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Luci e ombre di
una rivoluzione permanente. Sessant'anni dopo il voto alle donne.
di
Elena Pulcini
1.
In generale sono piuttosto scettica sul potere comunicativo delle
celebrazioni e delle riflessioni che hanno origine occasionalmente da un
centenario o da un anniversario simbolicamente significativo. Spesso
c'e' infatti il pericolo di una stanca formalita' che finisce per
opacizzare i contenuti sostanziali.
E questo e' un rischio che non voglio correre, trattando di un evento
rilevante come la ricorrenza dei 60 anni dalla conquista del diritto al
voto da parte delle donne. Provero' quindi a cogliere quest'occasione
per proporre qualche riflessione, che non rifugga dalla critica e da uno
schietto disincanto, sul percorso che, a partire da quell'ormai lontano
2 giugno 1946, ha caratterizzato la rivoluzione pacifica (e forse la
piu' incisiva) del '900.
Con il referendum istituzionale che chiama i cittadini a scegliere tra
Monarchia e Repubblica, le donne italiane, dopo una lunga serie di
sconfitte e con sensibile ritardo rispetto ad altri paesi (non solo
occidentali), ottengono di entrare a far parte dell'elettorato sia
attivo che passivo; 21 di loro, inoltre, risulteranno elette
nell'Assemblea costituente della nuova Repubblica.
E' evidentemente un passaggio epocale che coincide, non a caso, con una
stagione felice della storia e della politica italiana, e che apre un
varco attraverso il quale potranno susseguirsi ulteriori e importanti
tappe di un cammino emancipativo tuttora in atto; nel quale converge un
intreccio straordinario di ragioni e di passioni, di mobilitazione
collettiva e di mediazione istituzionale, di coinvolgimento personale e
di impegno politico, di mutamenti culturali e di battaglie giuridiche.
Ogni conquista sul piano del diritto - ed e' forse questo uno dei tratti
distintivi della rivoluzione femminile - si presenta in altri termini
come l'esito di un intenso e capillare lavoro di discussione e di presa
di coscienza, che prima ancora di penetrare nelle istituzioni, scardina
modelli culturali e relazionali, decostruisce immagini consolidate,
penetra nella vita privata e interiore dei soggetti: scaturisce, in una
parola, da un movimento inarrestabile che, pur attraverso momenti di
implosione e di crisi, fornisce l'humus che andra' poi, di volta in
volta, a depositarsi nelle leggi.
Ricordiamone allora alcuni momenti decisivi: la legge sulla parita'
salariale tra uomini e donne del 1960; l'approvazione della legge sul
divorzio del 1970 che vede le donne attive protagoniste; la tutela della
maternita' alle lavoratrici dipendenti del 1971; la riforma del diritto
di famiglia del 1975 che introduce la parita' tra i sessi in ambito
familiare conferendo ad entrambi i coniugi la parita' sui figli; la
legge sulla parita' nel lavoro del 1977; quella del 1978 sulla
interruzione volontaria della gravidanza (la ben nota 194) che legittima
la prevenzione delle gravidanze indesiderate e pone fine all'aborto
clandestino; la legge sulle pari opportunita' per uomini e donne
nell'ambito del lavoro e delle professioni, del 1991; le nuove norme
sulla violenza sessuale del 1996, le quali stabiliscono che la violenza
sessuale non e' piu' un delitto contro la morale, ma contro la persona;
la legge sui congedi parentali del 2000 che estende la cura dei figli
anche ai padri puntando ad una maggiore condivisione dei compiti
all'interno del nucleo familiare; le misure contro la violenza nella
relazioni familiari, del 2001, che stabilisce particolari sanzioni per
il coniuge violento.
Si tratta, indiscutibimente, di conquiste emancipative che hanno
fortemente dilatato gli spazi di autonomia e di liberta' per le donne,
ridimensionando il potere maschile e patriarcale e ponendole su un piano
di parita' e di uguaglianza con l'altro sesso. Ma non solo.
