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Il mare di bora
di Silvia Golfera
Il giorno in cui era nata, tutta Durazzo era
bianca di neve, e sembrava una città strana, quasi bella anche lei. Sua madre guardava
smarrita fuori dalla finestra dell'ospedale. La osservava scendere fitta e veloce, mentre
teneva fra le braccia quella bambina dalla pelle paonazza e dai capelli neri e irsuti, che
quasi non sapeva che farne. Così l'aveva chiamata Bora, che in albanese significa neve.
Quanto tempo era passato. Un secolo, un millennio. Forse semplicemente il tempo si era
spaccato e quello di allora non esisteva più. Quante volte sua madre le aveva raccontato
quella storia, quando si lamentava del freddo la mattina presto, mentre facevano la fila
allo spaccio, perché più tardi il latte non si sarebbe trovato. E lei, magra e
spilungona come stava diventando, aveva bisogno di calcio e di cibo nutriente. Anche suo
padre, dalla mensa degli ufficiali, portava qualche pezzo di carne, asciutto e stopposo, e
con grande orgoglio lo distribuiva nei piatti.
Ora, quando se ne stava a scrutare il mare, le pareva di risentirne l'odore acre e
spugnoso, mischiato con quello aspro di alghe e catrame, che le onde portavano. A volte le
pareva di riconoscere nell'aria che veniva da lontano anche la scia forte e appiccicosa di
Deda, che sapeva di tabacco, di polvere e di birra scadente. E allora le prendeva paura
che quel mare, sempre brumoso, su cui si stendevano grandi chiazze di olio, stesse per
restituirgliene il corpo, come a volte era successo ad altre donne, quando ancora
speravano di raggiungere i mariti in quel paese laggiù, che s'intravvedeva appena nei
giorni sereni. Che stava lì, quasi a portata di mano, a promettere ancora un futuro.
Invece erano state chiamate a riconoscere un cadavere, livido e gonfio di acqua, che
neanche il mare voleva più tenersi. Certi giorni le pareva che alla salsedine si unisse
il profumo dolciastro del sangue.
Non capiva neanche lei quel bisogno che aveva sempre di correre al porto o lungo la
spiaggia. Non certo per l'ansia di vederlo tornare. Da quando era partito, infatti, la sua
vita le pareva più linda, più chiara. Le sembrava di volare più leggera, sulla
bicicletta, senza quell'affanno dei pedali arrugginiti, che le avevano reso gravoso e
lungo ogni tragitto. Forse correva lungo la spiaggia per misurare la vastità del mare che
aveva messo fra loro e che le dava respiro. Eppure qualche volta, il pensiero che lui la
chiamasse, che la trascinasse nel mondo di là, le suscitava un'attesa gioiosa, che le
metteva buon umore.
Nelle giornate di sole, dopo il turno alla fabbrica, scappava con la sua bicicletta senza
freni fino al molo e puntava i piedi per terra quando arrivava. Sulla banchina osservava i
movimenti delle vecchie barche, sporche di ruggine, che si dondolavano pigramente nello
specchio liscio dell'acqua, o che sbattevano contro i muraglioni, quando tirava il vento e
il mare s'ingrossava. Aveva riconosciuto quella su cui si era imbarcato Deda, più stinta
e gobba e ammaccata delle altre, con un gabbiano dipinto sulla prua. Aveva un'aria
scontenta e un po' randagia, proprio come lui negli ultimi tempi. E come quel pescatore
che lo aveva fatto partire. Lo intravedeva a volte, coi capelli di sale e le braccia a
brillare nel sole, quando tirava le vele o armeggiava sul ponte. Lei accennava un saluto,
avrebbe voluto chiedere, ma lui abbassava la testa, e girava le spalle, con una
scontrosità pudica e inquieta che la teneva lontana.
Chissà come se la passava Deda laggiù. "Tutto bene viaggio e altro. Appena
sistemato chiamoti. Pensa sempre meglio. Baci tanti Deda".
Poi l'estate era sfiorita, dentro una polvere che si era fatta fango. Anche l'inverno
stava ormai per morire e dopo quel telegramma più niente.
Solo il mare, che a volte schiumava rabbioso, a volte era specchio, le ricordava ancora
quell'uomo che aveva spinto a partire, come se la voce di lui s'annidasse là sotto e
stentasse a riemergere. Ma era esistito veramente, o era stato solo un sogno, partorito in
una delle tante notti agitate che quel suo paese impazzito le aveva regalato?
Se l'era portato a casa una sera suo padre, quando l'Albania era anora un paese decente,
tutto tirato a lucido, la cravatta ben allacciata, una bottiglia di vino e una scatola di
tonno in mano.
