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La societa'
(digitale) delle arti
di
Simone Morgagni
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Autorevole:
qualcuno che goda di grande autorità e prestigio.
Avanguardia:
nell’esercito e nella marina, unità militare posta in posizione avanzata
a scopo di protezione o di difesa, ma anche gruppo o movimento artistico
che sperimenta nuove forme espressive in contrasto con la tradizione e
il gusto corrente.
Vorrei cominciare questo mio intervento sulle modificazioni sociali
apportate dai nuovi modelli di sviluppo mediatico, considerando questi
due concetti, che un po’ di tempo fa hanno suscitato dibattito in rete
(vedi l’ultimo numero di
« Per un Critica Futura » e la discussione su
« Blog e poesia »).
Fondamentali sono, a mio avviso, le premesse semantiche costitutive dei
due termini: la necessità, per il primo, di un criterio e di qualcuno
capace di essere riconosciuto come autorevole dal proprio pubblico, e la
necessità, per il secondo, di una direzione riconosciuta socialmente.
Nel caso non si avesse un criterio in base al quale stabilire
l’autorevolezza di un’opera o di un artista, o nel caso non esistessero
organismi socialmente riconosciuti che si occupino di stabilirla, essa
non potrebbe essere. Se la società non avesse una direzione
riconoscibile l’avanguardia non potrebbe esistere, non sapendo davanti a
cosa, davanti a chi porsi. Storicamente quindi questi due termini si
sono sviluppati parallelamente al mondo accademico, costituendo un
legame conflittuale, ma che pareva inscindibile, tra artista e studioso.
Nell’ottica tradizionale troviamo dunque legati l’accademico che si
occupa della riproduzione sociale del capitale culturale, per dirla con
Bourdieu,
e l’artista che riesce a comprendere la direzione della società prima
della massa dei contemporanei. L’artista, utilizzando la propria arte,
rende noto un cambiamento e mette in moto un circolo virtuoso in cui il
semplice fatto di descrivere la società e la direzione da questa presa,
aiuterà a concretizzare i mutamenti stessi che, a loro volta, saranno
premessa per le forme artistiche a venire. L’accademia, in quanto luogo
di formazione e di riproduzione del sapere, in quanto depositaria del
patrimonio culturale contemporaneo, riveste il ruolo di auctoritas in
grado di stabilire quanto il lavoro dell’artista sia conforme e quanto
invece no rispetto ai canoni sociali. L’artista non deve essere
oltremodo innovativo (pena il non essere socialmente riconosciuto), ma
neppure eccessivamente ligio ai canoni presenti (altrimenti i due ruoli
sociali, quello accademico e quello di ricerca verrebbero a
sovrapporsi). Secondo questo pensiero esiste dunque un circolo
interpretativo tra artista e società, tra arte e cultura di massa
mediato grazie alla struttura scolastica. Esso ha funzionato per
lunghissimo tempo, ma siamo ancora capaci, oggigiorno, di dargli un
senso? E in caso la risposta fosse positiva, come rappresentarlo?
La società moderna è estremamente più complessa rispetto a quelle del
passato. Non saprei se il termine postmoderno sia già dotato di valore
euristico o se ancora dovremmo parlare di modernità avanzata, come
propone, ad esempio,
Anthony Giddens.
Tuttavia è cosa ormai certa che stiamo assistendo ad un decadimento
delle élite culturali accademiche poiché la stessa scienza (escludendo
forse la tecnica) non è più in grado di fornire modelli che paiano
completi e affidabili come in passato per gestire la conoscenza. Il
decadimento, tuttavia, dell’attuale metodo di classificazione e gestione
del sapere non deve indurci a proclamare la “fine ultima della storia”,
l’indicibile perdita di ogni significato. Questo perché il decadimento è
proprio di un determinato meccanismo classificatorio, non
dell’indefinito numero di tutti quelli potenzialmente elaborabili.