L'acquisizione di determinati diritti (basti pensare alla legge 194) e'
anche l'evidente testimonianza della battaglia, da parte delle donne,
per l'affermazione di un principio che va oltre la prospettiva puramente
emancipativa ed egualitaria e che, in Italia in particolare, ha visto
una intensa fioritura a partire dal femminismo degli anni '70; vale a
dire l'affermazione della differenza, che significa in prima istanza
capacita' di autodeterminazione rispetto a territori confinati per
secoli alla zona oscura ed amorfa di una astorica e destinale
naturalita': come il corpo, la sessualita', la maternita'. Le donne
rivendicano cioe' il diritto a gestire da soggetti tutto cio' che la
cultura e la storia (maschili) hanno confinato nella sfera marginale del
privato - come la nascita, la vita, l'amore - rivelandone il profondo
significato simbolico e le stesse implicazioni politiche.
Tutto questo e' universalmente noto, anche perche' si tratta, appunto,
di trasformazioni dirompenti che hanno via via trovato il modo di
coagularsi nella sfera del diritto, producendo cosi' maggiore
consapevolezza e acquisendo maggiore autorevolezza; tanto da consentire
alle donne quei nuovi spazi di liberta' e di possibilita' che si sono
progressivamente aperti nella vita pubblica e nelle professioni, nella
sfera privata e nella politica, legittimandone una nuova dignita' di
soggetti sia pubblici che privati.
Tuttavia, sarebbe un errore valutare queste conquiste attraverso
un'ottica di illuministico ottimismo, per almeno due ragioni
fondamentali: la prima e' che ogni acquisizione non e' mai
definitivamente data, ma e' esposta, sul piano legislativo, a ciclici
rischi regressivi o a interpretazioni arbitrarie e distorte; la seconda
e' che, anche laddove si tratta di traguardi consolidati e
indiscutibili, il diritto non e' sufficiente a garantire alle donne
un'autentica liberta'.
2.
Il primo aspetto e' forse il piu' facile da dimostrare e il piu'
immediatamente visibile, almeno per chi segua con attenzione vicende che
purtroppo sono spesso oggetto di indifferenza e di rimozione.
Basti fare due esempi recenti e significativi.
Il primo riguarda la sentenza della Cassazione, emessa nel febbraio
scorso, che attenua la pena al patrigno stupratore perche' la ragazza
aveva gia' avuto in precedenza rapporti sessuali. Si tratta
evidentemente di un'intrepretazione del tutto discutibile, ma
giuridicamente legittima della legge sulla violenza sessuale che di
fatto ne azzera il contenuto emancipativo, ricadendo in pregiudizi a dir
poco arcaici relativi alla sessualita' femminile, la quale viene
sempre ritenuta potenzialmente e oscenamente colpevole.
Il secondo, ancora piu' macroscopico, riguarda gli attacchi, piu' o meno
espliciti e provenienti da vari settori del mondo politico, alla legge
194; attacchi che hanno prodotto non a caso la piu' intensa
mobilitazione delle donne a cui si sia assistito negli ultimi anni,
confluita simbolicamente nella grande manifestazione del 14 gennaio
2006. Nonostante, infatti, il consenso che eccezionalmente la legge
sull'interruzione volontaria della gravidanza ha ottenuto e continua ad
ottenere da parte di donne parlamentari di destra e di sinistra, essa
torna ripetutamente ad essere rimessa in discussione, raccogliendo in un
magmatico crogiuolo i dissensi del mondo cattolico e le ambiguita' della
sinistra istituzionale; e confermando l'impressione che tanto piu'
fragile e precaria una data acquisizione sembra essere quanto piu' e'
incisiva per l'autonomia delle donne.
Nulla insomma e' mai definitivamente dato; e se e' vero che questa e'
una ovvia e universale verita', lo e' tanto piu' per le donne a causa
della pressione sotterranea e permanente che, a dispetto di un apparente
e compiaciuto progressismo, una mentalita' e una cultura regressive,
sempre in agguato, possono esercitare sul diritto.
Ma se, come dicevo, il rischio regressivo e' sotto gli occhi di tutti e
soprattutto non sembra sfuggire allo sguardo attento delle donne, ogni
volta pronte a mobilitarsi e a dare battaglia, piu' insidioso e sottile
e' l'altro aspetto che dovrebbe immunizzarci da ogni facile ottimismo, e
che potremmo riassumere nella insufficienza del diritto.
Basta infatti misurarlo con due ombre ineludibili che ne inficiano
l'efficacia: la violenza e il potere.
L'esistenza di determinate leggi che proteggono le donne da varie forme
di violenza non sembra granche' scalfire certe patologie sociali e
culturali che persistono nonostante tutto o che, in maniera
apparentemente inspiegabile, tornano addirittura ad acuirsi in
determinati momenti; forse proprio in quei momenti - e' legittimo il
sospetto - in cui la liberta' e la dignita' delle donne acquistano
maggiore visibilita' e peso sociale.