L'amore era sbocciato subito, e sua madre le aveva cucito un abito nuovo, un po' scollato
davanti e stretto ai fianchi, azzurro pallido, per passeggiare in città, all'ora del
tramonto. Al braccio di lui, che raccontava del suo lavoro, di come vigilasse sulla
produzione e stesse attento che nessun sabotatore s'infiltrasse nei suoi reparti. Perché
già si fiutava nell'aria qualcosa di strano e gli operai lanciavano certe occhiate
insistenti e cupe che prima non avrebbero osato.
Quando ripensava a quel tempo la assaliva una nostalgia amara per una felicità che
sembrava promessa, mentre invece era già tutta lì e non se ne era accorta.
Poi di colpo, lui cacciato per strada come un malfattore e l'offesa che non gli dava pace.
Il passo sicuro si era fatto un instabile trotterellare, quando ancora l'accompagnava in
città, e non sapeva se mostrarsi o nascondersi.
Finchè era stato possibile aveva preteso che le sue poche camicie venissero stirate e
inamidate, ma poi la stoffa non aveva più retto e stracciato come gli altri era salito
anche lui su una traballante impalcatura. Uno dei suoi vecchi dipendenti l'aveva
riconosciuto. Allora era tornato a casa e lavoro non ne aveva più cercato.
Lei invece era stata assunta in una di quelle nuove fabbriche che facevano vestiti per i
paesi aldilà del mare, e almeno si campava, anche se solo in una stanza, in un grande
cubo di cemento e il bagno in corridoio, con altre dieci famiglie.
La mattina continuava ad alzarsi all'alba, come quando faceva la fila dal lattaio, perché
la fabbrica era lontana. Camminava lungo il porto e lo sciacquio del mare dava un ritmo
più calmo alla tempesta che si portava dentro. Immaginava Deda che passava da un bar
all'altro, a bere e a inveire contro il nuovo governo. E quando la sera poteva finalmente
gettarsi sfinita sull'unica sedia di casa, lo trovava già sdraiato, col fiato che puzzava
e lo sguardo incupito. Un giornale gettato sul pavimento. E tacevano, di rancore e di
vergogna.
A forza di passare accanto al mare, lungo quella strada cosparsa di sassi aguzzi che la
facevano cadere, quando si dimenticava di schivarli, e la ricopriva di una polvere salata,
che si portava in fabbrica e la faceva sognare, a Bora venne l'idea di partire. Sapeva di
tanti che a notte fonda si nascondevano fra le lamiere delle navi, e poi li si rivedeva
dopo qualche mese scorazzare in automobile, soprattutto d'estate, con addosso quei vestiti
che lei cuciva alla fabbrica. Ne parlò a lui, che prima non voleva. Poi presero a uscire
la sera, fino alla spiaggia, sull'orlo di casermoni uguali al loro, che il buio e l'odore
di vasto, rendeva più sopportabili. -In Italia nessuno ti conosce, potrai fare quello che
vuoi-gli diceva-e se lavorerò anch'io saremo ricchi presto. Potremo tornare e comprare un
negozio e una casa, una casa vera-gli sussurrava dentro il buio rotto solo dai gorgoglii
delle onde e dal latrato dei cani.
-Non sono tipo io da strisciare come un sorcio dentro una stiva. Le cose non potranno
andare sempre così. Non vedi come ci hanno ridotti? Vedrai che presto riprenderò il mio
posto!- sbottava lui con lo sguardo fisso nel buio. -Non essere sciocco-gli ripeteva
lei-non capisci che è l'unica speranza? Qui sei già morto.-
-Ma poi, come troveremmo i soldi per partire?-le chiese una sera, la testa incassata fra
le ginocchia, gli occhi socchiusi e impenetrabili.
-Col mio lavoro, con quel poco che è rimasto. Partirai tu, e quando avrai qualcosa da
parte pagherai il viaggio a me- sbottava lei, quasi con odio, ché l'impotenza di lui la
disgustava. Sentiva la testa e il cuore serrarsi, come in una pressa. Solo liberarsi di
lui le premeva. Che partisse, che affogasse, non faceva differenza, pur di sgravarsi di
quel cancro che l'opprimeva. E stringeva in mano uno di quei grossi sassi, pieni di punte
aguzze, fino a farsi sanguinare il palmo, prima di lanciarlo senza sapere dove. Solo un
tonfo e quello scivolio sordo a inghiottirlo, oltre uno specchio che il luccicore ambiguo
della notte rendeva infido e ostile.