Partiamo dunque dall’assunto del caos quasi incontrollato come prima
descrizione che potremmo avere della nostra situazione attuale nel mondo
dell’arte e della cultura. La società moderna non avrebbe più una
direzione, non una sola almeno, e sarebbe meglio rappresentabile come un
rizoma, per usare i termini di
Deleuze e Guattari,
o come un ipertesto talmente esteso in cui, anche nel migliore dei casi,
l’aspirazione di un ordine non possa ambire che alla nostra limitata
cerchia di contatti, di studi, di conoscenze. Non possa in conclusione
che essere un ordine personale, soggettivo. Una visione collettiva
sarebbe di conseguenza impossibile. Al massimo si potrebbe cercare di
far convergere una somma di movimenti individuali da considerarsi
altrimenti come rigorosamente casuali.
Ampliando il ragionamento alla società intera non credo sia difficile
sostenere come oggi lo sviluppo sociale non sia guidato da nessun attore
consapevole. La precarietà, la commercializzazione intima di ogni
momento delle nostre vite, i movimenti politici, le crisi e le guerre
persino, non sembrano essere totalmente controllabili da nessun soggetto
particolare. Ieri il ruolo dell’intellettuale era quello di fungere da
guida agli altri e per assurgere a questo ruolo egli doveva, in
precedenza, essere riconosciuto dagli organismi sociali dediti alla
riproduzione culturale. Oggi sia questa consapevolezza che gran parte
della forza detenuta dalla struttura accademica sono andate perdute. E
viene lecito domandarsi quale ruolo possano gli intellettuali assumere
per poter nuovamente determinare un qualche senso al proprio agire. E a
chi devono essi rinvolgersi per essere investiti di questo stesso ruolo?
Riprendendo un pezzo di
Andrea Inglese
apparso su
NI e che ben descrive la crisi del ruolo intellettuale possiamo
ritrovare i due momenti di questa crisi:
“Nella storia di questa ‘perdita di potere’ (che è qualcosa di diverso
della semplice perdita dell’aureola di cui parlava Baudelaire), le
avanguardie, e la stessa nostra più recente neovanguardia, sono state
degli episodi cruciali. Prendiamo quest’ultima. In essa, si avvertono
due momenti: uno è quello di lucido disincanto nei confronti delle
prerogative legate al ruolo di intellettuale-letterato. (‘Il «mestiere»
del poeta adesso è quello di negare – mediante il proprio lavoro –
quella situazione di privilegio che i poeti di ieri, facendo testamento,
hanno lasciato in eredità ai poeti di oggi.’ In Poesia apoesia e
poesia totale, di
Adriano Spatola,
apparso in “Quindici”, n. 16, 1969.) Il secondo momento, mi sembra
legato a una sorta di non consumata volontà di potenza o, in termini più
prosaici, a un’esigenza di riscatto. L’intellettuale-letterato si trova
sospeso tra due universi, due disparate e ambigue clientele, la
borghesia e il partito dei lavoratori. In nessuno dei due universi trova
il proprio spazio più idoneo, né gli viene proposto di crearselo
liberamente. L’intellettuale-letterato diventa avanguardista nel momento
in cui si rende conto che nessuno, in realtà, chiede un suo contributo
alla costruzione della società attraverso la sua opera letteraria. O
meglio, i borghesi non gli chiedono nulla, perché sentono che i veri
giochi si fanno altrove e grazie all’intelletuale-scienziato, l’unico
che ormai veramente conta. All’intellettuale letterato il partito chiede
ancora molto, ma per metterlo al servizio delle sue bizantine strategie
culturali.”
Crisi, quella che descriviamo, che ha portato, come reazione alla
precarietà di questi statuti, alla ricerca di una qualche nuova
posizione in seno alla società, anche a costo di negarla totalmente,
anche a costo di rendere il cambiamento stesso unico fine possibile.
Cambiare per cambiare; cambiare per dimostrare di esserci ancora e per
sbattere in faccia a tutti il proprio voler avere ancora un ruolo. Una
volta terminato questo movimento, una volta teorizzata l’eversione per
l’eversione, la fine un po’ anarchica di ogni preoccupazione sociale che
non sia il destabilizzare le già fragili radici della poetica così come
delle istituzioni, cosa resta?
