|
Consegna a
domicilio
di
Sergio Tardetti
Testo disponibile in
formato PDF -
Download [167 KB]
e in formato Lit -
Download [100
KB]
Avrò avuto forse non più
di undici anni. Dopo aver terminato le scuole elementari, avevo scelto
di non andare a lavorare, come faceva allora la maggior parte dei miei
coetanei.
Mi era sempre piaciuto studiare, ero curioso e pieno di buona volontà,
in poche parole l’allievo modello che ogni insegnante avrebbe voluto
avere nella sua classe.
Quell’estate, comunque, un po’ per la mia naturale curiosità, un po’
perché le casse della famiglia languivano, cosa che, del resto, accadeva
di frequente, volli provare anch’io cosa volesse dire lavorare sul
serio.
Il macellaio, dove ogni tanto si andava a comprare qualche rara fetta di
carne, aveva urgente bisogno di un aiuto. Mio padre che, di solito, gli
dava una mano, quando lavorava poco o se aveva tempo, aveva da qualche
mese un lavoro stabile, che, però, lo costringeva a tremende levatacce
alle quattro del mattino. Per questo dedicava buona parte del pomeriggio
a recuperare il sonno perduto e la sua disponibilità di tempo si era
ridotta troppo per le esigenze del nostro macellaio.
Fu così che dissi a tutti: “E se provassi io?” Nessuno all’inizio
rispose né sì né no, si limitarono a guardarmi a lungo, come se
volessero valutare se i miei trentacinque chili scarsi, di poca carne e
molte ossa, sarebbero stati in grado di reggere la fatica. Io, intanto,
mi andavo sempre più convincendo di trascorrere l’estate dietro il
bancone di un negozio. Inoltre, mi attirava l’idea di un compenso
settimanale fisso, per avere almeno qualche lira da spendere per me.
Infine, l’estate si preannunciava piuttosto lunga e particolarmente
vuota, visto che quasi tutti i miei amici, chi al mare, chi in montagna,
erano partiti per le vacanze.
Fu così che ebbe inizio il mio tirocinio di garzone di macellaio.
Marino, il mio capo, iniziò quasi subito ad introdurmi ai mille segreti
della professione. A quel tempo era solo un dipendente. Il negozio e la
licenza appartenevano, in realtà, ad un noto albergatore della zona, al
quale Marino versava una parte degli incassi giornalieri. Era un
macellaio nato, un vero genio nel suo mestiere. Partito dal niente, era
destinato a fare una brillante carriera e a ritirarsi dall'attività dopo
essere diventato proprietario di ben tre macellerie in città e di una
elegante villa in un quartiere residenziale.
Il primo trucco che imparai subito fu quello della pesata al volo. Si
trattava di far cadere dall’alto, sul piatto della bilancia, l’involto
con la carne del cliente e poi si doveva essere svelti a ritirarla
indietro, dopo avere annunciato, ad alta voce, il peso indicato dalla
lancetta. Si guadagnavano quasi sempre quei cinquanta grammi, a volte
anche cento, si vendeva, in sostanza, aria al posto di carne, e anche a
buon prezzo. Poi venne il trucco del vitello “taroccato”. Consisteva
nell’acquistare qualche vecchio bue, che non era più in grado di
trascinare l’aratro, farlo macellare e poi tenerlo nella cella
frigorifera per alcuni giorni a frollare, per ammorbidirne le carni e
farlo passare per vitello. Poi, altri
trucchi ancora, che avrebbero fatto la fortuna di Marino e di tutta la
sua numerosa famiglia. Più imparavo a conoscere il mio capo, più mi
rendevo conto che la fantasia umana non ha veramente confini.
Quanto a me, ero trattato con tutti i riguardi. Innanzi tutto, avevo
diritto tutte le mattine ad una vera colazione, che andavo a consumare
nella salumeria accanto. Questa merenda, a volte più abbondante dei
pasti che si servivano in casa, aiutava a mantenermi in forze,
soprattutto per le attività più pesanti, tra le quali rientrava, di
tanto in tanto, la consegna a domicilio delle carni ordinate dal
cliente. Erano sempre clienti piuttosto benestanti, che facevano i loro
ordini per telefono. Questo fatto li poneva diversi gradini al di sopra
dei clienti ordinari, che venivano ogni tanto ad acquistare carni di
seconda o terza scelta e che avrebbero dovuto aspettare molti anni prima
di avere anche loro un telefono in casa. Memori delle loro trascorse
disagiate condizioni,
avrebbero poi continuato ad usare il telefono, ancora per molti anni a
venire,
esclusivamente per ricevere. Se proprio si doveva alzare la cornetta per
chiamare qualcuno, doveva trattarsi del medico o di casi di assoluta
emergenza. I veri benestanti, invece, non lesinavano sul costo delle
chiamate: chiamavano spesso, a diverse ore della giornata, per ordinare
qualche bel pezzo di carne tenera e saporita, per il pranzo o per la
cena.