Il diritto rischia in primo luogo di infrangersi contro la violenza, non
nel senso, si badi bene, che la seconda ne rappresenta sempre e comunque
la prevedibile e inevitabile trasgressione cui si risponde di rimando
attraverso sanzioni; ma nel senso, molto piu' tortuoso, che la violenza
sembra di fatto pervicacemente tornare ad azzerare quei valori e
principi che il diritto, quale coagulo di difficili e faticose lotte,
tenta di affermare.
Abbiamo assistito di recente al moltiplicarsi di episodi di violenza
sulle donne (gli stupri a Milano in agosto, la violenza sessuale a Roma
e Napoli, delitti d'amore e di gelosia, molestie e violenza in ambito
domestico) che, a dispetto delle conquiste giuridiche, sembra
attraversare come un fiume carsico una societa' per lo piu' indifferente
e sempre incline a cadere nella trappola dell'omerta'.
Si tratta inoltre di episodi che non e' certo possibile scaricare sulla
presenza "contaminante" di soggetti e culture altre, ancora
dichiaratamente fondate su un atavico potere patriarcale. Nonostante il
chiasso massmediale che e' stato fatto l'estate scorsa sul caso di Hina
(uccisa da padre e fratelli in quanto trasgressiva della legge
islamica), quale evento simbolico di una "arretratezza" e di una ferocia
arcaica da cui l'occidente illuminato sarebbe immune; e malgrado il
dilagare del dibattito sulla questione del "velo", dibattito spesso
subdolamente connivente con il pericoloso mito dello "scontro di
civilta'", non e' possibile ignorare i tanti episodi di violenza
autenticamente nostrana che infestano le nostre citta' consegnandole,
soprattutto per quanto riguarda la popolazione femminile, alla paura e
all'insicurezza che spesso pervadono le stesse mura domestiche.
Sappiamo infatti che la prima causa di morte e di invalidita' permanente
per le donne europee tra i 16 e i 44 anni e' la violenza dei mariti, dei
compagni, dei padri; che il 90% di stupri, maltrattamenti, violenze
fisiche e psicologiche degli uomini sulle donne avviene in casa; che
ogni 4 minuti in Italia, e ogni 90 secondi negli Stati Uniti una donna
viene stuprata. Insomma violenze e delitti di ogni sorta, a cui va
tristemente ad aggiungersi la lista recentissima e quanto mai
inquietante della violenza fra gli adolescenti, in cui quasi sempre la
vittima e' una giovane teen-ager che diventa malauguratamente ostaggio
di piccoli bulli in cerca di una distorta identita'.
Ma non solo. C'e' anche un altro tipo di violenza, meno eclatante e piu'
indiretta, ma non per questo meno efficace, che e' quella della
mercificazione e spettacolarizzazione dell'immagine e del corpo
femminile che continua indisturbata ad imporsi, veicolata attraverso
schermi di ogni tipo (la tv, il cinema, Internet); violenza tutt'altro
che nuova, bensi' coeva a quella "societa' dello spettacolo" che da
tempo erode ogni contenuto e valore, ma che attinge oggi nuovo vigore
dall'imperversare di una logica competitiva selvaggia, alimentata dal
modello delle "sfide" televisive e del "saranno famosi", spingendo le
donne, soprattutto le piu' giovani, ad inseguire il sogno postmoderno di
almeno un frammento di visibilita'.
Da sponde apparentemente opposte, queste due forme di violenza finiscono
di
fatto per convergere nel riconfermare, ancora una volta, quel pernicioso
e secolare pregiudizio che consiste nella identificazione delle donne
con il corpo, con il loro corpo.
Velato o scoperto, ammirato o violato, assoggettato o trasgressivo, il
corpo continua ad essere, sempre e comunque, il fondamento granitico su
cui, attraverso le culture, si costruisce l'identita' femminile la quale
rischia oggi di essere schiacciata nella desolante alternativa tra il
"velo" e la "velina", tra il dominio coercitivo della tradizione e
quello morbidamente pervasivo della postmodernita'.
