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Consegna a domicilio
di Sergio Tardetti

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Avrò avuto forse non più di undici anni. Dopo aver terminato le scuole elementari, avevo scelto di non andare a lavorare, come faceva allora la maggior parte dei miei coetanei.
Mi era sempre piaciuto studiare, ero curioso e pieno di buona volontà, in poche parole l’allievo modello che ogni insegnante avrebbe voluto avere nella sua classe.
Quell’estate, comunque, un po’ per la mia naturale curiosità, un po’ perché le casse della famiglia languivano, cosa che, del resto, accadeva di frequente, volli provare anch’io cosa volesse dire lavorare sul serio.
Il macellaio, dove ogni tanto si andava a comprare qualche rara fetta di carne, aveva urgente bisogno di un aiuto. Mio padre che, di solito, gli dava una mano, quando lavorava poco o se aveva tempo, aveva da qualche mese un lavoro stabile, che, però, lo costringeva a tremende levatacce alle quattro del mattino. Per questo dedicava buona parte del pomeriggio a recuperare il sonno perduto e la sua disponibilità di tempo si era ridotta troppo per le esigenze del nostro macellaio.
Fu così che dissi a tutti: “E se provassi io?” Nessuno all’inizio rispose né sì né no, si limitarono a guardarmi a lungo, come se volessero valutare se i miei trentacinque chili scarsi, di poca carne e molte ossa, sarebbero stati in grado di reggere la fatica. Io, intanto, mi andavo sempre più convincendo di trascorrere l’estate dietro il bancone di un negozio. Inoltre, mi attirava l’idea di un compenso settimanale fisso, per avere almeno qualche lira da spendere per me. Infine, l’estate si preannunciava piuttosto lunga e particolarmente vuota, visto che quasi tutti i miei amici, chi al mare, chi in montagna, erano partiti per le vacanze.
Fu così che ebbe inizio il mio tirocinio di garzone di macellaio. Marino, il mio capo, iniziò quasi subito ad introdurmi ai mille segreti della professione. A quel tempo era solo un dipendente. Il negozio e la licenza appartenevano, in realtà, ad un noto albergatore della zona, al quale Marino versava una parte degli incassi giornalieri. Era un macellaio nato, un vero genio nel suo mestiere. Partito dal niente, era destinato a fare una brillante carriera e a ritirarsi dall'attività dopo essere diventato proprietario di ben tre macellerie in città e di una elegante villa in un quartiere residenziale.
Il primo trucco che imparai subito fu quello della pesata al volo. Si trattava di far cadere dall’alto, sul piatto della bilancia, l’involto con la carne del cliente e poi si doveva essere svelti a ritirarla indietro, dopo avere annunciato, ad alta voce, il peso indicato dalla lancetta. Si guadagnavano quasi sempre quei cinquanta grammi, a volte anche cento, si vendeva, in sostanza, aria al posto di carne, e anche a buon prezzo. Poi venne il trucco del vitello “taroccato”. Consisteva nell’acquistare qualche vecchio bue, che non era più in grado di trascinare l’aratro, farlo macellare e poi tenerlo nella cella frigorifera per alcuni giorni a frollare, per ammorbidirne le carni e farlo passare per vitello. Poi, altri
trucchi ancora, che avrebbero fatto la fortuna di Marino e di tutta la sua numerosa famiglia. Più imparavo a conoscere il mio capo, più mi rendevo conto che la fantasia umana non ha veramente confini.
Quanto a me, ero trattato con tutti i riguardi. Innanzi tutto, avevo diritto tutte le mattine ad una vera colazione, che andavo a consumare nella salumeria accanto. Questa merenda, a volte più abbondante dei pasti che si servivano in casa, aiutava a mantenermi in forze, soprattutto per le attività più pesanti, tra le quali rientrava, di tanto in tanto, la consegna a domicilio delle carni ordinate dal cliente. Erano sempre clienti piuttosto benestanti, che facevano i loro ordini per telefono. Questo fatto li poneva diversi gradini al di sopra dei clienti ordinari, che venivano ogni tanto ad acquistare carni di seconda o terza scelta e che avrebbero dovuto aspettare molti anni prima di avere anche loro un telefono in casa. Memori delle loro trascorse disagiate condizioni,
avrebbero poi continuato ad usare il telefono, ancora per molti anni a venire,
esclusivamente per ricevere. Se proprio si doveva alzare la cornetta per chiamare qualcuno, doveva trattarsi del medico o di casi di assoluta emergenza. I veri benestanti, invece, non lesinavano sul costo delle chiamate: chiamavano spesso, a diverse ore della giornata, per ordinare qualche bel pezzo di carne tenera e saporita, per il pranzo o per la cena.
