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Anna Achmatova: ultimo brindisi
di Silvia Golfera

La casa della Fontanka, cioè palazzo Šeremietev, era stato costruito nel 1750. Uno dei proprietari, il conte Nikolaj Petrovic, vi aveva vissuto con una giovane cantante del suo teatro servile. Forse l’amava, ma non aveva avuto il coraggio di sposarla, timoroso del risentimento della corte. Paraša Žemčugova, così si chiamava la donna, di profondi sentimenti religiosi, ne aveva sofferto moltissimo e aveva smesso di cantare. Restò tuttavia l’amante del suo signore per 15 anni e gli diede dei figli. Nikolaj Petrovic la sposò in segreto nel 1801, perché Paraša si era ammalata, ma il matrimonio fu reso pubblico solo dopo la morte di lei.
Questa storia affascinava Achmatova, per le profonde analogie con la propria. Neppure lei si sentì mai veramente moglie di Punin, già ammogliato. Neppure lei, per tutta la durata della relazione, cantò più. La sua poesia rimase muta. “Non riuscivo a scrivere-dirà più tardi- Mi sentivo oppressa da tutta la situazione…Per Nikolaj Nikolaevič, la moglie ideale è sempre rimasta Anna Evgen’evna: lavora…ed è un’ottima padrona di casa…Mentre io non sono una casalinga, né ho uno stipendio”.
Il rapporto fra Punin e Achmatova. fu difficile da subito. Scrive Punin nel diario, già nel ’22: “La terribile conversazione di ieri ha cambiato fortemente il carattere o la sfumatura, magari, del mio amore per te. È diventato angoscioso e cupo, quale prima non era; adesso lo sento nel cuore quasi costantemente in forma di un’angoscia profonda…Cos’è successo? Perché tutto è diventato così tragico?”
Eppure gli amici notano in loro una sorta di affinità spirituale, un’armonia degli opposti: chiara coscienza in lei, romantico caos in lui, uomo perennemente agitato, la cui tensione si esprime in un tic nervoso che gli pulsa in viso. L’amica Nadežda Mandelst’am lo definisce “uomo intelligente, fegatoso, brillantissimo”.
La loro casa è un porto di mare, per amici e parenti randagi. Su un baule, in corridoio, dietro un tramezzo, dorme a volte Osip Mandelst’am, vecchio amico di Achmatova. Quel baule diventerà più tardi il letto del figlio Lev. Poi ancora la madre di Anna vi si ferma prima di raggiungere un altro figlio alle isole Sakalin. Fino al 29, prima dell’assegnazione a un nuovo inquilino, Anna può ricorrere, per le emergenze, all’appartamento di Šilejko, il precedente marito, dove si rifugia per la notte.
È l’anno in cui la raggiunge a Leningrado il figlio, che vuole frequentare l’università.
I due si conoscono poco. Lui è cresciuto a Bežeck coi parenti del padre, presso cui Anna si recava, ogni tanto, a trovarlo. Tuttavia non ha mai mancato di sostenerlo finanziariamente, anche nei durissimi anni della guerra civile, quando lei stessa pativa la fame. Spesso gli scriveva. In una lettera del 1927 raccomanda: “Figlio mio caro, ti ringrazio di avermi raccontato fiduciosamente e apertamente le tue pene…Io ti considero talmente adulto, che mi sembra inutile ripeterti quanto sia importante studiare bene e comportarsi bene…se non vuoi distruggerti…Dio sia con te. Mamma”.