La macelleria, come la maggior parte degli esercizi pubblici di allora,
non era dotata di un telefono proprio. Si trattava di andare a
rispondere alla salumeria accanto, che funzionava anche da posto
telefonico pubblico per l’intero quartiere. Ogni volta che sentivo lo
squillo del telefono, stavo attento ad ascoltare se qualcuno dei
commessi della salumeria avesse chiamato a gran voce il mio principale.
“Marino, al telefono! Clienti!”
Queste erano le parole magiche, che mi facevano scattare come una molla,
per avere il raro privilegio di poter rispondere ad un vero apparecchio
telefonico, non certo ad uno di quei giocattoli che noi ragazzini ci
costruivamo con uno spago e due vaschette per il gelato. Il capo non se
la prendeva, non si sentiva usurpato di un suo privilegio, capiva
benissimo che per me era come un gioco e del resto, ad appena ventuno
anni, anche lui aveva abbandonato da poco tempo l’età dei giochi, per
entrare bruscamente in quella delle responsabilità.
La domenica era il giorno che attendevo con più ansia, non solo perché
quella mattina avrei potuto risparmiare la levataccia, alla quale il mio
nuovo lavoro mi costringeva durante la settimana. C’era un motivo in più
che rendeva così attesa la domenica.
Marino, come ho detto, all’epoca dei fatti era un giovanotto appena
maggiorenne, che aveva commesso l’errore, a detta almeno delle ragazze
che frequentavano il negozio, di fidanzarsi con una donna di dieci anni
più grande di lui. Era veramente una brava persona, lavorava in casa
come sarta e, per di più era decisamente un’ottima cuoca. Io la trovavo
simpatica, anche se un po’ vecchia per Marino, che, però non sembrava
dare molta importanza alla differenza di età.
Adele, così si chiamava, era rimasta vedova tre anni prima di conoscere
Marino. Il marito, un giovane carabiniere, era caduto durante una
sparatoria con un paio di balordi, che avevano rapinato un orefice poco
prima di imbattersi nell’auto della pattuglia di servizio. Erano stati
sposati, lui e Adele, non più di tre mesi e, nel frattempo, non avevano
avuto nessun figlio. Aveva conosciuto Marino una sera a cena in casa di
amici. Veramente Marino non era un invitato, era solo il commesso di un
macellaio, presso il quale aveva iniziato ad imparare il mestiere. Era
andato in quella casa per una consegna a domicilio, e in quella
occasione aveva potuto dare più di un’occhiata ad Adele e l’aveva
trovata piuttosto attraente. Qualche giorno dopo, Adele era capitata,
quasi per caso, nel negozio di Marino e lui le aveva rivolto alcune
battute scherzose, che l’avevano fatta sorridere. Era tanto tempo che
non sorrideva. Adele si sentiva agitare dentro ogni volta che incrociava
lo sguardo di quel giovanotto dall’aria spavalda, nero di occhi e di
capelli. Quando decise di tornare al negozio, anche se non doveva
comprare niente, capì che Marino sarebbe stato il compagno della sua
vita.
Così era iniziata quella storia, che andava avanti ormai da tre anni
senza problemi, se si esclude il fatto che Adele, di tanto in tanto,
lasciava cadere il discorso sull’eventualità di fissare una data per il
matrimonio. Marino fingeva sempre di non aver capito, la stringeva forte
tra le braccia e la sollevava ridendo. Lui preferiva chiamarla Dina,
invece che con il nome di battesimo, e lei aveva acconsentito volentieri
a farsi chiamare così, considerandolo un segno d’affetto nei suoi
confronti.
