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AIDS: GUARDANDO L'AFRICA DRITTO NEGLI OCCHI
INTERVISTA A GIOVANNI DIFFIDENTI


A cura di ALessansra

 



Cinquantacinque maxi immagini (di oltre due metri) in bianco e nero che raccontano la realtà dell'Aids in Africa: e cioè il dolore di un continente troppo spesso dimenticato, ma anche le infinite possibilità di vita e di speranza per le future generazioni. Ecco che cos'è "Guardiamo l'Africa dritto negli occhi", la mostra fotografica che il Cesvi ha organizzato in Piazza Bergamo Centro, a Bergamo, dal 14 al 29 giugno, e che dal 13 al 15 settembre si è spostata al Festival Foto Portfolio di Savignano sul Rubicone in provincia di Forlì Cesena. L'autore è Giovanni Diffidenti, un fotografo bergamasco già noto ai lettori di Missione Oggi per i suoi reportage dall'Afghanistan e dallo Zimbabwe. Lo abbiamo intervistato.
Quanto tempo ci hai messo a realizzare questo reportage e da dove hai cominciato?
Ho iniziato a lavorare su quest'argomento nel 2001. Dopo aver documentato il progetto del Cesvi "Fermiamo l'Aids sul nascere" in Zimbabwe, mi sono reso conto che c'era già del buon materiale. Tuttavia non volevo limitarmi a fotografare i malati, ma toccare diversi aspetti della comunità. Questa, la penso come una specie di torta da tagliare a fette. Ovvero: quando si parla di Aids, le ripercussioni sono su tutta la società. E ho voluto appunto entrarci dentro, per tentare di capire che cosa succede.
In Zimbabwe, ho cominciato fotografando il primo bambino trattato con la Nevirapina - questo farmaco antiretrovirale che impedisce la trasmissione del virus dalla madre al neonato - e poi ho visitato gli stregoni, i bambini di strada, le prostitute. Sono stato nei club, negli orfanotrofi, negli ospedali.
Cosa ti ha stupito maggiormente?
La cosa che realmente stupisce, è che tutto ciò non è poi così visibile. Per vederlo, bisogna scavare. Se lo fai, scopri delle storie sconvolgenti. Quando riesci a trovare qualcuno che decide di raccontarsi, ti rendi conto di come le tragedie si aggiungono sempre ad altre tragedie: ad esempio, una madre malata di Aids aveva già perso il marito prima di sapere d'essere stata contagiata, e ora ha anche un bambino Hiv positivo; magari la sorella è nelle sue stesse condizioni. Ti accorgi allora della gravità del problema. Oltretutto, questa malattia resta uno stigma, qualcosa di infamante nell'Africa di oggi. Dunque, non si può dichiarare liberamente di averla contratta.
Quali sono gli effetti sociali dell'Aids nel continente africano?
Si aprono delle fratture insanabili all'interno della famiglia: tra moglie e marito, madre e figlia, ecc. Un caso emblematico è quello di Eli Mbengo, una donna congolese di 36 anni da me fotografata nell'ospedale di Kintambo (Kinshasa): era lì da sei mesi, dormiva su un materasso per terra con la figlia Gloria di 7 anni, la famiglia ha telefonato (senza farsela passare) solo per dire di chiamare quando ci sarà da portare via il cadavere. Oltretutto sono arrivato in un momento in cui le stanze erano sovraffollate e lei se ne doveva andare, non sapendo dove.
Dall'Uganda al Congo, dal Sudafrica allo Zimbabwe. Quattro paesi di cui hai raccontato storie diverse?
Sì. Quella dello Zimbabwe è una storia di speranza: il progetto del Cesvi, avviato nel marzo 2001 nel piccolo ospedale di Saint Albert, si è esteso ad altri nove ospedali del paese, ma è stato poi "esportato" anche in Sudafrica, Swaziland, Congo e Uganda. Fino ad oggi, sono 5.434 le donne sottoposte al test anti-Aids, 560 le mamme e i neonati trattati con il composto antiretrovirale Nevirapina, 12.170 le persone informate e sensibilizzate per la prima volta sui temi della prevenzione.
In Sudafrica, ho voluto documentare le condizioni di vita negli slum, mentre in Uganda mi sono concentrato sui progetti di sostegno: famiglie, toccate dal problema dell'Aids, partecipano a programmi sanitari, sociali, ecc.
In Congo, ho voluto mostrare che ci sono due guerre: una dove ci si spara, e l'altra dove non lo si fa e comunque si muore. Le due guerre sono collegate: come ha affermato Human Rights Watch, oltre mille donne sono state violentate e lo stupro è un'arma che contribuisce enormemente alla diffusione del virus.
Fra le storie raccolte, qual è quella che ti è più rimasta in mente?
Ad esempio, questa signora cieca - questa che ci sta guardando - secondo me era cosciente, ma di sicuro impotente di fronte ad una situazione che ho dovuto creare per fotografarla: il fatto che sei cieca, sei in fin di vita, non riesci nemmeno a parlare... Ciò nonostante questa donna mi ha guardato dentro, come nessun altro ha mai fatto. La malattia arriva fin qui.
Poi ci sono stati incidenti: ad esempio, riguarda quest'uomo pieno di croste con il quale ho passato un intero pomeriggio. Verso la fine della documentazione, mi sono ritrovato una macchia di sangue sul ginocchio; non riuscivo a capire da dove veniva, poi ho scoperto che mi ero tagliato al gomito. Lì è stato un segnale. Del tipo: guarda che stai esagerando. Sono andato a casa, mi sono fatto il test, per il momento è negativo… Ogni tanto ci sono dei segnali che vanno percepiti, perché se non lo fai può succedere quello che non vuoi che succeda.