Quale deve essere oggi il ruolo degli intellettuali e delle avanguardie,
di coloro che sono davanti agli altri anche nell’uso di nuove
tecnologie, di nuovi modelli? In una società che sembra non avere una
direzione, o almeno non pare averne una soltanto, è teorizzabile una
molteplicità d’avanguardie diverse, è teorizzabile una possibilità di
modificare il corso delle nostre vite che non dipenda da una nuova
tecnologia o da un cambiamento del tasso di sconto di una banca
centrale? La sola via d’uscita preventivabile credo sia la costituzione,
da parte degli artisti, di una nuova autorevolezza diretta tra loro e il
proprio pubblico di riferimento. Autorevolezza diretta che sola può
ridare senso anche al termine avanguardia, rimettendo in posizione
avanzata l’artista in rapporto non all’intera società, ma semplicemente
all’insieme dei prossimi che gli riconoscono questo ruolo all’interno di
una determinata posizione del rizoma. La tecnologia digitale, se ben
utilizzata, può favorire questo tipo di incontro.
L’artista potrebbe dunque costituire un legame diretto con il proprio
pubblico, passando in tal modo da un ruolo negativo, dato dalla sfiducia
che la mancanza di riconoscimento ufficiale ha creato, ad un ruolo
positivo. Positivo perché, all’interno di una società dei piccoli numeri
l’artista deve essere conscio che solo grazie al proprio lavoro e al
riconoscimento di questo da parte del proprio pubblico diretto, non
importa quanto esteso, egli potrà nuovamente fregiarsi del ruolo che
ritiene suo. Una posizione di questo tipo credo che permetterebbe di
superare i limiti incontrati storicamente dalle avanguardie artistiche
nei confronti della società contemporanea. Questa posizione potrebbe
ridare slancio a quell’idea dell’intellettuale come colui in grado di
leggere il presente e preventivare mondi possibili, contribuendo al
cambiamento invece di esserne semplice vittima o commentatore.
Non si tratta certo di un manifesto, ma di una linea base di
discussione. Se vogliamo ricreare il ruolo per certe figure forse
dovremmo partire da qui, dalla coscienza della progressiva perdita
dell’autorialità riconosciuta dalle istituzioni sociali per concentrarci
sul trittico creatore - opera - fruitore, che solo può continuare a
giustificare l’esistenza di certi modelli espressivi.
Quale dunque il ruolo dell’autore, dei mezzi e del pubblico nella nuova
« società digitale delle arti »? Come cercare di comprendere il processo
d’emergenza di forme indipendenti di creazione e distribuzione in un
mondo, come quello di Internet, sempre soggetto a cambiamenti
inaspettati?
Nel 1962 usciva Opera Aperta di
Umberto Eco.
Pubblicazione che avrebbe provocato un’interminabile serie di
discussioni e dischiuso, per la prima volta in maniera sistematica, una
nuova strada per l’estetica e la poetica. Quello che gli artisti già
facevano da tempo cominciava a divenire un paradigma epistemologico e
così come il mondo perdeva l’apparente direzione in precedenza
riconosciuta, lo stesso avveniva con la nozione di significato
dell’opera d’arte. Da allora molte cose sono cambiate e dal concetto di
contrattazione tipico della comunicazione umana e dai livelli di
apertura che questo permette, sono nate le varie branche di una nuova
scienza, quella semiotica. Indiscutibilmente di moda durante gli anni
ruggenti dello strutturalismo, la semiotica ha conosciuto un grande
sviluppo fino a conoscere la sua prima crisi di crescita. Oggi infatti,
mentre i suoi strumenti sono ormai utilizzati in tutte le scienze umane,
la disciplina madre, lasciata un poco da parte, vive una crisi di
rinnovamento. Così, mentre gli studiosi di semiotica si presentano
sempre meno baldanzosi a congressi e conferenze, il prodotto dei primi
decenni di studio giunge persino ad insinuarsi all’interno del senso
comune, contribuendo a modificare la percezione dell’arte e della
comunicazione in maniera del tutto imprevista rispetto al passato.
Utilizzo proprio il termine di senso comune per mostrare
l’abissale differenza che si potrebbe notare nel caso si avesse una
discussione sull’arte con un passante di media cultura oggi rispetto
anche ad un accademico degli anni ‘60. La pluralità delle
interpretazioni possibili all’interno di un’opera infatti, la
molteplicità dei piani di lettura è un qualcosa di ormai socialmente
accettato che ha portato non poche modificazioni a tutti i livelli che
entrano in contatto con la produzione, con la distribuzione e con il
consumo di prodotti artistici. Alcuni tra i concetti maggiormente
riformulati o in corso di modificazione sono quelli di “autorialità”, di
“originalità”, di “contesto” che andrò qui di seguito a trattare
brevemente. Il cambiamento culturale legato a questi termini non può che
incidere profondamente e modificare alla base gli stessi concetti di
opera d’arte e di artista.