La domenica, quando Marino mi portava con sé a pranzo da Adele, mi
faceva salire dietro la sua lambretta nuova fiammante, che aveva
comprato firmando un mucchio di
cambiali. Non facevamo in tempo a fermarci sotto il portone che Marino
gridava: “Dina, fietta!”, che nel nostro dialetto significa: “Dina,
affetta!”. Intendeva il prosciutto. Era uno scherzo abituale tra loro,
che aveva la sua origine in una storia, raccontata a Marino da un suo
amico d’infanzia.
Lei capiva il messaggio e correva subito in cantina, dove teneva sempre
una buona scorta di generi alimentari. Da lì risaliva con un prosciutto
ben stagionato e si metteva subito all’opera. La prima fetta era sempre
per me, insieme ad un pezzo di quel buon pane che Adele si preparava da
sola in casa. Il pranzo, poi, era memorabile. In un solo pasto facevo il
pieno di proteine per tutta la settimana. La carne, naturalmente, era un
gentile omaggio della “Premiata ditta Marino e c.”. Era sempre carne
sceltissima, bocconi prelibati che Marino riservava per sé e per la sua
Dina, nascondendoli alle voraci attenzioni dei clienti e, soprattutto,
del proprietario del negozio. E, naturalmente, ce n’era una parte
riservata anche per me.
L’estate trascorreva così, serenamente, e non si avvertiva nemmeno
l’eccessivo caldo che al giorno d’oggi sembra accompagnare, come una
condanna implacabile, le notti di luglio e agosto. Il mio peso era
aumentato un po’ e tutto quel gran movimento, che il lavoro comportava,
mi aveva anche fatto irrobustire e crescere di un paio di centimetri.
Marino, più che un datore di lavoro, era come un fratello maggiore, per
me che ero il più grande tra tutti i miei fratelli e sorelle e ne avevo
sempre dovuto portare il peso.
Ogni tanto, per non costringermi a stare sempre in negozio, mi dava
qualche incarico di responsabilità. Io mi sentivo sempre particolarmente
investito della parte, soprattutto quando mi permetteva di uscire col
mio camiciotto da lavoro tutto coperto di sangue.
Anche gli altri ragazzi di bottega come me preferivano girare con il
grembiule o il camice da lavoro, quando dovevano andare per strada.
Nessuno si vergognava dei suoi abiti dimessi. Al contrario, ognuno era
fiero di mostrare alla gente che lui già lavorava ed aiutava a mantenere
la famiglia. Finito il primo periodo di apprendistato, Marino cominciava
ad assegnarmi compiti più importanti, che non fossero solo quelli di
tenere pulito e in ordine il negozio e splendente la vetrina.
A proposito della vetrina, Marino teneva in maniera particolare che
fosse sempre pulita, senza macchie di sangue o di grasso, cosa piuttosto
difficile in una macelleria. Mi faceva passare diverse volte alla
settimana sui vetri con acqua e carta di giornale perché, diceva lui:
“come il giornale e l’olio di gomito non c’è niente che pulisce”.
All’inizio mi chiedevo perché non mi fornisse un po’ di quell’olio di
gomito tanto
decantato, che prometteva miracoli, anziché farmi usare carta di
giornali e acqua di rubinetto, e sudare come una fontana per mantenere
bella lustra la vetrina. Mi ci vollero almeno tre settimane per capire
che quell’olio di gomito, così importante per una buona pulizia, non si
vendeva in nessun negozio.
La vetrina, soprattutto nei fine settimana, diventava una specie di
camera ardente in miniatura, dove polli, piccioni, conigli e altri
animali, rigorosamente commestibili e rigorosamente morti, facevano
bella mostra di sé, per invogliare i clienti all’acquisto. La vetrina
era anche il punto più luminoso del locale, illuminato naturalmente dai
raggi del sole del tramonto o dalla luce soffusa del mattino, per poter
dare a tutti quei potenziali arrosti della domenica un aspetto fresco e
sano.