La macelleria, come la maggior parte degli esercizi pubblici di allora, non era dotata di un telefono proprio. Si trattava di andare a rispondere alla salumeria accanto, che funzionava anche da posto telefonico pubblico per l’intero quartiere. Ogni volta che sentivo lo squillo del telefono, stavo attento ad ascoltare se qualcuno dei commessi della salumeria avesse chiamato a gran voce il mio principale.
“Marino, al telefono! Clienti!”
Queste erano le parole magiche, che mi facevano scattare come una molla, per avere il raro privilegio di poter rispondere ad un vero apparecchio telefonico, non certo ad uno di quei giocattoli che noi ragazzini ci costruivamo con uno spago e due vaschette per il gelato. Il capo non se la prendeva, non si sentiva usurpato di un suo privilegio, capiva benissimo che per me era come un gioco e del resto, ad appena ventuno anni, anche lui aveva abbandonato da poco tempo l’età dei giochi, per entrare bruscamente in quella delle responsabilità.
La domenica era il giorno che attendevo con più ansia, non solo perché quella mattina avrei potuto risparmiare la levataccia, alla quale il mio nuovo lavoro mi costringeva durante la settimana. C’era un motivo in più che rendeva così attesa la domenica.
Marino, come ho detto, all’epoca dei fatti era un giovanotto appena maggiorenne, che aveva commesso l’errore, a detta almeno delle ragazze che frequentavano il negozio, di fidanzarsi con una donna di dieci anni più grande di lui. Era veramente una brava persona, lavorava in casa come sarta e, per di più era decisamente un’ottima cuoca. Io la trovavo simpatica, anche se un po’ vecchia per Marino, che, però non sembrava dare molta importanza alla differenza di età.
Adele, così si chiamava, era rimasta vedova tre anni prima di conoscere Marino. Il marito, un giovane carabiniere, era caduto durante una sparatoria con un paio di balordi, che avevano rapinato un orefice poco prima di imbattersi nell’auto della pattuglia di servizio. Erano stati sposati, lui e Adele, non più di tre mesi e, nel frattempo, non avevano avuto nessun figlio. Aveva conosciuto Marino una sera a cena in casa di amici. Veramente Marino non era un invitato, era solo il commesso di un macellaio, presso il quale aveva iniziato ad imparare il mestiere. Era andato in quella casa per una consegna a domicilio, e in quella occasione aveva potuto dare più di un’occhiata ad Adele e l’aveva trovata piuttosto attraente. Qualche giorno dopo, Adele era capitata, quasi per caso, nel negozio di Marino e lui le aveva rivolto alcune battute scherzose, che l’avevano fatta sorridere. Era tanto tempo che non sorrideva. Adele si sentiva agitare dentro ogni volta che incrociava lo sguardo di quel giovanotto dall’aria spavalda, nero di occhi e di capelli. Quando decise di tornare al negozio, anche se non doveva comprare niente, capì che Marino sarebbe stato il compagno della sua vita.
Così era iniziata quella storia, che andava avanti ormai da tre anni senza problemi, se si esclude il fatto che Adele, di tanto in tanto, lasciava cadere il discorso sull’eventualità di fissare una data per il matrimonio. Marino fingeva sempre di non aver capito, la stringeva forte tra le braccia e la sollevava ridendo. Lui preferiva chiamarla Dina, invece che con il nome di battesimo, e lei aveva acconsentito volentieri a farsi chiamare così, considerandolo un segno d’affetto nei suoi confronti.
La domenica, quando Marino mi portava con sé a pranzo da Adele, mi faceva salire dietro la sua lambretta nuova fiammante, che aveva comprato firmando un mucchio di
cambiali. Non facevamo in tempo a fermarci sotto il portone che Marino gridava: “Dina, fietta!”, che nel nostro dialetto significa: “Dina, affetta!”. Intendeva il prosciutto. Era uno scherzo abituale tra loro, che aveva la sua origine in una storia, raccontata a Marino da un suo amico d’infanzia.