Si è a lungo ritenuto che l’arte fosse tale a prescindere dal contesto
di fruizione. Qualche tempo fa, un esperimento condotto dal Washington
Post (ne trovate un lungo riassunto su
La Repubblica) con la partecipazione di
Joshua Bell
ha dimostrato ancora una volta il contrario. In breve Bell, che
attualmente è forse il più quotato violinista classico, è stato condotto
a suonare per un’ora all’interno della stazione Enfant Plaza del metro
della capitale federale americana. Il giovane violinista, si presenta
vestito in maniera casual, si siede davanti ad un cestino dei rifiuti
all’ingresso della stazione, prende in mano il suo Stradivari del valore
di qualche milione di dollari e inizia ad eseguire un repertorio di
grandi classici, partendo dalla Ciaccona, dalla Partita n.2 in
Re Minore di Bach, uno dei più conosciuti e difficili brani per
violino. Bell proseguirà interpretando brani di Schubert, Massenet,
Brahms e se ne andrà dopo aver suonato per un’ora, dopo aver visto
passare un migliaio di persone che, in gran parte, non hanno
riconosciuto né lui né il suo talento e con 32 dollari di elemosina in
tasca. All’interno di un frame non convenzionale l’opera d’arte non è
stata in questo caso riconosciuta. Da questo e tanti altri esempi simili
possiamo trarre la conclusione che il riconoscimento di un testo come
opera d’arte non derivi esclusivamente dalle caratteristiche intrinseche
all’opera, ma anche dal contesto culturale di fruizione. Un’autorità,
un’indicazione, un soggetto che siano socialmente dedicati al
riconoscimento e alla diffusione di quanto viene ritenuto artistico
parrebbe di conseguenza necessario per darci quello statuto di fiducia e
qualità che ci permette facilmente di etichettare una produzione come
opera d’arte.
Eppure abbiamo descritto sopra la crisi che stanno vivendo le strutture
socialmente dedicate a questo processo, delle quali, anche una volta
riconosciuta la fallibilità e la mancanza di criteri oggettivi per
riconoscere il valore artistico, continuiamo a sentire il bisogno.
Questo contemporaneo processo di disgregazione e necessità crea
automaticamente un bisogno che le vecchie strutture sociali non sembrano
più in grado di colmare, rendendo necessario un nuovo modello di
organizzazione che possa perpetuare il processo di framing necessario al
riconoscimento e alla riproduzione del fenomeno artistico sociale.
La perdita dell’originalità dell’opera è un’altra delle misteriosamente
recenti rivelazioni del consesso culturale ed estetico. Le opere,
spesso, presentano un grado limitato di novità. Nonostante questo si è a
lungo difesa una posizione assurdamente estremista secondo la quale un
autore sarebbe un genio creatore capace di cogliere nell’infinito
assoluto brandelli di verità, inattingibili altrimenti, e di mostrarli a
tutti noi. Perché questa nozione, che chiamerò di originalità limitata,
sia entrata a far parte delle discussioni dei più è stato necessario il
passaggio dal mondo analogico a quello digitale.
Proprio questo passaggio ha definitivamente unito due universi che
sembravano tremendamente distanti, quello degli oggetti e quello delle
scritture. Questo ha provocato un inserirsi delle scritture all’interno
degli oggetti e viceversa, creando tutta una sorta di strumenti ibridi
ben descritti ad esempio all’interno di Le interfacce degli oggetti
di scrittura di
Alessandro Zinna
e sui quali si basano anche le mie attuali ricerche. L’unione dunque tra
l’azione e il pensiero si è sviluppata lungo un nuovo asse che facilita
in maniera incredibile il rimescolarsi dei linguaggi. La facilità
d’accesso a tali tecnologie e la semplicità di utilizzo delle stesse ne
spiega il rapido successo non solamente a livello degli artisti (che
restano tuttavia avanguardisti per eccellenza nel campo), ma a livello,
per la prima volta, popolare.
