravamo graditi alla Baseball Hall of Fame.

Un famoso cantante rock mi ha chiamato la scorsa settimana per ringraziarmi di essermi espresso apertamente contro la guerra, per poi andare avanti a dirmi che lui non poteva parlare perché temeva ripercussioni da Clear Channel. "Sono loro a promuovere le nostre apparizioni ai concerti", ha detto. "Possiedono la maggior parte delle stazioni che trasmettono la nostra musica. Non posso oppormi apertamente alla guerra." E qui a Washington Helen Thomas[2] si è vista bandita in una posizione marginale ed esclusa dai media dopo aver chiesto ad Ari Fleisher se, quando abbiamo mostrato in televisione i prigionieri di guerra nella Baia di Guantanamo, abbiamo violato la Convenzione di Ginevra.

Un vento gelido soffia sulla nostra nazione. La Casa Bianca e i suoi alleati nei dibattiti radiofonici in Clear Channel e in Cooperstown stanno mandando un messaggio: "Se vi opponete a questa amministrazione, ci potranno essere e ci saranno delle conseguenze." Giorno dopo giorno radio e TV si riempiono di avvertimenti, minacce più o meno velate, rigurgiti di invettive e odio indirizzati a ogni voce di dissenso. E i cittadini, come tanti parenti e amici che ho visto questo weekend, vivono la loro opposizione in silenzio, paralizzati dalla paura.

Ne ho abbastanza di sentir dire che Hollywood sarebbe contro la guerra. I pezzi grossi di Hollywood, quelli che hanno il potere e i divi da copertina, hanno in gran parte taciuto sulla questione. Ma Hollywood, come idea, è sempre stata un comodo bersaglio.

Ricordo che, quando ci furono le sparatorie nella scuola superiore Columbine, il presidente Clinton criticò Hollywood per aver contribuito a quella terribile tragedia. E questo mentre stavamo sganciando bombe sul Kosovo. Non può darsi che le azioni violente dei nostri leader contribuiscano in parte alle fantasie violente dei nostri adolescenti? O è tutta colpa di Hollywood e del rock and roll?

Mi ricordo di aver letto, all'epoca, che uno degli omicidi aveva tentato di arruolarsi per la guerra vera una settimana prima di mettere in scena la sua personale e più che realistica guerra alla Columbine. Allora parlai di ciò alla stampa e, curiosamente, nessuno mi accusò di antipatriottismo per aver criticato Clinton. Anzi, gli stessi patrioti radiofonici che oggi ci chiamano traditori erano impegnati in attacchi personali quotidiani al loro presidente durante la guerra in Kosovo. Recentemente, politici di spicco che hanno biasimato la violenza nei film (quelli che non perdono occasione per dare la colpa a Hollywood) hanno dato il loro voto per attribuire all'attuale presidente il potere di scatenare la violenza vera in questa guerra. Vogliono farci smettere la finzione della violenza, ma danno il loro benestare alla violenza nella realtà. E le stesse persone che tollerano la violenza vera della guerra non vogliono vedere i suoi effetti al telegiornale della sera. A differenza del resto del mondo, i nostri reportage di guerra sono sterilizzati e non lasciano intravedere l'aspetto cruento, la morte e il sangue tra i nostri soldati e tra le donne e i bambini iracheni. La violenza come concetto, come astrazione.

È molto strano. Mentre applaudiamo il crudo realismo della scena di battaglia iniziale di Salvate il soldato Ryan, rifuggiamo al pensiero di vedere le stesse scene al telegiornale serale. Ci dicono che sarebbe pornografia. Non vogliamo vedere la realtà nella vita reale. Chiediamo che la guerra sia accuratamente riprodotta sullo schermo, ma che resti immaginata e concettualizzata nella vita reale.

E nel mezzo di tutta questa follia, dov'è l'opposizione politica? Dove sono andati tutti i democratici? Svaniti ormai da tempo? Con tante scuse a Robert

Byrd, [3] devo dire che è piuttosto imbarazzante vivere in un paese dove un attore comico alto un metro e 55 ha più fegato della maggior parte dei politici. Abbiamo bisogno di leader, non di pragmatisti che si inchinano davanti alle trasmissioni faziose di ex giornalisti da intrattenimento. Abbiamo bisogno di governanti che capiscano la Costituzione, di rappresentanti del Congresso che non abdichino, in un momento di paura, al loro potere più importante, quello di dichiarare guerra, delegandolo all'esecutivo. E per favore, il Congresso potrebbe smetterla con il suo coro conformista?