Tutto questo vuol dire che il patriarcato non e' "finito" con
l'introduzione del nuovo diritto di famiglia, o con il riconoscimento
della violenza sessuale come delitto contro la persona (e non piu'
contro la morale), o con le norme sui congedi parentali. Passi
importanti certo e, e' forse opportuno ribadirlo per non offrire il
fianco a possibili fraintendimenti, passi assolutamente necessari; e
tuttavia non sufficienti.
Ne e' ulteriore testimonianza il fatto che la patologia della violenza
non e', come ho premesso, l'unico terreno nel quale viene messa alla
prova l'efficacia del diritto. Questo sembra infatti incorrere in
un'altra difficolta', se non in un altro scacco, che riguarda il suo
impatto con il potere e con le sue congenite anomalie.
Se e' vero che, per esempio, la legge sulla parita' del lavoro e quella
sulle pari opportunita' hanno aperto alle donne l'accesso a ruoli
professionali e istituzionali prima unicamente riservati al sesso
maschile, e' anche vero che spesso questa apertura si rivela, almeno in
parte, illusoria. Quella che si afferma infatti, in modo strisciante e
nel migliore dei casi inconsapevole, e' una sorta di automatica
svalutazione delle donne la quale fa si' che, nei luoghi di lavoro o
nelle stanze alte della politica, esse vengano per lo piu' tenute ai
margini, bloccate di fatto nella carriera o confinate in ruoli
secondari; e spesso costrette, per sottrarsi a questa sorta di condanna
alla mediocrita', ad una caricaturale mimesi del maschile che ne
mortifica l'identita' e ne impoverisce le potenzialita'. A questo
ostacolo invisibile che tiene le donne al di sotto di quella soglia
oltre la quale soltanto si da' l'accesso reale al potere
inteso sia come prestigio sia come disponibilita' e gestione delle
risorse, e' stato dato il suggestivo ed eloquente nome di "soffitto di
cristallo": una barriera che non permette di toccare cio' che allo
stesso tempo consente di vedere creando un'illusione di accessibilita'.
Questo non vuol dire che si debbano sottovalutare i pur consistenti
successi delle donne nei vari settori del sociale - dalla magistratura
all'universita', dalle professioni all'imprenditoria - dove negli ultimi
15 anni in Italia esse hanno ottenuto anche incarichi di responsabilita'.
Non possiamo inoltre non rallegrarci di fronte alle dichiarazioni
recenti del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che invita i
partiti a dare maggiore spazio alle donne in ruoli dirigenziali.
Il fatto e', pero', che molto cammino c'e' ancora da fare; e che non
bastano neppure successi a livello internazionale, come una Hillary
Clinton o una Segolene Royal in odore di presidenza, per scardinare il
pregiudizio diffuso di una inadeguatezza delle donne a ricoprire
posizioni di potere; come migliaia di loro sperimentano ogni giorno nei
luoghi del lavoro e della politica, oppresse dalla lotta impari per un
riconoscimento di "eccellenza" - nuova e pericolosa parola d'ordine! -
che quasi sempre stenta, nonostante i meriti, ad arrivare.
Certo, non si puo' negare che forse una delle ragioni di questa
marginalita' sia da rintracciare nel complesso e tormentato rapporto
delle donne stesse col potere, nella loro difficolta' ad identificarsi
con la logica competitiva e stritolante che spesso la gestione del
potere richiede, nella loro refrattarieta' al compromesso e nelle loro
paure dei costi personali che necessariamente si pagano quando si arriva
ai piani elevati della dirigenza.
Ma la verita' di questa ambivalenza non legittima il pregiudizio; e
soprattutto, come provero' a suggerire piu' avanti, in questa
ambivalenza, in questo scarto tra il volere e il non volere, tra il
gestire e il non identificarsi, puo' risiedere uno dei punti di forza
delle donne, laddove accettino davvero di rompere il tabu' del potere.
Tornando al diritto e alla sua insufficienza, si potrebbe allora
proporre una prima osservazione conclusiva: il diritto non basta se non
si e' realmente capaci di esercitare i diritti che esso consente di
acquisire, modificando allo stesso tempo pregiudizi culturali e
scompigliando le logiche sottilmente gerarchiche delle relazioni
personali, decostruendo immagini consolidate e denunciando
l'inconsistenza di certe presunte verita', correndo il rischio di
scardinare in primo luogo nella propria interiorita' la potenza
narcotizzante dell'ovvio.