Ma il bambino patisce il distacco. Una volta, interrogato su cosa stesse facendo, il piccolo Lev aveva risposto: “Calcolo le probabilità che la mamma stia pensando a me”. L’episodio, riferito dall’ex suocera, aveva molto amareggiato Anna, afflitta da un senso di colpa acuito più tardi dalle disavventure di Lev, arrestato tre volte e condannato a lunghi anni di gulag.
La convivenza col figlio diciassettenne non è facile, anche perché Anna non è la padrona di casa e, per la sopravvivenza, dipende da Punin e dalla prima moglie di lui, Anna Evgen’evna. Dopo il 1925 non ha più pubblicato. Qualche traduzione e un saltuario sussidio non cambiano sostanzialmente le cose. Studia inglese e italiano e inizia ad occuparsi di Puskin. Le difficoltà economiche esasperano la situazione: i soldi non bastano e la miseria rende Punin meschino. In una lettera del 1932, scrive: “N.N. è sfinito dagli impegni…È cattivo e ingiusto. Del tutto inaspettatamente per me ho ricevuto il sussidio statale-renderà molto più facile la mia posizione in casa”.
Racconta come a pranzo Punin destinasse il burro, difficile a trovarsi in quei tempi di penuria, solo alla figlia Irina, mettendo in grave imbarazzo tutti gli altri commensali, Lev più di tutti.
Gli ospiti notano che, nella famiglia allargata dei Punin, lei si comporta più come amica intima di casa, che come moglie. Il giudizio di Mandel’štam è drastico: “Male che fossero capitati insieme, sotto lo stesso tetto. L’idillio era stato escogitato da Punin affinché ad Achmatova non capitasse il ruolo di padrona, ma lui pativa, dovendo procurare i soldi per due famiglie... L’idillio non si era realizzato e alla fine si arrivò al divorzio”
Lev è un giovane talentuoso, conosce le lingue straniere, arabo compreso, e aspira alla carriera accademica. Ma le sue origini nobiliari e l’essere figlio di un controrivoluzionario, gli bloccano l’accesso all’istruzione superiore. Dovrà lavorare come manovale e solo nel 1934 riesce a iscriversi alla facoltà di storia. In casa non è a suo agio e si rifugia spesso da amici. Presso uno di questi viene arrestato, la prima volta, nel 1935. Si tratta della grande ondata repressiva che si abbatte su Leningrado dopo l’assassinio di Sergéj Kirov, massimo dirigente cittadino del Pcus, nel dicembre del 1934. La stessa sorte tocca anche a Punin. Achmatova scrive un’accorata lettera a Stalin in cui proclama l’innocenza di entrambi, accusati di complottare in sedicenti circoli controrivoluzionari. Per questa volta vengono rilasciati.
Ma intanto è maturata la rottura con Nikolaj Nikolaevič, cui è dedicata la poesia “Ultimo brindisi”, del 1934:

