|
Nei mesi scorsi ho passato un periodo in Brasile. Per un mese ho
vissuto in un villaggio vicino alla costa atlantica del Pará. Aricuru si trova a un'ora
di barca dal municipio: vi abitano circa 30 famiglie che vivono di pesca, agricoltura e
raccolta di frutti spontanei. Difficilmente la gente qui soffre la fame, anche se molti
valuterebbero come "povero" questo villaggio che non dispone di acqua corrente
nelle case (ma l'acqua abbonda), né di luce elettrica.
Quello di cui però voglio scrivere, sono i bambini di Aricuru. Sono stata subito adottata
da Josimara, Janize, Gian Carlos, Alcione ed Emanuele, figli di Eliete e Juraci, la
giovane coppia che abitava la casetta a fianco alla mia (Jessè di 12 anni era spesso
impegnato ad aiutare il padre; un'altra sorellina era in arrivo). I bambini passavano
quasi tutto il tempo in cui io ero in casa insieme a me, disegnando o facendomi mille
domande timide ed estasiate sulla mia sveglia, sugli elastici per i capelli, sui colori
per dipingere, chiedendomi una collana o un camion per giocare, una banana o un biscotto
da mangiare, insegnandomi a difendermi dalle formiche velenose o a convivere con
pipistrelli e rane. Altri, a gruppi, venivano a spiarmi dalla finestra o a portarmi il
pesce.
Di tutti i bambini del villaggio osservavo la grande autonomia dai genitori, la loro vita
in gruppi solidali. Gli adulti sembrano intrattenere con i bambini dopo i 18 mesi solo
relazioni di consegna: "vai a dire la tal cosa a tizio", "vai a prendere la
tal cosa da caio", alle quali richieste era fuori discussione la possibilità di
disubbidire, anche se spesso il compito veniva svolto con un ritmo che era il bambino a
scegliersi: nel percorso magari giocava un po', si fermava da qualcuno e non veniva per
questo particolarmente rimproverato.
È davvero rarissimo sentire un bambino di qualsiasi età piangere, perché il concetto e
la pratica del capriccio sono inesistenti e il dolore è quasi sempre senza lacrime;
questi bambini poi chiedono davvero pochissime cose agli adulti e se non le ottengono non
se ne danno alcuna pena.
I bambini, maschi e femmine, vivono in gruppi di fratelli o amici, passando il tempo
libero dalla scuola (vanno a quella del villaggio dai 7 agli 11 anni, per due ore al
giorno, ma abbastanza frequentemente la scuola è chiusa) e dalle incombenze domestiche
(andare a prendere il pesce al corral1, aiutare la madre) a esplorare i dintorni, mangiare
frutta sugli alberi e costruire giochi.
Colpiscono molto le relazioni fra di loro: di una tenerezza e solidarietà sconcertante
per noi abituati a dirimere e mediare continui conflitti e gelosie fra i nostri bambini.
Appena si offre un frutto a uno di loro, va a cercare almeno un altro fratello o sorella
per dividerselo e se è un regalino ne reclama un secondo per gli altri: qui davvero si
capisce che la proprietà privata non ha nulla di universale e che non esiste alcuna fase
obbligatoria di affermazione della propria identità attraverso la rivendicazione del
possesso di oggetti. La relazione primaria è quella della cura, dell'attenzione e della
tenerezza: non ho mai visto due bambini litigare; li ho visti sì fare la lotta, ma in un
contesto in cui quello era il gioco.
QUESTIONI DI STILE DI
VITA
Al villaggio ci sono solo tre televisioni, che funzionano quando il motore a cherosene che
produce energia elettrica è in azione (solo, di rado, la sera).
Dopo gli 11 anni tutti vanno a scuola in città per almeno altri 2 o 4 anni; viaggiano
ogni giorno e realmente là diventano adolescenti simili a quelli che conosciamo noi. C'è
quindi questa strana situazione, nella quale da piccoli vivono non molto diversamente da
cento anni fa e dopo gli 11 anni vengono immersi nella società del 2000 con relativi
sogni (di andarsene, di fare la poliziotta, di viaggiare), noia e malessere (si veda il
consumo di alcool e droga). La frustrazione maggiore, la vivono le ragazze che spesso si
ritrovano madri intorno ai 15 anni, abbandonando in fretta sogni e desideri di altro.
La vita dei bambini descritta sin qui non ha strettamente a che fare con le relazioni di
genere, che come si può immaginare restano conflittuali e con pesi spropositati per le
donne, piuttosto richiama un immediato confronto con la vita dei nostri bambini e la
struttura e i valori della nostra società. Adulti e bambini ad Aricuru sembrano mondi
separati: i piccoli entrano nel mondo dei grandi con discrezione e rispetto, ma questi
ultimi sembrano non ritenere che il mondo dei piccoli competa loro in alcun modo né per
esercitarvi controllo, né per riversarvi insegnamenti.
A produrre cura e responsabilità, autonomia e capacità di mediazione fra i bambini non
sono tanto l'educazione, l'esempio degli adulti e tanto meno l'istruzione formale, quanto
invece uno stile di vita sobrio, una compartecipazione alla produzione delle risorse per
la sopravvivenza della famiglia, un territorio nel quale muoversi liberamente che è sì
delimitato, ma sufficientemente grande (fatto di fiumi, foresta, frutteti, villaggio,
stagni) e che sanno dominare, un controllo e un'autogestione del proprio tempo e dello
spazio che imparano dagli altri bambini, l'essere immersi in un contesto comunitario che
tratta qualsiasi bambino come il proprio figlio (e anche quando sono molto piccoli tutte
le donne di casa si comportano come la mamma del bambino, tanto che non è mai chiaramente
distinguibile chi delle varie sorelle o cognate che vivono vicine sia realmente la madre).
A volte avevo l'impressione che a produrre effetti positivi fosse proprio l'assenza degli
adulti, la presenza assolutamente discreta delle donne: sono lì nei momenti in cui i
bambini lo desiderano o per fare il bagno, mostrano (ma senza intenti pedagogici)
competenze tecniche (imparare a pulire il pesce, a fare la farina di manioca), ma sono i
bambini da soli, come gruppo che decidono dove andare, cosa fare, con chi farlo e quando
farlo in un continuo gioco di esplorazione, divertimento, apprendimento, relazione fra
loro e con altri. Crescono molto più in fretta che da noi, ma, ciò che spesso non si
sottolinea abbastanza, non è vero che ricevano pochi e semplici stimoli o che rinuncino
all'infanzia e alla sua dimensione di gioco. Tutt'altro!
Forse anche ad Aricuru l'infanzia sarà destinata ad entrare nel XXI secolo: quando
arriverà la corrente elettrica e ogni famiglia avrà un troneggiante televisore e la
scuola non avrà più le pluriclassi e una maestra troppo impegnata in altre cose; e anche
qui i bambini riceveranno mille attenzioni in più, ma anche mille raccomandazioni e tanti
divieti e allora impareranno a disubbidire davvero e a fare i capricci; avranno molti meno
fratelli e sorelle, ma impareranno almeno ad esserne gelosi fino alla rabbia. È sempre
quella cosa che si chiama progresso, che piace tanto prima che arrivi e poi ci si consola
dimenticandosi un po' com'era davvero prima, ad esempio per i bambini.
©
Missione Oggi |
|