Esporre la merce in vetrina comportava anche qualche rischio. Polli,
galline, piccioni, conigli, infatti, dovevano recare tutti, bene in
vista, il bollo rosa del dazio, che voleva dire che quelli erano animali
per i quali era stata pagata una regolare tassa e potevano dunque ambire
ad essere posti in vendita al pubblico. Marino era il gran maestro di
cerimonie e disponeva di molta inventiva e fantasia. Intanto, per il
fatidico bollo aveva trovato una soluzione salomonica: solo metà della
merce venduta veniva regolarmente bollata. L’altra metà poteva al
massimo aspirare ad una copia sbiadita, ottenuta artigianalmente,
bagnando il bollo vero con un po’ d’acqua e accostandovi l’animale non
ancora bollato. Marino eccelleva, inoltre nell’arte di ricomporre quei
futuri arrosti, facendo assumere loro pose di una tale naturalezza da
sembrare freschissimi, e tutti prodotti di fattoria, “ruspanti”, come
era solito ripetere alle incantate clienti, che si lasciavano
affascinare dalla sua parlantina sciolta. Era veramente sublime quando
si dedicava al difficile compito di rendere presentabili sul piatto di
portata quei gloriosi caduti.
Io, intanto, facevo tesoro dei suoi infiniti trucchi e della sua fervida
fantasia e mi preparavo ad un futuro da operatore alimentare, in
un’epoca non lontana, in cui ogni macelleria sarebbe stata nobilitata,
assurgendo al rango di “boutique” della lombata. I miei studi, come in
ogni buona scuola professionale che si rispetti, si completavano con
lezioni pratiche su come incidere i vari tagli di carne, per renderli
meno difficili da masticare, e su come preparare i vari ingredienti per
la produzione della salsiccia.
Il mio maestro era solito ripetere spesso alcuni dei dettami della sua
arte, perché potessi assimilarli meglio. “Ricordati – diceva – che le
salsicce si possono fare anche col maiale”. A dire il vero, di queste
salsicce di maiale se ne facevano pochissime.
Alcune erano per il consumo di famiglia, quella di Marino, della sua
fidanzata nonché promessa sposa Adele e, in piccola parte, anche della
mia.
C’erano poi delle eccezioni. Veniva spesso al negozio un distinto
signore, al quale Marino si rivolgeva sempre in tono molto deferente,
con ossequi a destra e a manca.
Aveva sempre la faccia burbera e accigliata, parlava poco, con un forte
accento forestiero. Si limitava poco più che a salutare: ritirava da
sopra il bancone il grosso pacco che Marino aveva preparato nel
frattempo, con i pezzi più scelti e più teneri di manzo e vitello e con
un buon numero di salsicce, quelle vere naturalmente. “Se vuoi vivere
tranquillo nel mare, devi imparare subito a nuotare.” Era uno dei detti
più frequenti di Marino, che era solito ripeterlo più volte, non appena
il distinto signore si era chiuso la porta del negozio dietro le spalle.
Poco più che maggiorenne, Marino era già un antico saggio, che aveva
fatto tesoro di tutte le esperienze della vita, vissute fino a quel
momento nei diversi ambienti di lavoro, al servizio di diversi padroni.
E, adesso, cercava di far rendere questo tesoro con tanto di interessi.
Io gli ero veramente grato per quel suo modo di farmi accostare alla
vita, con serenità ma anche con spirito pratico. Solo adesso, a distanza
di molti anni da quell’estate, capisco come in quei giorni cresceva non
solo la mia statura ma anche la mia anima.
E, finalmente, venne il giorno della grande prova. Adesso che possedevo
tutti i rudimenti dell’arte norcina, potevo anche dedicarmi a compiti
più complessi e di maggiore responsabilità. Quello che più difficilmente
Marino affidava ad estranei, soprattutto se alle prime armi come me, era
il rapporto diretto con i clienti, quello nel quale non esisteva bancone
né piedistallo che innalzasse la funzione del macellaio a celebrante di
un sacrificio rituale, ad uso e consumo, non più di antiche divinità
pagane, ma della gente comune.
Quando, in sostanza, si trattava di recapitare qualche pacchetto di
carne o qualche pollo a domicilio, Marino affidava sempre l’incarico ad
un tuttofare, che si aggirava quasi sempre intorno ai negozi, con la
speranza di mettere insieme qualcosa per il pranzo e la cena. Era un
uomo piuttosto avanti con gli anni, ma ancora robusto e in buona salute,
se si eccettua il fatto che era muto dalla nascita. Per il resto era
intelligente, sveglio e servizievole. Marino si serviva spesso di lui,
soprattutto per clienti che abitavano piuttosto distanti, e in tutti
quei casi in cui non gli sarebbe stato possibile lasciare il bancone
sguarnito per troppo tempo. Così, di giorno in giorno, veniva rinviata,
la mia prima missione fuori dal negozio.