L’infinità di creazioni nate dalla modificazione di corpus esistenti, la
mania dei mash-up, dei remix, delle autoproduzioni indipendenti ed
ironiche che fanno il successo di ambienti digitali quali Myspace
o Youtube ne sono lo specchio principale del successo. Ognuno
oggi può ambire a divenire artista con uno sforzo minimo. Un computer è
presente ormai in ogni casa del mondo occidentale e i software per
tagliare, incollare, mescolare e rivoltare documenti digitali sono di
facilissima utilizzazione. Il risultato è stato doppio. Da un lato
abbiamo una produzione culturale immensamente più libertaria ed espansa
rispetto al passato, essendo crollate tutte le principali barriere
all’accesso, costituite dalla necessità di un poter fare e di un
saper-fare principalmente manuale. Dall’altra abbiamo assistito, invece,
ad un crollo verticale della qualità generale del prodotto artistico,
proprio per via della mancata coscienza in tanti, di quanto stia dietro
questo tipo di produzione. La maggior parte dei presunti artisti di
oggi, manca del necessario bagaglio per svolgere questo ruolo con una
qualche coscienza. Vedremo come, secondo il mio punto di vista, la
rivoluzione digitale può, in gran parte, porre rimedio anche a questa
difficoltà, se avvicinata con il giusto spirito critico.
L’esplosione dei contenuti presenti sul mondo digitale ha inoltre, e
direi quasi ovviamente, mostrato tutti i limiti di un concetto che è
stato stabilito per legge piuttosto che in base a criteri socialmente
riconosciuti: l’autorialità. Stabilita grazie all’invenzione dei diritti
d’autore l’autorialità, così come la maggior parte di noi è ancora
abituata ad intenderla, è creazione abbastanza recente, tipicamente
occidentale e relativamente ambigua. Il nuovo mondo sorto su nessuna
terra che non sia quella in cui i server hanno luogo, mondo ancora
abbastanza anarchico e anche per questo ricchissimo di spunti, non la
riconosce e se ne burla a viso aperto nonostante i ripetuti interventi
dei legislatori nazionali che cercano, finora con scarso successo, di
regolamentarne la vita.
Il grande cambiamento che la società digitale ha apportato, anche nel
mondo delle arti, è quello del passaggio da una società della carenza ad
una società dell’abbondanza. All’interno del primo modello le risorse
scarse vengono selezionate e gestite da un’apposita élite dedita alla
bisogna che provvede poi a distribuirle. Una società dell’abbondanza
salta direttamente questo passaggio e mette tutto sul tavolo del
pubblico possibile. Nasce così la grande ed eminentemente nuova
problematica per cui mai il nostro tavolo potrà contenere tutto quanto
vi viene quotidianamente riversato sopra, rendendoci implicitamente
inadeguati al nostro tempo, come intuito da
Georg Simmel
con innegabile
lungimiranza già oltre un secolo fa.
Proprio questa ancora inusuale abbondanza, legata alla facilità della
manipolazione del formato digitale, è la causa principale della perdita
dell’autorialità. Da un lato è divenuto evidente come la marca
dell’autorialità non sia altro che il saper costruire un percorso
personale attraverso gli incontri susseguitisi all’interno della propria
vita, un saper mettere un ordine, un saper tenere un filo conduttore
all’interno della molteplicità del reale. Dall’altro ha creato
l’opportunità di lavorare in maniera creativa sul prodotto altrui, che
altro non è che la riproduzione in piccola scala del fenomeno
precedente. Se nel primo caso, all’interno di un’opera di grande
respiro, diviene praticamente impossibile riconoscere ogni fonte,
diversamente incontrata durante il corso della nostra vita e che ci ha
portato a creare quei precisi collegamenti e pensieri, nel secondo caso
invece il problema si pone in maniera diretta e precisa: chi è l’autore,
ad esempio, di una poesia riscritta ironicamente, ma fedelmente
all’originale? Chi è l’autore di un video musicale a cui è stata
cambiata la partitura sonora per ottenere un effetto straniante? Chi
l’autore di un mash-up musicale? L’autore dell’opera originale oppure
colui che l’ha creativamente distorta? E se rispondessimo che è il
primo, cosa dovremmo pensare di
Leopardi
che citava, invertendo,
le magnifiche e progressive parole del genero?