Lei capiva il messaggio e correva subito in cantina, dove teneva sempre una buona scorta di generi alimentari. Da lì risaliva con un prosciutto ben stagionato e si metteva subito all’opera. La prima fetta era sempre per me, insieme ad un pezzo di quel buon pane che Adele si preparava da sola in casa. Il pranzo, poi, era memorabile. In un solo pasto facevo il pieno di proteine per tutta la settimana. La carne, naturalmente, era un gentile omaggio della “Premiata ditta Marino e c.”. Era sempre carne sceltissima, bocconi prelibati che Marino riservava per sé e per la sua Dina, nascondendoli alle voraci attenzioni dei clienti e, soprattutto, del proprietario del negozio. E, naturalmente, ce n’era una parte riservata anche per me.
L’estate trascorreva così, serenamente, e non si avvertiva nemmeno l’eccessivo caldo che al giorno d’oggi sembra accompagnare, come una condanna implacabile, le notti di luglio e agosto. Il mio peso era aumentato un po’ e tutto quel gran movimento, che il lavoro comportava, mi aveva anche fatto irrobustire e crescere di un paio di centimetri.
Marino, più che un datore di lavoro, era come un fratello maggiore, per me che ero il più grande tra tutti i miei fratelli e sorelle e ne avevo sempre dovuto portare il peso.
Ogni tanto, per non costringermi a stare sempre in negozio, mi dava qualche incarico di responsabilità. Io mi sentivo sempre particolarmente investito della parte, soprattutto quando mi permetteva di uscire col mio camiciotto da lavoro tutto coperto di sangue.
Anche gli altri ragazzi di bottega come me preferivano girare con il grembiule o il camice da lavoro, quando dovevano andare per strada. Nessuno si vergognava dei suoi abiti dimessi. Al contrario, ognuno era fiero di mostrare alla gente che lui già lavorava ed aiutava a mantenere la famiglia. Finito il primo periodo di apprendistato, Marino cominciava ad assegnarmi compiti più importanti, che non fossero solo quelli di tenere pulito e in ordine il negozio e splendente la vetrina.
A proposito della vetrina, Marino teneva in maniera particolare che fosse sempre pulita, senza macchie di sangue o di grasso, cosa piuttosto difficile in una macelleria. Mi faceva passare diverse volte alla settimana sui vetri con acqua e carta di giornale perché, diceva lui: “come il giornale e l’olio di gomito non c’è niente che pulisce”.
All’inizio mi chiedevo perché non mi fornisse un po’ di quell’olio di gomito tanto
decantato, che prometteva miracoli, anziché farmi usare carta di giornali e acqua di rubinetto, e sudare come una fontana per mantenere bella lustra la vetrina. Mi ci vollero almeno tre settimane per capire che quell’olio di gomito, così importante per una buona pulizia, non si vendeva in nessun negozio.
La vetrina, soprattutto nei fine settimana, diventava una specie di camera ardente in miniatura, dove polli, piccioni, conigli e altri animali, rigorosamente commestibili e rigorosamente morti, facevano bella mostra di sé, per invogliare i clienti all’acquisto. La vetrina era anche il punto più luminoso del locale, illuminato naturalmente dai raggi del sole del tramonto o dalla luce soffusa del mattino, per poter dare a tutti quei potenziali arrosti della domenica un aspetto fresco e sano.
Esporre la merce in vetrina comportava anche qualche rischio. Polli, galline, piccioni, conigli, infatti, dovevano recare tutti, bene in vista, il bollo rosa del dazio, che voleva dire che quelli erano animali per i quali era stata pagata una regolare tassa e potevano dunque ambire ad essere posti in vendita al pubblico. Marino era il gran maestro di cerimonie e disponeva di molta inventiva e fantasia. Intanto, per il fatidico bollo aveva trovato una soluzione salomonica: solo metà della merce venduta veniva regolarmente bollata. L’altra metà poteva al massimo aspirare ad una copia sbiadita, ottenuta artigianalmente, bagnando il bollo vero con un po’ d’acqua e accostandovi l’animale non ancora bollato. Marino eccelleva, inoltre nell’arte di ricomporre quei futuri arrosti, facendo assumere loro pose di una tale naturalezza da sembrare freschissimi, e tutti prodotti di fattoria, “ruspanti”, come era solito ripetere alle incantate clienti, che si lasciavano affascinare dalla sua parlantina sciolta. Era veramente sublime quando si dedicava al difficile compito di rendere presentabili sul piatto di portata quei gloriosi caduti.