In questo momento in cui i cittadini applaudono alla liberazione di un paese mentre vivono nella paura per le proprie libertà, quando un funzionario dell'amministrazione attacca un veterano del Vietnam mutilato candidato al Congresso, mettendo in discussione il suo patriottismo, quando la gente in tutto il paese teme rappresaglie se fa uso del proprio diritto a esprimersi liberamente, è arrivata l'ora di arrabbiarsi. È giunto il momento di tirare fuori le unghie. Non ci vuole molto per invertire la tendenza. Mio nipote undicenne, di cui ho parlato prima, un ragazzino timido che non prende mai la parola in classe, ha tenuto testa al suo insegnante di storia che stava mettendo in questione il patriottismo di Susan. "Sta parlando di mia zia. La smetta!" E l'insegnante, preso in contropiede, ha fatto marcia indietro, cominciando a balbettare complimenti imbarazzato.

I giornalisti sportivi in tutto il paese hanno reagito con tale veemenza alla decisione della Hall of Fame che il suo presidente ha infine ammesso di aver commesso un errore, mentre la Major League Baseball negava qualsiasi coinvolgimento nelle azioni del presidente della Hall. Un bullo può essere
fermato, così come una folla pronta al linciaggio. Quello che ci vuole è una persona con il necessario coraggio e una voce risoluta. I giornalisti in questo paese possono contrattaccare quelli che vorrebbero riscrivere la nostra Costituzione con il PATRIOT Act II, o Patriot II, La vendetta, come diremmo a Hollywood. Contiamo su di voi come attori del film.

I giornalisti possono rifiutare di essere utilizzati come agenti pubblicitari da questa amministrazione. Il prossimo corrispondente per la Casa Bianca ad essere contattato da Ari Fleischer dovrebbe rimandarlo al giornalista bandito del giorno. Dobbiamo combattere ogni tentativo di intimidazione nei confronti di chi fa uso della propria libertà di parola.

Qualsiasi forma di acquiescenza all'intimidazione provocherà a questo punto solo ulteriore intimidazione. Volenti o nolenti, voi avete una responsabilità enorme e un enorme potere. Il destino del discorso pubblico, lo stato di salute di questa repubblica è nelle vostre mani, che le opinioni che esprimete siano di destra o di sinistra.

Questo è il vostro momento e il destino che avete scelto. Affidiamo la continuazione della democrazia al vostro lavoro e contiamo sul potere della vostra penna. Milioni di persone guardano e aspettano in silenzio, tra frustrazione e speranza. Sperano che qualcuno difenda lo spirito e la
lettera della nostra Costituzione e sfidi le intimidazioni a cui siamo giornalmente sottoposti nel nome della sicurezza nazionale e di un concetto distorto di patriottismo.

Il nostro riconoscimento dell'inalienabile diritto al dissenso, alla messa in discussione dei nostri governanti e alla critica del loro operato definisce la nostra stessa identità. Consentire che questi diritti ci vengano sottratti per paura, punire le persone per le loro convinzioni, limitare l'accesso ai mezzi di comunicazione di chi sostiene opinioni discordanti, significa riconoscere la sconfitta della nostra democrazia.

Questi tempi ci pongono davanti a una sfida. C'è un'ondata di odio che tenta di dividerci, destra e sinistra, favorevoli e contrari alla guerra. Nel nome di mio nipote undicenne e di tutte le altre vittime più o meno note di questo clima di paura, ostile e sterile, cerchiamo di ritrovare i nostri valori comuni. Celebriamo insieme questo grande e glorioso esperimento, sopravvissuto per 227 anni. A tal fine dobbiamo onorare i principi che ci uniscono e difenderli senza abbassare la guardia. Come la libertà, il Primo Emendamento e, perché no, il baseball.


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