Anche qui credo dovremmo stabilire un criterio contrattuale in base al
quale riconoscere un plagio da una nuova creazione, e questo limite, che
sarà sempre e comunque oggetto di dibattito, non può che essere ambiguo,
come del resto è sempre stato. L’unico metro di giudizio è il nuovo, il
nuovo che un’opera sa apportare rispetto alla precedente. Se,
socialmente, questo nuovo è riconosciuto, l’opera acquisisce un proprio
valore di unicità e artisticità dovuti all’artista in questione.
L’assumere questa posizione mi porta inevitabilmente ad assumerne una
seconda, indissolubilmente legata: un’opera non trasmette un significato
preciso (con buona pace dell’autore), ma comunica piuttosto quali NON
devono essere i suoi significati, lasciando una grande libertà
all’interprete. La differenza tra opera d’arte e comunicazione
quotidiana potrebbe anche essere ridotta a questo. La comunicazione
giornaliera cerca di descrivere il mondo riducendo quanto espresso ad un
solo significato plausibile, al fine di far passare un determinato
messaggio, e solo quello, alla controparte. Al contrario l’opera d’arte,
pur mantenendo dei forti vincoli riguardo quello che non vuole dire,
lascia al proprio pubblico una libertà molto maggiore, lasciando che,
all’interno delle interpretazioni non contraddette dal testo, ciascuno
possa attualizzare quella che ritiene a lui più congeniale. L’opera
d’arte contemporanea dunque non soltanto è aperta nei termini
preventivati da Eco, ma è anche sostenuta solo debolmente dalla presenza
della figura autoriale. Essa è dunque ancora più fragile che in passato
dal punto di vista della rappresentatività di un pensiero particolare, e
proprio per questo credo sia molto più vicina all’universalità del
pubblico cui essa è proposta. Questo mi pare ancora più evidente proprio
nel mondo digitale, in cui stabilire la provenienza prima di qualsiasi
documento è estremamente complicato, in cui le modifiche si
sovrappongono e spesso di sostituiscono alle precedenti, in cui restano
solamente l’opera (sarebbe forse meglio dire “le opere”) e il loro
pubblico.
Questo processo di perdita: perdita di direzione sociale, perdita del
ruolo autoriale, perdita dell’originalità stessa dei prodotti, perdita,
spesso, del fine ultimo della produzione artistica e purtroppo, delle
esistenze, non è un qualcosa di obbligato, non deriva macchinalmente
dalle modificazioni tecnologiche e sociali cui siamo sottoposti. Alla
domanda che mi ero posto in principio, ovvero come teorizzare una
possibilità di modificare il corso delle nostre vite, di come riprendere
un ruolo attivo nel corso degli eventi, mi sento, in piccola parte, di
poter dunque rispondere.
A livello artistico e intellettuale un ruolo attivo può essere
recuperato passando dal rapporto tradizionale tra artista o
intellettuale e pubblico ad un nuovo rapporto tra questi due poli.
Tradizionalmente infatti questo rapporto è sempre stato mediato da
strutture create appositamente. Strutture che si basavano su un rapporto
di fiducia univoco da parte del pubblico nei confronti della struttura
produttiva. Il “è vero, lo ha detto la televisione” per intenderci. Oggi
credo si senta la necessità della creazione di un rapporto di fiducia
reciproca, di un doppio patto fiduciario, come scriveva poco tempo
Antonio Sofi
pur in
tutt’altro contesto. La frequentazione diretta tra l’artista e il
proprio pubblico attivano un rapporto diverso rispetto a quello
precedentemente instaurato tra il pubblico e gli organi sociali dediti
alla riproduzione culturale. Un doppio patto fiduciario è più difficile
da attivare rispetto alla fiducia che viene data per abitudine (spesso
diamo fiducia per pagamento, il biglietto, un prezzo ci bastano per
questo) al soggetto già socialmente riconosciuto, ma una volta attivato,
proprio per via dello sforzo maggiore richiesto, è più forte. Più forte
perché viene a legarsi, in maniera doppia ai contenuti e alla persona in
questione, più forte perché si nutre di tutto il processo che è stato
necessario all’attivazione, e che potremmo considerare alla stregua di
una conversazione, di un dialogo che è sempre base necessaria.