Mi pare molto feconda, a questo proposito, la distinzione, proposta da
Amartya Sen e (con particolare riferimento alle donne) da Martha
Nussbaum, tra diritti e "capacita'", dove il secondo termine allude,
appunto, non solo a cio' che ci viene riconosciuto e legittimamente
attribuito ma anche a cio' che siamo effettivamente in grado di fare per
realizzare la nostra dignita' di persone e cambiare in meglio le nostre
vite; o per dirla con le parole stesse di Nussbaum, allude a "cio' che
le persone realmente sono in grado di fare e di essere, avendo come
modello l'idea intuitiva di una vita che sia degna della dignita' di un
essere umano" (Nussbaum, Diventare persone, Il Mulino, 2001).
Proprio le donne (e non solo quelle dei paesi non occidentali, a cui
Nussbaum specificamente si riferisce) mostrano spesso come si possano
avere dei diritti, legalmente e formalmente attribuiti, senza possedere
la capacita' di esercitarli, di farne uso; a causa, vorrei ribadire,
della discrasia fra la sfera giuridica da un lato e quella culturale,
emotiva, simbolica dall'altro.
Acquisire capacita' significa colmare quella discrasia, attraverso un
lavoro incessante e capillare di trasformazione a tutto campo che spezzi
le resistenze di una cultura profondamente radicata nella psiche e
nell'immaginario dei soggetti.
3.
Ma e' importante che nel fare questo, le donne non dimentichino di
valorizzare la loro differenza. Questa non e', si badi bene, da
intendersi in senso naturale e biologico, come cio' che le inchioda a
determinati valori, qualita', comportamenti che finirebbero per
ricostituire una identita' "femminile" rigida e coercitiva e per
riprodurre, magari con un rovesciamento di segno e di valore, quel
dualismo sessuale che e' stato sapientemente costruito, per secoli, dal
pensiero patriarcale.
Inoltre, valorizzare la differenza non implica solo, come accennavo
sopra, esercitare la propria capacita' di autodeterminazione su tutto
cio' che riguarda il corpo, la sessualita', la vita. Ma vuol dire
soprattutto valorizzare la capacita' di differenziarsi, di
disidentificarsi dai modelli egemoni della cultura, della politica,
della famiglia, svelandone le contraddizioni e le logiche gerarchiche,
le aporie e le patologie. In questo, le donne conservano un vantaggio
che deriva dalla loro stessa storia di esclusioni, di silenzi, di
marginalizzazioni; una storia da interrogare, da decostruire, da
rovesciare, per porsi in una posizione critica verso la presunta
ovvieta' dei modelli consolidati e la protervia delle logiche di
potere e di dominio; e per poter pensare prospettive e modelli
alternativi.
E in fondo e' proprio questo che le donne, e le migliori versioni del
femminismo, hanno fatto in questi ultimi decenni: opponendo al soggetto
neutro e logocentrico della modernita' un soggetto incarnato e
contestuale, integrando l'etica dei diritti con quella della
responsabilita' e della cura, innervando l'astrattezza del pensiero con
la pratica dell'esperienza, disvelando la valenza politica del privato,
rivitalizzando l'astratto formalismo della ragione con la potenza della
passione, criticando il modello individualistico della soggettivita'
attraverso l'attenzione al momento della relazione.
Tutto questo costituisce il bagaglio vitale da portare sempre con se',
come una sorta di handbag, di prezioso accessorio del quale non si puo'
fare a meno in nessuno dei molteplici ruoli che le donne oggi si trovano
a ricoprire e che spesso fanno fatica a conciliare, rischiando a volte
di cadere esse stesse in una logica settoriale che finirebbe per
impoverire la ricchezza delle loro potenzialita'.
Questo bagaglio, peraltro faticosamente acquisito, non puo' essere
lasciato a casa neppure nel momento in cui si accede a posizioni di
potere, si entra nella politica, si assumono posizioni di
responsabilita' pubblica.
Se e' piu' che legittimo aspirare all'ampliamento dei diritti, al
consolidamento della cittadinanza e ad un ingresso nei vertici della
politica, bisogna essere consapevoli del fatto che non basta lottare per
una presenza numericamente maggiore delle donne. Il problema, detto
banalmente, non e' solo quantitativo, ma qualitativo; riguarda cioe' i
contenuti che le donne intendono portare nella politica. Il problema
cioe' e' come far trasmigrare nella politica i contenuti eversivi del
movimento delle donne, tenendo sempre aperto il bagaglio a mano che
custodisce tutto cio' che dalla politica - sempre piu' incline ad
essere, nel migliore dei casi, pura mediazione degli interessi, e nel
peggiore, strumento di difesa di interessi particolaristici - e' stato
finora, e prevalentemente, tenuto fuori: l'attenzione al contesto, alla
cooperazione, alla singolarita', alla relazione, alla solidarieta'.