Io, intanto, facevo tesoro dei suoi infiniti trucchi e della sua fervida fantasia e mi preparavo ad un futuro da operatore alimentare, in un’epoca non lontana, in cui ogni macelleria sarebbe stata nobilitata, assurgendo al rango di “boutique” della lombata. I miei studi, come in ogni buona scuola professionale che si rispetti, si completavano con lezioni pratiche su come incidere i vari tagli di carne, per renderli meno difficili da masticare, e su come preparare i vari ingredienti per la produzione della salsiccia.
Il mio maestro era solito ripetere spesso alcuni dei dettami della sua arte, perché potessi assimilarli meglio. “Ricordati – diceva – che le salsicce si possono fare anche col maiale”. A dire il vero, di queste salsicce di maiale se ne facevano pochissime.
Alcune erano per il consumo di famiglia, quella di Marino, della sua fidanzata nonché promessa sposa Adele e, in piccola parte, anche della mia.
C’erano poi delle eccezioni. Veniva spesso al negozio un distinto signore, al quale Marino si rivolgeva sempre in tono molto deferente, con ossequi a destra e a manca.
Aveva sempre la faccia burbera e accigliata, parlava poco, con un forte accento forestiero. Si limitava poco più che a salutare: ritirava da sopra il bancone il grosso pacco che Marino aveva preparato nel frattempo, con i pezzi più scelti e più teneri di manzo e vitello e con un buon numero di salsicce, quelle vere naturalmente. “Se vuoi vivere tranquillo nel mare, devi imparare subito a nuotare.” Era uno dei detti più frequenti di Marino, che era solito ripeterlo più volte, non appena il distinto signore si era chiuso la porta del negozio dietro le spalle. Poco più che maggiorenne, Marino era già un antico saggio, che aveva fatto tesoro di tutte le esperienze della vita, vissute fino a quel momento nei diversi ambienti di lavoro, al servizio di diversi padroni. E, adesso, cercava di far rendere questo tesoro con tanto di interessi. Io gli ero veramente grato per quel suo modo di farmi accostare alla vita, con serenità ma anche con spirito pratico. Solo adesso, a distanza di molti anni da quell’estate, capisco come in quei giorni cresceva non solo la mia statura ma anche la mia anima.
E, finalmente, venne il giorno della grande prova. Adesso che possedevo tutti i rudimenti dell’arte norcina, potevo anche dedicarmi a compiti più complessi e di maggiore responsabilità. Quello che più difficilmente Marino affidava ad estranei, soprattutto se alle prime armi come me, era il rapporto diretto con i clienti, quello nel quale non esisteva bancone né piedistallo che innalzasse la funzione del macellaio a celebrante di un sacrificio rituale, ad uso e consumo, non più di antiche divinità pagane, ma della gente comune.
Quando, in sostanza, si trattava di recapitare qualche pacchetto di carne o qualche pollo a domicilio, Marino affidava sempre l’incarico ad un tuttofare, che si aggirava quasi sempre intorno ai negozi, con la speranza di mettere insieme qualcosa per il pranzo e la cena. Era un uomo piuttosto avanti con gli anni, ma ancora robusto e in buona salute, se si eccettua il fatto che era muto dalla nascita. Per il resto era intelligente, sveglio e servizievole. Marino si serviva spesso di lui, soprattutto per clienti che abitavano piuttosto distanti, e in tutti quei casi in cui non gli sarebbe stato possibile lasciare il bancone sguarnito per troppo tempo. Così, di giorno in giorno, veniva rinviata, la mia prima missione fuori dal negozio.