Finalmente l’occasione si presentò, una sera in cui il tuttofare era
impegnato in un’altra consegna per conto del salumiere. Mancava circa
un’ora alla chiusura e Marino non poteva assolutamente lasciarmi da solo
a servire. In quel momento, infatti, il negozio era affollatissimo. I
clienti si erano precipitati tutti all’ultimo minuto del sabato per gli
acquisti per il pranzo domenicale. C’ero solo io a disposizione per la
consegna e Marino non poté fare altro che affidarmi il tanto atteso
incarico. Mi tolsi il camiciotto, che di solito portavo in negozio per i
lavori di pulizia, e indossai il grembiule, segno distintivo della mia
professione, scegliendone uno particolarmente insanguinato, che potesse
fare
più impressione sulla gente per strada. Poi, preso in consegna il
prezioso pacchetto, mi avviai verso la casa del mio cliente. Mi sentivo
quasi investito di un titolo nobiliare, promosso sul campo da umile
vassallo a nobile cavaliere.
Marino mi aveva dato tutte le indicazioni utili per raggiungere al più
presto la casa, dove era atteso il mio arrivo. Mancavano un paio d’ore
al tramonto, ma avrei dovuto farcela in meno di un’ora. Sarei stato di
ritorno in tempo utile per la cena. Marino mi fece ripetere due volte
tutte le indicazioni, per essere certo che avessi capito bene. Mi
avviai, dunque, per la strada che mi era stata indicata, sempre tenendo
bene stretto il prezioso pacco. Il contenuto era stato avvolto, come al
solito, prima in uno spesso strato di carta oleata, poi in due fogli di
carta paglia altrettanto spessi. L’involucro risultava alla fine
assai compatto e resistente e, in più, il suo peso veniva aumentato in
maniera
ragguardevole, secondo una regola fissa non scritta della casa. Le
indicazioni di Marino avrebbero dovuto condurmi verso villa degli Olivi,
che mi era stata descritta come un’abitazione al centro di un piccolo
parco, recintato da un alto muro.
Non avevo nessuna idea di dove si trovasse esattamente quel posto. A
parte il percorso per arrivare fino alla scuola ogni mattina, non avevo
mai fatto un tragitto così lungo tutto da solo. Dentro di me ringraziavo
ancora Marino per avermi offerto quella possibilità.
Intanto, però, avevo fatto un bel pezzo di strada e cominciavo a non
orientarmi più molto bene. Le indicazioni erano state chiare, ma non
sufficienti. Marino mi aveva parlato di un luogo, chiamato santa Marta,
e io stavo cercando di vedere se intorno si scorgesse il campanile di
qualche chiesetta. Ero certo che santa Marta avesse una chiesa tutta per
sé e che mi avrebbe indicato la strada da seguire. Per quanto mi
aggirassi in lungo e in largo, tuttavia, di questa chiesetta e del suo
campanile non si scorgeva nemmeno l’ombra. C’erano invece un mucchio di
palazzine, come un piccolo villaggio, ognuna con il suo giardinetto e il
suo cancello verde brillante, a quell’ora già sbarrato. Nessuno in giro,
probabilmente era l’ora della cena e tutti gli abitanti di quelle
piccole case erano radunati intorno ad una tavola apparecchiata.
Pensai che anche a casa mia, in quel momento, si stavano preparando per
andare a tavola. Pensai che stavo cercando da almeno mezz’ora un punto
di riferimento che non riuscivo a individuare. Pensai che, forse, mi ero
perduto. Per la prima volta, da quando ero nato, provai una
inimmaginabile sensazione di panico e di abbandono. Finora ci avevano
pensato sempre i miei genitori a trovare la strada giusta per me, da
adesso in poi me la sarei dovuta cavare da solo. Ad ottobre sarebbe
cominciata la scuola media e nessuno in casa sarebbe stato più in grado
di accompagnarmi, né tanto meno di seguirmi negli studi. Pensai che la
soluzione migliore fosse quella di suonare il campanello di una di
quelle case.