Perché hai fatto questo lavoro? Perché oggi? Perché in Africa?
Posso solo dire che questo lavoro non è finito. Spero che ci siano le condizioni per poterlo continuare. Di storie, ce ne sono infinite. Modi di fotografare, anche. Tuttavia non è sufficiente. Ci vuole una combinazione di immagini, di storie, ma anche di un modo di comunicare queste cose. Mi ritengo fortunato che almeno questo primo capitolo sia stato scritto.
Il messaggio che ho cercato di dare è questo: la colpa non ricade sui malati, ma su tutti noi. Come tutti noi possiamo contribuire alla fine di questa tragedia.
Ritieni che l'utilizzo della Nevirapina possa essere un modo per combattere la diffusione dell'Aids?
Sì. È una delle vie. Anche se, logisticamente, non è facile da gestire: la madre non può allattare il bambino per 18 mesi; ci troviamo spesso in situazioni dove l'acqua spesso non è potabile; poi ti accorgi che per i primi due anni i bambini africani vivono o sulle spalle della madre o attaccati al seno: e allora se il piccolo piange e la madre non può allattarlo, già la gente la guarda di traverso ipotizzando la malattia. Tuttavia, sono stato testimone dell'inizio di questo progetto.
Stando a quanto dice il Cesvi, ci sono già dei risultati, della "negativizzazioni". Dunque vale la pena di affrontare i pregiudizi e tutto il resto, se la vita di qualcuno poi è salva.
Per quello che tu hai toccato con mano, quali sono le dimensioni di questa tragedia?
Le dimensioni si vivono solo quando vieni in contatto con una persona, che è infettata. Mentre quello che vedi camminando per i villaggi, ti suggerirebbe il contrario: la salute, l'esplosione della vita, ecc. Quando invece incontri un malato di Aids, questo poi ti racconta molte storie di altre persone infette. E allora hai un quadro spaventoso della realtà.
È vero che i funerali ormai sono così tanti in alcuni paesi africani, che anche la capacità di rielaborare il lutto sta cambiando, forse si sta perdendo.
Ho vissuto quest'esperienza in Uganda. Qui il rito funebre, tradizionalmente, poteva andare avanti anche più di un giorno; certo, la lunghezza della cerimonia dipende sempre dallo status sociale del defunto. Ma ti accorgi che ci sono situazioni, dove non si piange più. E, del resto, uno che va da un funerale all'altro, alla fine non ha più lacrime da versare. Tutto ciò incide in maniera pesante sull'economia della famiglia e del paese: se vai al funerale, non lavori.
Qual è, a tuo avviso, la reazione della gente che viene a vedere questa mostra? L'Aids è avvertita come una tragedia, che però non la riguarda da vicino?
Non lo so. A volte ti chiedi se questo è il modo giusto per mostrare una problematica, perché è talmente facile far credere alle persone che l'Africa sia così. Ma l'Africa non è così. È "anche" così. C'è una parte di me che dice: "Spero che questo messaggio non venga frainteso".
Mi piacerebbe che almeno una foto rimanesse impressa nella loro mente e li facesse riflettere. In una mostra, ci sono sempre una o due immagini che ti lasciano un'impronta dentro. È questo il mio obiettivo. Poi magari qualcuno qua non vede nemmeno l'Africa, ma un vicino, un amico: l'Aids è anche da noi.
Pensi che l'Africa morirà di Aids?
No.
Qual è l'immagine che è rimasta impressa sulla tua anima?
Forse quella di Dolly. È una donna, che ho fotografato nella baraccopoli di Philippi (Città del Capo, Sudafrica). Era allo stremo delle forze, non aveva più soldi per sfamare le due figlie. M'ha raccontato che una volta faceva dei bracciali con spille e perline, adesso però non ci vedeva più e sperava nell'aiuto delle organizzazioni umanitarie. Il marito era morto di Aids a 42 anni e lei aveva appreso della sua malattia nel '97, quando è nata la seconda figlia, anche lei sieropositiva.
Due mesi dopo il reportage mi è arrivata un email, dove si diceva che Dolly era morta e si chiedeva aiuto per le bambine. Quando l'ho conosciuta, le avevo dato qualche soldo. Il giorno dopo ero tornato da lei; con quei soldi aveva comprato del prosciutto. Aveva appena finito di mangiarlo, quando sono arrivato. Soltanto che la sua malattia era ad uno stadio così avanzato, che il corpo non riusciva più ad assimilare nulla. Così lei aveva sforzi di vomito e, per evitare di rigettare tutto, aveva ingoiato un cucchiaio di carbonella finemente tritata. A quei livelli, diventi talmente cosciente del tuo stato di salute, che il tuo pensiero è tutto concentrato sul "fare" per "stare un pochino meglio".
Dentro di lei c'era una lotta positiva e una negativa. Ovvero: voglio vivere perché non voglio abbandonare le mie bambine; e, dall'altra parte, la malattia la stava consumando. Dolly mi ha fatto capire, mi ha mostrato queste due forze opposte. Era un essere umano troppo trasparente.

©MISSIONE OGGI


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