“Bevo a una casa distrutta
alla mia vita sciagurata
a solitudini vissute in due,
e bevo anche a te:
all’inganno di labbra che tradirono
al morto gelo dei tuoi occhi,
ad un mondo crudele e rozzo
a un Dio che non ci ha salvati”

Più tardi, in una serie di conversazioni con l’amica Lidija Čukovskaja avrà a dichiarare: “È strano che io abbia vissuto così a lungo con Nikolaj Nikolaevič quando ormai il nostro rapporto era finito…Ma ero così distrutta che non avevo la forza di andarmene. Stavo molto male, per tredici anni non avevo scritto versi…E sapete come fu che lo lasciai? Dissi ad Anna Evgen’evna, davanti a lui “Scambiamoci le stanze”. A lei faceva molto comodo e cominciammo subito a trasferire le nostre cose”.
Anna resta quindi a vivere alla Fontanka. La vita quotidiana sovietica ha risvolti paradossali. Punin si legherà successivamente ad una sua allieva e sarà costretto a far convivere sotto lo stesso tetto le sue tre compagne.
Intanto si profila il legame con Garšcin, celebre anatomopatologo di Leningrado. “Ebbe una spiegazione con Garšcin, cosa che la indusse a rompere definitivamente con Punin”, testimonia l’amica Nadežda Mandel’štam nelle sue memorie
Nel ’38 Lev viene nuovamente arrestato, e ogni supplica rimane inascoltata. Sottoposto a ripetuti interrogatori e a tortura, non riescono tuttavia ad estorcergli nessuna confessione. Viene condannato a cinque anni di lavori forzati, nel lager del complesso di Noril’sk.
Alla vigilia del suo trasferimento in Siberia, nell’agosto del 1939, la madre ottiene una visita.
Indossa un abito bianco, un filo di rossetto sulle labbra. È una donna di cinquant’anni, che le molte privazioni hanno precocemente invecchiata. Eppure vuole apparire bella in occasione di questo che potrebbe essere un addio. Quando vuole, ci riesce ancora: “Per tutta la vita sono riuscita ad avere l’aspetto che desideravo: da bella a mostro”.
L’accompagnano alcuni amici: “Non finiva mai quella giornata tremendamente calda in quel cortile polveroso! La tortura dello stare in piedi. Uno di noi ogni tanto riusciva a portare via Anna Andreevna dalla fila, e a farla sedere anche solo su un paracarro…Ma lei lasciava la fila malvolentieri, aveva paura; e se succedeva qualcosa…Stava in piedi, silenziosa…Accanto al suo, tutti i volti sembravano indistinti”.
Intanto sta scrivendo “Requiem”, poema che rimane ancora una delle maggiori testimonianze artistiche del terrore staliniano. Testimonianza del dramma di un poeta e di suo figlio, in cui si specchia il dramma di tutta la nazione.
Pochissimi sono al corrente di questa opera, che Achmatova cerca di salvare attraverso la memoria degli amici. La trascrive su carta solo nel 1962, ma non farà a tempo a vederla pubblicata in patria. Lidija Čukovskaja è una delle depositarie:
“D’un tratto, nel mezzo di una conversazione, lei taceva e indicandomi con gli occhi il soffitto e le pareti, prendeva un pezzo di carta e una matita; poi ad alta voce diceva qualcosa di molto prosaico: -Vuole del tè?-…scriveva velocemente qualcosa e me lo porgeva. Leggevo i versi e dopo averli imparati a memoria glieli restituivo.”
Tuttavia, durante una visita a Leningrado, Stalin s’informa bonariamente di lei: “Come sta la nostra monaca?”. È il segnale di un disgelo: l’unione scrittori riprende ad omaggiarla, le viene aumentata la pensione, le Edizioni di Stato pubblicano la raccolta “Da sei libri”. Ma l’opera è subito attaccata per lo spirito “mistico e religioso” e Ždanov firma una disposizione che ne impone il ritiro dal commercio.
Le viene inizialmente promessa la possibilità di una nuova stanza alla Fontanka, dove vive in condizioni molto precarie. Poi il Litfond, il Sindacato degli scrittori, ripiega su una ritinteggiatura: “La stanza: un’impressione generale di abbandono, rovina. Vicino alla stufa c’è una poltrona senza un piede, logora, con le molle a nudo. Il pavimento non è stato spazzato…L’unica cosa veramente bella è la finestra che dà sul giardino, e l’albero che guarda diritto nella finestra. I rami neri” registra Lidija, in occasione del loro primo incontro.
Quando scoppierà la guerra, l’albero verrà carbonizzato durante i bombardamenti cui Leningrado è sottoposta nel terribile assedio durato 900 giorni, dal settembre del ’41 al gennaio del ’44. E Achmatova ne rimira il tronco bruciato, simbolo dell’immane rovina che ha investito la città, il paese del cui destino ancora una volta si fa carico, e lei stessa. L’acero incenerito entra così nel “Poema senza eroe”, l’opera dedicata a San Pietroburgo, iniziata nel 1940, su cui continuerà a lavorare fino al 1962:

“E testimone d’ogni cosa al mondo
Al tramonto ed all’alba
Nella stanza guardava il vecchio acero
E, prevedendo il nostro distacco,
Quasi chiedesse aiuto, mi tendeva,
La nera mano rinsecchita”

golferasi@yahoo.it



 

 
 

 

 
 

agli incroci dei venti, 4 marzo 2007

 

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