-Smettete di spaventarmi i pesci.-sbottò una voce nel buio- Se si tratta di passare di
là posso aiutarvi io, sempre che abbiate un po' di dollari fra le mani.
Aveva avvertito solo un lieve fruscio, come di serpente, coperto a tratti dallo sciabordio
dell'acqua. E già credeva a un errore, a un terrore, ma poi le si era accostato fin quasi
a lambirla.
Ne avvertiva il respiro, incerto, irregolare e stanco. Per un attimo una pena profonda,
amara e ritorta, e stava già per voltarsi, quando le parve di intravedere all'orizzonte,
fra onde di pece, fiammelle, come di candela, che si agitavano a scatti e svanivano, per
poi sollevarsi di nuovo e avanzare fluttuando.
-Bora, sono io, sono tornato. Da un po' di giorni ti seguo, e non osavo
Non capiva se quei ceri prendessero il largo o tornassero a riva. Lei era ancora più
lontana. Le spalle rimasero ferme, il viso proteso altrove.
-Volevo partire, Bora. Volevo che tu lo credessi. Non volevo più tornare. Ma poi è
andato tutto male
e ho pensato a te
Che strana tempesta laggiù. Qui il mare era calmo, solo un lieve crespio di riflessi
lunari, la quiete immobile di una notte d'estate che profuma d'eterno. Bora appoggiò il
mento alle ginocchia con la solitudine a farle compagnia.
-Le ho tentate tutte: di aprire un bar, di vendere sigarette, di commerciare auto
mai
niente di buono
Come pensavi che potessi partire? Per me era una cosa
impossibile
Un uccello notturno, annidato nei cespugli lungo la costa, lanciava un richiamo perentorio
e infantile, quasi invisibile pendolo che scandiva il suo tempo. Un tempo deragliato in un
mondo lontano, così straniero da sentirselo in cuore.
-Sei arrabbiata per i soldi? Te li ridarò, in qualche modo. Guardami, per Dio
dimmi
qualcosa! C'è già troppo silenzio qui!
Dal terreno sabbioso e umido saliva un gracidare di rane che s'intravvedevano palpitare
nel buio e roteare i piccoli bulbi, prese da un terrore nascosto.
-Avevo chiesto al marinaio di mandarti un telegramma da Brindisi. Ho cercato di essere
come volevi, ma non ci sono riuscito.
La voce di lui cresceva, supplichevole e imperiosa, a pretendere che lei lo compatisse e
lo consolasse. Con la delusione e la stizza per quel bisogno di essere riconosciuto e
accolto che gli veniva negato.
-Bora, guarda come sono ridotto! Non ricordo da quant'è che non mangio. Aiutami. Torniamo
a casa. Lavorerò. Guardami, accidenti, sono tuo marito!
Qualcosa vibrò nel corpo di Bora, un'onda di paura che dalle coscie e dal ventre le si
annidò in gola. Che le seccava la lingua, le morsicava la nuca, le strangolava il cuore,
come intrappolata dentro una tagliola.
-Guardami, ti dico!!- gridò ancora Deda, e la afferrò con rabbia alla nuca, nel
tentativo di farla girare. E lei si girò, finalmente, e lo vide col viso scavato e
cattivo, solcato dalla bocca infossata.
Quando il sangue prese a scorrergli sopra agli occhi che sbarrava nel buio e a rigargli
gli zigomi incrostati di polvere, le sue braccia si misero ad annaspare nel vuoto, come
stesse nuotando. La bocca serrata mentre la gola di lei pian piano si riapriva al respiro.
Continuò a percuoterlo col grosso sasso che impugnava come un'accetta e le unghie e i
polpastrelli le si laceravano a ogni colpo. Ma la forza cresceva, con la voglia di
colpirlo di nuovo.
Quando cadde a terra lei gli fu sopra e il sasso continuava ad abbattersi fino a
sfondargli la fronte.
Allora Bora avvertì il dolore acuto che saliva dalla mano. Gettò il sasso lontano,
nell'acqua. Si sentiva leggera e felice, come non era stata da tanto tempo e le sembrava
di avvertive adesso quella neve antica che si posava leggera su tutte le cose, sugli
alberi e i davanzali, sulle antenne, sui viottoli, sulla riva silenziosa. E anche sul suo
viso e sulla mano indolenzita.
Sollevò le spalle di Deda e lo trascinò. Lo fece scivolare nell' acqua e lo spinse fin
dove toccava, e ancora lo lanciò avanti come una zattera a cui far prendere il largo.
Indugiò un poco, nel liquido caldo, a sciacquarsi del sangue e della polvere, prima di
riprendere la strada di casa.
Mentre Deda navigava tranquillo, in braccio alle correnti. |
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