Finalmente l’occasione si presentò, una sera in cui il tuttofare era impegnato in un’altra consegna per conto del salumiere. Mancava circa un’ora alla chiusura e Marino non poteva assolutamente lasciarmi da solo a servire. In quel momento, infatti, il negozio era affollatissimo. I clienti si erano precipitati tutti all’ultimo minuto del sabato per gli acquisti per il pranzo domenicale. C’ero solo io a disposizione per la consegna e Marino non poté fare altro che affidarmi il tanto atteso incarico. Mi tolsi il camiciotto, che di solito portavo in negozio per i lavori di pulizia, e indossai il grembiule, segno distintivo della mia professione, scegliendone uno particolarmente insanguinato, che potesse fare
più impressione sulla gente per strada. Poi, preso in consegna il prezioso pacchetto, mi avviai verso la casa del mio cliente. Mi sentivo quasi investito di un titolo nobiliare, promosso sul campo da umile vassallo a nobile cavaliere.
Marino mi aveva dato tutte le indicazioni utili per raggiungere al più presto la casa, dove era atteso il mio arrivo. Mancavano un paio d’ore al tramonto, ma avrei dovuto farcela in meno di un’ora. Sarei stato di ritorno in tempo utile per la cena. Marino mi fece ripetere due volte tutte le indicazioni, per essere certo che avessi capito bene. Mi avviai, dunque, per la strada che mi era stata indicata, sempre tenendo bene stretto il prezioso pacco. Il contenuto era stato avvolto, come al solito, prima in uno spesso strato di carta oleata, poi in due fogli di carta paglia altrettanto spessi. L’involucro risultava alla fine
assai compatto e resistente e, in più, il suo peso veniva aumentato in maniera
ragguardevole, secondo una regola fissa non scritta della casa. Le indicazioni di Marino avrebbero dovuto condurmi verso villa degli Olivi, che mi era stata descritta come un’abitazione al centro di un piccolo parco, recintato da un alto muro.
Non avevo nessuna idea di dove si trovasse esattamente quel posto. A parte il percorso per arrivare fino alla scuola ogni mattina, non avevo mai fatto un tragitto così lungo tutto da solo. Dentro di me ringraziavo ancora Marino per avermi offerto quella possibilità.
Intanto, però, avevo fatto un bel pezzo di strada e cominciavo a non orientarmi più molto bene. Le indicazioni erano state chiare, ma non sufficienti. Marino mi aveva parlato di un luogo, chiamato santa Marta, e io stavo cercando di vedere se intorno si scorgesse il campanile di qualche chiesetta. Ero certo che santa Marta avesse una chiesa tutta per sé e che mi avrebbe indicato la strada da seguire. Per quanto mi aggirassi in lungo e in largo, tuttavia, di questa chiesetta e del suo campanile non si scorgeva nemmeno l’ombra. C’erano invece un mucchio di palazzine, come un piccolo villaggio, ognuna con il suo giardinetto e il suo cancello verde brillante, a quell’ora già sbarrato. Nessuno in giro, probabilmente era l’ora della cena e tutti gli abitanti di quelle piccole case erano radunati intorno ad una tavola apparecchiata.
Pensai che anche a casa mia, in quel momento, si stavano preparando per andare a tavola. Pensai che stavo cercando da almeno mezz’ora un punto di riferimento che non riuscivo a individuare. Pensai che, forse, mi ero perduto. Per la prima volta, da quando ero nato, provai una inimmaginabile sensazione di panico e di abbandono. Finora ci avevano pensato sempre i miei genitori a trovare la strada giusta per me, da adesso in poi me la sarei dovuta cavare da solo. Ad ottobre sarebbe cominciata la scuola media e nessuno in casa sarebbe stato più in grado di accompagnarmi, né tanto meno di seguirmi negli studi. Pensai che la soluzione migliore fosse quella di suonare il campanello di una di quelle case.
Difatti, dopo un paio di squilli abbastanza timidi e ansiosi, una donna, con un grande tovagliolo a quadri rossi intorno al collo, si affacciò alla finestra, chiedendomi chi cercassi. Sembrava piuttosto irritata di dover rispondere a qualcuno a quell’ora. Le chiesi se sapesse indicarmi la villa degli Olivi. “Guarda, è proprio dietro di te, ragazzino”. Mi girai e, difatti, vidi un muro simile in tutto a quello che mi era stato descritto da Marino. Quando mi voltai verso di lei per ringraziarla, era già sparita dentro la casa. Probabilmente avevo interrotto la sua cena e, adesso, non vedeva l’ora di riprenderla. Anch’io, d’altra parte, non vedevo l’ora di tornare a casa e iniziare la mia.