In un momento storico dunque, in cui la riproduzione materiale del
sapere non è più legata a grandi enti, né per motivi economici (la
produzione seriale ha ormai costi equiparabili alla produzione on demand)
né per motivi fiduciari, credo sia giunto il momento che sia gli
intellettuali, sia gli artisti, prendano maggiormente in mano la propria
produzione, distribuendola il più possibile in maniera autonoma e
mantenendo e cercando il dialogo con il proprio pubblico di riferimento.
In un momento storico in cui le istituzioni sociali sono in crisi, nuove
istituzioni hanno la possibilità di nascere e di guadagnarsi sul campo
la propria rispettabilità, andando a colmare quelle lacune che le prime
non riescono più a scorgere, perse alla ricerca della citazione
aggiuntiva, dell’utile ad ogni costo.
Non si tratta di mettersi a fare proclami utopici o di lanciare crociate
contro l’establishment culturale, si tratta semplicemente di prendere
atto che una comunità come Nazione Indiana, o chi al suo posto, potrebbe
produrre direttamente quanto i suoi autori pubblicano in mille altri
luoghi, potrebbe gestire autonomamente la propria produzione, non
semplicemente in versione digitale, ma anche nel tradizionale formato
cartaceo. Le capacità intellettive e manuali necessarie sarebbero
certamente presenti e se qualcuno potrebbe rivestire la figura di
editor, qualcuno avrebbe le capacità per esserne l’illustratore e via
dicendo. Ogni scusa di impedimento da parte del mercato verrebbe meno e
la maggior spesa del prodotto finale sarebbe compensata da un lato dalla
produzione secondo le richieste (non produrre più di quanto si vende
effettivamente, eliminando o quasi l’inquietante termine di magazzino) e
dall’altro dalla non necessità di produrre un utile il più alto
possibile. Ad ogni costo.
Sono fermamente convinto che il dialogo che precederebbe, che sarebbe
alla base della stessa produzione culturale, creerebbe le condizioni
necessarie al successo del prodotto e che questo modello, intendiamoci
complementare e non sostitutivo di quello editoriale classico, dovrebbe
in breve tempo essere preso in considerazione anche dai distributori
tradizionali e finirebbe in libreria, nel negozio di cd, nelle
esposizioni, esattamente come succede attraverso il metodo
convenzionale.
L’autore che si ritrova a produrre nel mondo digitale delle arti deve
quindi fare professione di umiltà, ammettendo chiaramente di non sapere,
di non poter gestire quanto quotidianamente gli piove addosso dal mondo,
ma continuando a tracciare ipotesi e vie possibili per la ricerca
dell’essere, continuando a saggiarlo, cercando di coglierne le aperture
senza sosta.
L’autore che si ritrova a produrre nel mondo digitale delle arti deve
quindi ricostituire quel contatto con il proprio pubblico, farlo in
maniera diretta e personale, cercando nel dialogo la soluzione alla
crisi di affidabilità che la società gli pone davanti. E deve farlo
perché se crea, crea sempre per qualcuno e ogni atto non può che fare
parte di questo.
L’autore che si ritrova a produrre nel mondo digitale delle arti deve
quindi porsi il fondamento etico della ricerca per ridare un senso al
proprio ruolo e sapere che esso non prenderà forma in base al
riconoscimento di qualche accademia, ma più semplicemente in base al
riconoscimento dei propri lettori.
Oggi un intellettuale, un artista non sono più tali in quanto pubblicati
o esposti da qualcuno di noto proprio perché queste istituzioni ormai
mancano di senso, un intellettuale o un artista divengono tali quando
qualcuno comincia a riconoscerli in questo ruolo, al di là del numero
più o meno espanso di chi lo pensa. Questo deve rappresentare il
passaggio dalla società unidirezionale dei grandi a quella rizomatica
dei piccoli numeri, e non credo si tratti tanto di volontà progettuale
quanto ormai, semplicemente, di riconoscimento di uno stato di fatto. Le
tecnologie digitali, oltre ad esserne causa, possono anche rivelarsi
utile strumento di gestione di questo nuovo sistema.
Nazione Indiana, 28 giugno 2007
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