Forse un valido aiuto in questo senso puo' provenire proprio, come
accennavo sopra, da quella che spesso viene giudicata come una debolezza
delle donne: vale a dire la loro ambivalenza, la loro tendenza a
collocarsi sempre in una soglia tra il "dentro" e il "fuori", la loro
difficolta' di identificarsi col potere. E' infatti in questa
ambivalenza, in questo scarto, che trova spazio la memoria di cio' che
potrebbe essere altrimenti. E' in questo scarto che puo' prendere corpo
l'ambizione, non liquidabile cinicamente come ingenua utopia, a
migliorare le cose, cominciando con l'irrompere in modo irriverente
nelle stanche formalita' della politica, col rifiutarne i linguaggi
artificiosi, col denunciarne le modalita' non trasparenti, e soprattutto
la prevalente indifferenza verso (e spero non mi si accusi di retorica)
il bene comune.
Abitare questo scarto - che, certo, richiede l'abilita' rocambolesca del
funambolo nietzscheano! - vuol dire, appunto, accettare di far parte del
gioco, conservando pero', allo stesso tempo, quella capacita' di non
identificazione che, forse, sola consente di immaginare qualcosa di
diverso, di proporre alternative; o per dirla con un pensatore purtroppo
obsoleto come Ernst Bloch, di coltivare quella speranza o desiderio del
meglio che oggi sembra aver decisamente ceduto il passo alla vuota
ideologia del qui ed ora.
4.
Tenere aperto questo scarto significa inoltre mantenere la necessaria
distanza dalle cose che consente di poter individuare quelli che sono i
problemi e le sfide cruciali in un mondo sempre piu' caratterizzato
dalla cifra della complessita': problemi e sfide che spesso non arrivano
ad avere il dovuto risalto nell'agenda della politica ufficiale e della
discussione pubblica, sebbene siano, paradossalmente, la testimonianza
di mutamenti o sconvolgimenti epocali che richiederebbero il massimo
stato di allerta e di attenzione.
La lista, a questo proposito sarebbe tutt'altro che breve, ma mi
limitero' a segnalare due problemi fortemente rappresentativi.
Penso per esempio al problema dell'ambiente (dalla minaccia nucleare al
global warming) che, pur investendo il destino dell'umanita' e
dell'intero pianeta e delle generazioni future, sembra cadere per lo
piu' in una generale indifferenza, contro la quale, data anche la loro
ontologica familiarita' con la cura della vita, potrebbe forse
mobilitarsi l'attenzione e la pratica delle donne.
E penso anche ad un'altra e inquietante sfida, sulla quale vorrei, sia
pure rapidamente, soffermarmi in quanto riguarda piu' direttamente le
donne: quella che proviene dall'enorme incremento del potere della
tecnica e dal pericolo ad esso intrinseco di colonizzazione della vita.
Non si tratta qui di schierarsi pro o contro le innovazioni prodotte
dallo sviluppo tecnologico. E' opportuno anzi ribadire il carattere
spesso fuorviante del dibattito contemporaneo, laddove finisce per
arenarsi nelle strettoie di una falsa e sterile alternativa tra
tecnofobia e tecnofilia.
Il punto semmai e' tentare di mostrare come anche in questo caso ci
imbattiamo in quella che ho definito l'insufficienza del diritto.
Provero' dunque a farlo con un esempio, relativo ad un evento recente,
che ritengo particolarmente significativo: il referendum del 2005
relativo alla legge sulla procreazione assistita.
Non ho mai messo in discussione, sia chiaro, la necessita' del consenso
al "si'" come voto politico ne' l'importanza di difendere una legge
qualificante per l'autonomia delle donne. Ma il problema, appunto, sta
nel fatto che il dibattito ha finito per polarizzarsi, anche da parte
delle donne, nello scontro tra fautori del "si'", e sostenitori del
"no"; in un'alternativa riduttiva che ha di fatto oscurato la
complessita' e la profondita' dei problemi che ne costituivano la posta
in gioco.