Seguii per un buon tratto quel muro, finché non trovai un cancello, già aperto. Forse ero atteso, forse il cliente era impaziente di ricevere il suo pacco, forse mi avrebbe accolto in malo modo. Comunque, ormai ero lì. Mi feci coraggio ed entrai, attraversai il parco, che mi sembrava molto più grande di quello che mi ero immaginato, e, salita una piccola scalinata, arrivai alla porta.
Dai vetri, in alto, usciva una luce molto intensa, come se nella casa si tenesse una festa. Sentivo molte voci provenire dall’interno e immaginavo che tutta quella gente, radunata lì dentro, stesse aspettando proprio me. Suonai il campanello. Quasi immediatamente la porta si aprì. Non ci fu bisogno nemmeno di dire chi ero e perché ero lì a quell’ora. Il mio grembiule e il pacchetto che tenevo in mano dicevano già tutto.
Venni fatto entrare nell’anticamera da un domestico vestito con eleganza, come ne avevo visto qualcuno in televisione nei vecchi film. Mentre consegnavo finalmente il pacco, una voce chiamò il domestico dalla sala vicina. Questi uscì, tornando quasi immediatamente. “Il signore vuole parlare con te”, disse con un tono molto professionale. Questa strana richiesta mi sorprese e mi intimorì al tempo stesso. Cosa poteva volere da me quel signore? Forse rimproverarmi per il mio ritardo, forse contestare il peso e il prezzo della carne nel pacchetto. Ero incerto se scappare via dalla porta rimasta ancora aperta, o se andare a vedere di cosa si trattasse. Il domestico a questo punto si era fatto da parte, invitandomi ad entrare e io non potevo certo rifiutarmi di obbedire.
Entrai nella sala da pranzo, già apparecchiata per una cena con piatti bellissimi e bicchieri scintillanti, come non ne avevo mai visti, né in casa mia né di nessuno dei nostri parenti. Intorno al tavolo c’erano sei persone, di entrambi i sessi e di diverse età.
Tra questi, una ragazzina, che poteva avere all’incirca i miei anni, e che mi guardava incuriosita. Mi sentivo molto imbarazzato ad essere osservato in quel modo, specie quando gli occhi le caddero sul mio grembiule insanguinato. Credevo che avrebbe chiuso gli occhi inorridita a quella vista. Invece, osservò ancora per un po’ il grembiule, poi mi guardò e sorrise.
“Entra, ragazzo – diceva intanto un uomo, che doveva essere il proprietario di quella bella casa. “Intanto, volevo ringraziarti per avere fatto la consegna anche a quest’ora del sabato. Poi – continuò, mettendo una mano nella tasca della giacca - vorrei ricompensarti per la tua cortesia”. E così dicendo, tirò fuori dalla tasca una manciata di monetine e me le porse. “Ringrazia il signor conte degli Olivi”, disse il domestico rivolgendosi a me, che stavo già prendendo le monetine dalla mano di quell’uomo.
Ringraziai con una specie di inchino, come mi era stato insegnato alla recita scolastica.
Intanto, una cameriera stava entrando con i piatti di portata. Sopra un grande vassoio riconobbi quella carne che avevo consegnato poco prima, ancora cruda, appoggiata su un buon mucchio di verdure e condita con qualcosa che poteva essere olio.
“Ragazzo – disse il conte – vorresti restare a cena con noi? Orlando provvederà ad avvertire la tua famiglia. Poi, più tardi, penserà a riaccompagnarti a casa”. “Senz’altro, signor conte”, disse il domestico, e uscì, probabilmente per andare a telefonare a Marino. Non avrebbe certo potuto chiamare i miei genitori, visto che in quell’epoca non avevamo il telefono in casa, come del resto quasi tutte le famiglie della zona.
