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"Siamo qui per pochi giorni, non siamo
degli esperti, vorremmo solo sapere che cosa sta succedendo in questa zona". Oliver
Stone, come s'addice ai veri giganti della cinematografia moderna, ha un atteggiamento
umile nei confronti del suo documentario, "Persona non grata", presentato al
Festival di Venezia - nella sezione "Nuovi territori" - e trasmesso da RaiTre il
13 settembre. Il suo è uno sguardo sul conflitto israelo-palestinese con interviste
girate in cinque giorni, nel marzo 2002, fra Gerusalemme e Ramallah. Dal lato israeliano
gli interlocutori sono tre ex premier (Shimon Peres, Ehud Barak e Benjamin Netanyahu), lo
storico Meil Pail e il parlamentare Gideon Ezra; dal lato palestinese, Stone interpella il
portavoce di Hamas, Hasan Yoseph, e alcuni componenti mascherati della Brigata Al Aqsa,
fra cui uno dei massimi dirigenti il cui nome di battaglia è Abu Kassir.
Pesa l'assenza di Ariel Sharon. "Non ha voluto parlarmi", ha detto il regista
americano. "È anche vero che in quei giorni c'era appena stata la strage di Netanya.
Ma se avesse voluto
". Con Yasser Arafat - altro grande assente, di cui però si
ascoltano i discorsi televisivi e di cui tutti, nel bene o nel male, parlano - è andata
diversamente. Era il periodo in cui doveva andare in Siria, a Damasco, per il summit arabo
ed era sotto grande pressione. Era isolato, nel suo quartier generale, e gli israeliani
avevano detto che se fosse partito (e loro volevano che partisse), non sarebbe potuto
tornare indietro. Ma lui è rimasto e, come si vede nel documentario, poco dopo la
partenza della troupe l'intera area viene attaccata e distrutta dall'Esercito israeliano.
L'OCCASIONE PERSA DI
GEORGE BUSH
"Nessuno trema, nessuno ha paura, nessuno si sta ritirando
", tuona la voce
di Arafat dalla tv. Ma è il suo labbro inferiore ad essere scosso da un tremore senza
fine, mentre i tank avanzano. E Stone deve arrendersi all'idea di andarsene sotto scorta
canadese. "Gli israeliani non garantiscono più alcun passaggio sicuro. Tra 2-3 ore
qui sarà buio pesto", gli avevano riferito. E lui era sbottato: "Odio che mi si
dica che cosa devo o non devo fare
". Poi aggiungerà: "Bush, in quella
circostanza, non è stato imparziale. Ha perso un'occasione d'oro: quando gli israeliani
sono entrati a Ramallah, doveva opporsi; invece ha detto che era giusto, che Israele aveva
il sacrosanto diritto di difendersi. Non ha ottenuto nulla, non è riuscito a portare
Sharon su posizioni più moderate".
"Non bisogna cercare di vincere troppo. Se una cosa non è terribilmente importante,
non si deve insistere", mette in guardia ad un certo punto Shimon Peres, l'unico vero
statista fra gli ex premier intervistati. E a proposito di Arafat ammette: "È una
conversione difficile, quella di Arafat: da rivoluzionario a leader politico".
Sul leader palestinese, le voci sono discordanti. La più stonata in assoluto è quella di
Benjamin Netanyau: "Arafat è un gran bugiardo. Hamas dice in arabo e in inglese di
voler distruggere Israele. Arafat lo dice solo in arabo". Mentre Netanyau, nel suo
inglese-americano fortemente accentato (neanche si fossero prolungati i suoi soggiorni in
Texas
), alza la voce, ride sarcastico e parla per luoghi comuni, il Nobel per la
Pace non esita ad ammettere: "Conosciamo il prezzo che noi israeliani dobbiamo
pagare. Soltanto un intervento esterno, di un terzo soggetto come le Nazioni Unite, ci
porterà alla pace". Della stessa opinione appare Stone: "È un conflitto
infinito, che terminerà solo quando verrà trattato come un problema che non appartiene
solamente a israeliani e palestinesi, bensì al mondo".
Questo regista che s'appassiona alla questione mediorientale da sempre - cioè da quando
negli anni 70, sposato con una libanese, si trasferì per un periodo in Libano -, non si
stupisce davanti a nulla. Nemmeno davanti alle dichiarazioni di Abu Kassir delle Brigate
di Al Aqsa: "Non prendiamo ordini da Arafat, ma da Israele nella misura in cui ci
attacca. Tuttavia se Arafat ci chiedesse un cessate il fuoco, lo rispetteremmo. Nel
frattempo, però, non possiamo assistere impotenti alla nostra distruzione". E
ancora: "Da una guardia della sicurezza di Sharon (ora in carcere, ndr), abbiamo
acquistato 60 M16 e 5 milioni di proiettili. Abbiamo sborsato parecchio; il venditore se
ne è approfittato un po'". Stone fa eco: "È una vecchia storia, la vedevamo
anche in Vietnam - armi che venivano vendute ai nemici - e la gente faceva soldi a palate.
L'avidità esiste anche nell'Esercito. E il conflitto tra Israele e Palestina non fa
eccezioni".
Dal covo delle Brigate di Al Aqsa escono le scene più interessanti del documentario. Uno
dei portavoce dice: "Certo che abbiamo un lavoro regolare durante il giorno. Che cosa
pensa? La nostra vita quotidiana diurna è come quella di chiunque altro". E Stone
rincalza: "E i kamikaze? Esiste una vera e propria lista di persone disponibili al
martirio?" La domanda viene ripetuta due volte, prima di questa precisazione:
"Tentiamo sempre di convincerli a non andare, ma dei potenziali kamikaze esiste
ovviamente una lista. Ed è molto lunga: c'è moltissima gente disposta a morire per la
nostra causa".
Del resto, lo si è visto nel quartier generale di Yasser Arafat, la Muqata: i manifesti
di chi s'è fatto saltare sono appesi un po' su tutti i muri, come se fossero star del
rock. E il livello di disperazione, dalla quale traggono linfa i movimenti terroristici
palestinesi, è sempre molto alto. Una donna che vive nel campo profughi di Al Amaasri
(Ramallah), urla alla telecamera: "Che cosa vuole ancora da noi quel cane di Sharon?
Ha distrutto le nostre case, con noi dentro, mentre la maggior parte dei paesi arabi se ne
fottevano di noi e del nostro futuro".
Già, il futuro
E il presente? Nelle ultime scene del documentario, Shimon Peres -
che lo scorso agosto ha festeggiato i suoi ottant'anni e che vorrebbe vedere delinearsi
una reale iniziativa di pace, prima di lasciare questa Terra - ha espresso questo
desiderio: "Vorrei che ai bambini israeliani e palestinesi s'insegnasse la storia del
futuro, non quella del passato che è stata scritta con un inchiostro rosso".
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MISSIONE OGGI |
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