Difatti, dopo un paio di squilli abbastanza timidi e ansiosi, una donna,
con un grande tovagliolo a quadri rossi intorno al collo, si affacciò
alla finestra, chiedendomi chi cercassi. Sembrava piuttosto irritata di
dover rispondere a qualcuno a quell’ora. Le chiesi se sapesse indicarmi
la villa degli Olivi. “Guarda, è proprio dietro di te, ragazzino”. Mi
girai e, difatti, vidi un muro simile in tutto a quello che mi era stato
descritto da Marino. Quando mi voltai verso di lei per ringraziarla, era
già sparita dentro la casa. Probabilmente avevo interrotto la sua cena
e, adesso, non vedeva l’ora di riprenderla. Anch’io, d’altra parte, non
vedevo l’ora di tornare a casa e iniziare la mia.
Seguii per un buon tratto quel muro, finché non trovai un cancello, già
aperto. Forse ero atteso, forse il cliente era impaziente di ricevere il
suo pacco, forse mi avrebbe accolto in malo modo. Comunque, ormai ero
lì. Mi feci coraggio ed entrai, attraversai il parco, che mi sembrava
molto più grande di quello che mi ero immaginato, e, salita una piccola
scalinata, arrivai alla porta.
Dai vetri, in alto, usciva una luce molto intensa, come se nella casa si
tenesse una festa. Sentivo molte voci provenire dall’interno e
immaginavo che tutta quella gente, radunata lì dentro, stesse aspettando
proprio me. Suonai il campanello. Quasi immediatamente la porta si aprì.
Non ci fu bisogno nemmeno di dire chi ero e perché ero lì a quell’ora.
Il mio grembiule e il pacchetto che tenevo in mano dicevano già tutto.
Venni fatto entrare nell’anticamera da un domestico vestito con
eleganza, come ne avevo visto qualcuno in televisione nei vecchi film.
Mentre consegnavo finalmente il pacco, una voce chiamò il domestico
dalla sala vicina. Questi uscì, tornando quasi immediatamente. “Il
signore vuole parlare con te”, disse con un tono molto professionale.
Questa strana richiesta mi sorprese e mi intimorì al tempo stesso. Cosa
poteva volere da me quel signore? Forse rimproverarmi per il mio
ritardo, forse contestare il peso e il prezzo della carne nel pacchetto.
Ero incerto se scappare via dalla porta rimasta ancora aperta, o se
andare a vedere di cosa si trattasse. Il domestico a questo punto si era
fatto da parte, invitandomi ad entrare e io non potevo certo rifiutarmi
di obbedire.
Entrai nella sala da pranzo, già apparecchiata per una cena con piatti
bellissimi e bicchieri scintillanti, come non ne avevo mai visti, né in
casa mia né di nessuno dei nostri parenti. Intorno al tavolo c’erano sei
persone, di entrambi i sessi e di diverse età.
Tra questi, una ragazzina, che poteva avere all’incirca i miei anni, e
che mi guardava incuriosita. Mi sentivo molto imbarazzato ad essere
osservato in quel modo, specie quando gli occhi le caddero sul mio
grembiule insanguinato. Credevo che avrebbe chiuso gli occhi inorridita
a quella vista. Invece, osservò ancora per un po’ il grembiule, poi mi
guardò e sorrise.
“Entra, ragazzo – diceva intanto un uomo, che doveva essere il
proprietario di quella bella casa. “Intanto, volevo ringraziarti per
avere fatto la consegna anche a quest’ora del sabato. Poi – continuò,
mettendo una mano nella tasca della giacca - vorrei ricompensarti per la
tua cortesia”. E così dicendo, tirò fuori dalla tasca una manciata di
monetine e me le porse. “Ringrazia il signor conte degli Olivi”, disse
il domestico rivolgendosi a me, che stavo già prendendo le monetine
dalla mano di quell’uomo.
Ringraziai con una specie di inchino, come mi era stato insegnato alla
recita scolastica.
Intanto, una cameriera stava entrando con i piatti di portata. Sopra un
grande vassoio riconobbi quella carne che avevo consegnato poco prima,
ancora cruda, appoggiata su un buon mucchio di verdure e condita con
qualcosa che poteva essere olio.
“Ragazzo – disse il conte – vorresti restare a cena con noi? Orlando
provvederà ad avvertire la tua famiglia. Poi, più tardi, penserà a
riaccompagnarti a casa”. “Senz’altro, signor conte”, disse il domestico,
e uscì, probabilmente per andare a telefonare a Marino. Non avrebbe
certo potuto chiamare i miei genitori, visto che in quell’epoca non
avevamo il telefono in casa, come del resto quasi tutte le famiglie
della zona.