“Siediti vicino a Nadia. Dovreste avere circa la stessa età, così potrete parlare un po’ tra voi. Ma prima, togliti quel grembiule e vai a lavarti le mani”. Chiamò di nuovo Orlando e lo pregò di accompagnarmi in bagno. Venni condotto in una stanza, che era grande come almeno la metà dell’appartamento nel quale abitava la mia famiglia. Presi da sopra il lavello un sapone profumatissimo e cominciai a lavarmi le mani. Tutto lì dentro profumava, dal sapone agli asciugamani, persino all’aria che respiravo. Sentivo un quell’ora.
Tornato nella sala da pranzo, mi sedetti accanto a Nadia. Cercavo di stare composto e mangiare lentamente, usando le posate nella maniera giusta, come mi aveva spiegato mia zia, una volta che mi aveva portato a pranzo al ristorante. Aveva ritenuto opportuno impartirmi una lezione di buone maniere, che, diceva lei, sono sempre utili nella vita.
Difatti, quella lezione, adesso, mi tornava utilissima. Intanto mangiavo in silenzio quella carne cruda, condita con olio e qualche altro sapore, tra cui riconobbi il succo di limone.
Non avevo mai mangiato carne cruda in vita mia. Nella mia famiglia, la carne, quella poca che veniva messa in tavola, non più di un paio di volte la settimana, veniva servita sempre ben cotta. A un certo punto Nadia appoggiò le posate sul piatto e si voltò verso di me. Non aveva ancora assaggiato niente. “Quanti anni hai?”, mi chiese. Io glielo dissi e lei rispose: ”Allora abbiamo la stessa età”. Poi mi chiese ancora: ”Andrai ancora a scuola, il prossimo anno?”. “Sì, farò la prima media”, risposi. E feci anche il nome della
scuola. “Allora ci incontreremo spesso” - replicò lei – “anch’io sono iscritta lì”. Poi disse: “Ho un po’ paura. E tu?”. “Un po’ anch’io, sì”, risposi. Allungai una mano sotto il tavolo, lei me la prese nella sua e la strinse. Poi sorrise di nuovo e riprese a mangiare, questa volta con più appetito.
Finita la cena, Orlando apparve puntuale per riaccompagnarmi. Ringraziai il conte e salutai Nadia con un cenno della mano. Appena entrato in casa, avevo voglia di raccontare la mia avventura, ma la mamma disse: ”Hai lavorato tutto il giorno, è ora di andare a letto. Mi dirai tutto domani”. Mi addormentai subito, le fatiche e le emozioni della giornata mi avevano proprio stremato.
La mattina dopo, quando mi risvegliai c’era un bel sole, ancora caldo, ma non più bollente come quello dei giorni prima. Quella mattina, a parte la messa della domenica, non avevo altri impegni. Cominciai a gironzolare in cucina e mi misi a guardare la mamma che preparava il pranzo. Era occupata a fare il battuto di lardo per il soffritto, come tutte le massaie del palazzo, a quell’ora. Si sentiva, infatti, provenire dalle finestre aperte delle case vicine, lo stesso rumore di metallo e legno che sentivo anche nella mia cucina.
Sul tavolo c’era un pacchetto fatto con la carta del macellaio. Lo aprii e vidi che conteneva alcune fette sottilissime di carne. Sembravano identiche a quelle che avevo consegnato la sera prima a casa di Nadia. Ne presi un pezzetto e cominciai a condirlo con sale, olio e limone. Poi lo misi in bocca e cominciai a masticare. “Cosa fai? – disse la mamma ridendo – almeno aspetta che sia cotta”. “Mamma, è così che fanno i signori”. “Beato te, che hai sempre voglia di giocare”. Poi aggiunse: “Loro possono mangiarla cruda perché è senz’altro più tenera della nostra. E poi sono signori…”.
“Anch’io da grande mangerò sempre carne cruda”, riposi convinto. La mamma sorrise e mi accarezzò i capelli.
Guardai il calendario appeso alla parete. Mancavano ormai pochi giorni alla fine di quella estate. Tra poco sarei tornato a scuola, ma non mi sentivo più preoccupato per quello che mi aspettava. Sapevo che lì non sarei stato solo, avrei potuto contare almeno su un’amica.

 

 
 

 

 
 

agli incroci dei venti, 5 luglio 2007

 

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