E la posta in gioco, per dirla con Barbara Duden (Il gene in testa e il
feto nel grembo, Bollati Boringhieri 2006), e' nientemeno che il
pericolo di un "monopolio del pensiero tecnologico" e di nuovi e piu'
sottili assoggettamenti a cui le donne sono di fatto esposte in virtu'
del carattere espropriativo ed invasivo delle biotecnologie. La posta in
gioco sta nella progressiva riduzione del corpo, privato della sua
qualita' di "corpo vissuto", a "corpo-carne", puro ammasso biologico di
cellule e organi, e a "corpo diagnosticato", oggetto di illimitate
intrusioni e manipolazioni.
Manipolazioni che rischiano non solo di privare le donne di quello che
e' il loro potere per eccellenza - il potere di generare - ma anche di
incidere perversamente e seduttivamente sui loro stessi desideri: di
orientarli cioe' secondo gli imperativi del discorso tecnologico,
secondo la parola d'ordine, a quest'ultimo sottesa, del "cio' che si
puo' fare si deve fare".
Se la lotta delle donne per la soddisfazione del desiderio di maternita'
e' sacrosanta, non si puo', pero', sottovalutare il fatto che le forme
della sua realizzazione non sono neutrali e innocenti, ma profondamente
compromesse con le logiche pericolosamente totalizzanti di un potere
tecnologico che spaccia per desiderio delle donne cio' che invece e'
solo l'esito indotto dalla sua vocazione al controllo e
all'illimitatezza; e che sa rendere opache persino le eventuali
alternative all'abbagliante range delle sue offerte.
Poco di tutto questo e' venuto alla luce durante i giorni della febbrile
campagna referendaria, nonostante che non manchino, nel femminismo
italiano, voci di denuncia dei pericoli riduzionistici e invasivi delle
biotecnologie
(penso, tra le altre, alle riflessioni di Maria Luisa Boccia); e
nonostante che comincino ad emergere spunti di analisi critica di quel
processo di de-corporeizzazione del vivente nel quale sembra realizzarsi
uno dei miti piu' inquietanti dell'immaginario tecnico-scientifico
occidentale.
Sottrarsi all'ordine simbolico della tecnica e alla sua insidiosa
seduttivita', significa, in primo luogo per le donne, ridiventare
soggetti, del proprio corpo e dei propri desideri, magari per riscoprire
o inventare nuove e diverse possibilita'; e soprattutto per far si' che
la legittima acquisizione di un diritto non si traduca, paradossalmente,
in una passiva acquiescenza agli imperativi del discorso tecnologico e,
di conseguenza, in una lesione della propria identita' e in un
indebolimento del proprio potere.
Questo non vuol dire che non si debba gioire della vittoria ottenuta.
Vuol dire pero' acquisire la consapevolezza che il diritto puo'
diventare tanto piu' efficace quanto piu' si e' in grado di riconoscerne
i limiti; quanto piu' si e' in grado di confrontarsi a tutto campo, sul
piano culturale e psicologico, etico e simbolico, con i problemi, spesso
tortuosi ed immensamente delicati, rispetto ai quali esso, pur creando
il preliminare e indispensabile terreno per una libera discussione, non
puo' pero' fornire risposte pienamente risolutive.
La soluzione puo' venire solo dall'incessante e instancabile presa di
coscienza delle donne, dal loro coraggio di confrontarsi anche con le
piu' scomode verita' e, soprattutto, da quella capacita' di discutere e
di confrontarsi che rappresenta la permanente testimonianza della loro
voglia di condivisione, della loro capacita' di stare in relazione.
"Usciamo dal silenzio" e' lo slogan che ha attraversato il proliferare
di incontri, manifestazioni, dibattiti seguiti alla manifestazione del
gennaio 2006 in difesa della legge 194. Ma - si potrebbe obiettare - non
l'avevamo gia' fatto in quel lontano 1946? In realta' si tratta di un
compito senza fine che ogni volta si rinnova, deve rinnovarsi, per
tornare a riaffermare quella capacita' di riconoscere e di affrontare
sfide inedite, nella quale risiede il cuore stesso di una rivoluzione
permanente.
Minime. 24 del 10
marzo 2007.
saggio pubblicato su "Iride", n. 49, dicembre 2006.
e_pulcini@philos.unifi.it
http://italy.peacelink.org
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