“Siediti vicino a Nadia. Dovreste avere circa la stessa età, così
potrete parlare un po’ tra voi. Ma prima, togliti quel grembiule e vai a
lavarti le mani”. Chiamò di nuovo Orlando e lo pregò di accompagnarmi in
bagno. Venni condotto in una stanza, che era grande come almeno la metà
dell’appartamento nel quale abitava la mia famiglia. Presi da sopra il
lavello un sapone profumatissimo e cominciai a lavarmi le mani. Tutto lì
dentro profumava, dal sapone agli asciugamani, persino all’aria che
respiravo. Sentivo un quell’ora.
Tornato nella sala da pranzo, mi sedetti accanto a Nadia. Cercavo di
stare composto e mangiare lentamente, usando le posate nella maniera
giusta, come mi aveva spiegato mia zia, una volta che mi aveva portato a
pranzo al ristorante. Aveva ritenuto opportuno impartirmi una lezione di
buone maniere, che, diceva lei, sono sempre utili nella vita.
Difatti, quella lezione, adesso, mi tornava utilissima. Intanto mangiavo
in silenzio quella carne cruda, condita con olio e qualche altro sapore,
tra cui riconobbi il succo di limone.
Non avevo mai mangiato carne cruda in vita mia. Nella mia famiglia, la
carne, quella poca che veniva messa in tavola, non più di un paio di
volte la settimana, veniva servita sempre ben cotta. A un certo punto
Nadia appoggiò le posate sul piatto e si voltò verso di me. Non aveva
ancora assaggiato niente. “Quanti anni hai?”, mi chiese. Io glielo dissi
e lei rispose: ”Allora abbiamo la stessa età”. Poi mi chiese ancora:
”Andrai ancora a scuola, il prossimo anno?”. “Sì, farò la prima media”,
risposi. E feci anche il nome della
scuola. “Allora ci incontreremo spesso” - replicò lei – “anch’io sono
iscritta lì”. Poi disse: “Ho un po’ paura. E tu?”. “Un po’ anch’io, sì”,
risposi. Allungai una mano sotto il tavolo, lei me la prese nella sua e
la strinse. Poi sorrise di nuovo e riprese a mangiare, questa volta con
più appetito.
Finita la cena, Orlando apparve puntuale per riaccompagnarmi. Ringraziai
il conte e salutai Nadia con un cenno della mano. Appena entrato in
casa, avevo voglia di raccontare la mia avventura, ma la mamma disse:
”Hai lavorato tutto il giorno, è ora di andare a letto. Mi dirai tutto
domani”. Mi addormentai subito, le fatiche e le emozioni della giornata
mi avevano proprio stremato.
La mattina dopo, quando mi risvegliai c’era un bel sole, ancora caldo,
ma non più bollente come quello dei giorni prima. Quella mattina, a
parte la messa della domenica, non avevo altri impegni. Cominciai a
gironzolare in cucina e mi misi a guardare la mamma che preparava il
pranzo. Era occupata a fare il battuto di lardo per il soffritto, come
tutte le massaie del palazzo, a quell’ora. Si sentiva, infatti,
provenire dalle finestre aperte delle case vicine, lo stesso rumore di
metallo e legno che sentivo anche nella mia cucina.
Sul tavolo c’era un pacchetto fatto con la carta del macellaio. Lo aprii
e vidi che conteneva alcune fette sottilissime di carne. Sembravano
identiche a quelle che avevo consegnato la sera prima a casa di Nadia.
Ne presi un pezzetto e cominciai a condirlo con sale, olio e limone. Poi
lo misi in bocca e cominciai a masticare. “Cosa fai? – disse la mamma
ridendo – almeno aspetta che sia cotta”. “Mamma, è così che fanno i
signori”. “Beato te, che hai sempre voglia di giocare”. Poi aggiunse:
“Loro possono mangiarla cruda perché è senz’altro più tenera della
nostra. E poi sono signori…”.
“Anch’io da grande mangerò sempre carne cruda”, riposi convinto. La
mamma sorrise e mi accarezzò i capelli.
Guardai il calendario appeso alla parete. Mancavano ormai pochi giorni
alla fine di quella estate. Tra poco sarei tornato a scuola, ma non mi
sentivo più preoccupato per quello che mi aspettava. Sapevo che lì non
sarei stato solo, avrei potuto contare almeno su un’amica.
|
|