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La scomparsa del viaggiatore
di Sergio Tardetti

C’era una volta il viaggiatore. Di solito, giovane, benestante e maschio, viaggiava per istruirsi, osservando usi e costumi di altri paesi, per poi far ritorno in patria con l’assoluta certezza di appartenere ad un popolo e ad una civiltà in tutto superiori a quelle visitate. Il viaggio durava mesi, a volte anni, grazie alle notevoli disponibilità finanziarie messe in campo dalla famiglia, ma anche alla lentezza e alla scarsità dei mezzi di trasporto dell’epoca. Questo, se da un lato poteva sembrare un notevole inconveniente, dall’altro consentiva di percorrere quotidianamente distanze ragionevoli, di soffermarsi più a lungo nei vari posti, per tentare almeno di farsi un’idea della gente che vi abitava e delle abitudini che aveva. Inoltre, il viaggiatore disponeva spesso di solidi strumenti culturali, che gli consentivano di leggere la realtà che lo circondava, e di interpretarla, di attribuirle, cioè, un significato, vero o presunto che fosse. Insomma, al ritorno in patria, il viaggiatore era cambiato interiormente, non era più la stessa persona che era partita. Quanto meno, era più disponibile e comprensivo verso i propri conterranei. Cosa è rimasto di questa figura romantica, in un’epoca confusa e convulsa come quella attuale? Praticamente niente. Un tempo, ad esempio, il viaggiatore amava percorrere la sua strada in perfetta solitudine, se si escludeva qualche occasionale incontro con un altro viaggiatore. Oggi, invece, preferisce radunarsi in gruppi sempre più numerosi ed eterogenei. Gente, che ha poco o niente in comune nella vita di tutti i giorni, si ritrova letteralmente intruppata, a dover condividere forzatamente le stesse emozioni. Perché, a conti fatti, si tratta di vere e proprie truppe di occupazione, che si portano dietro, oltre a costose e superaccessoriate macchine fotografiche, atteggiamenti tipici di un esercito invasore: disprezzo per gli abitanti del luogo, fastidio per la loro incapacità di comprendere, non solo la lingua italiana, o quello che ne resta, ma persino quelle curiose cacofonie di ogni buon turista che intenderebbero imitare le sonorità della lingua inglese. A questo si possono aggiungere, come comportamenti tipici, urla e schiamazzi da avvinazzati, scarso rispetto per i sentimenti religiosi degli altri popoli, a causa di una pretesa superiorità delle proprie credenze. Infine, una lunga serie di atti vandalici, che vanno dal “normale” espletamento delle proprie funzioni fisiologiche nei giardini delle Tuileris, alla caccia al piccione in piazza San Marco, fino al lancio della bottiglia vuota sulla scogliera corallina e all’abbattimento a colpi di martello di sculture naturali e artificiali, che avevano resistito fieramente ai secoli e alle intemperie. Sono bastati venti anni di turismo selvaggio e indiscriminato per cambiare la faccia del nostro pianeta.

Se del viaggiatore classico non rimane nulla, cosa resta del viaggio? Solo una parola, vuota più di un guscio vuoto. È più opportuno usare il termine “turismo”, opportunamente prestato dai francesi, per sottolineare che un viaggio, oggi, è piuttosto un “aggirarsi”, ma anche un “essere portati in giro”. Letteralmente, ma anche metaforicamente.
Viaggiare, quando il fine è conoscere il mondo, pretende ritmi lenti, spesso lentissimi, richiede pazienza, tempo e riflessione, tutte condizioni e capacità delle quali sono sprovvisti i vacanzieri e i turisti. Per loro il Medio Oriente si può visitare in quarantotto ore, gli Stati Uniti in otto giorni, viaggio incluso, la penisola scandinava, fino a capo Nord, in un fine settimana. L’importante è inquadrare e scattare, catturare una sequenza di immagini pseudocasuali che, nell’intenzione dell’autore, dovrebbero “raccontare” il viaggio. Non deve assolutamente mancare l’inevitabile foto che riproduce il turista, solo o in compagnia della famigliola o degli amici, sorridente in primo piano, con il monumento icona del paese visitato sullo sfondo (Parigi: la Torre Eiffel, Mosca: il Cremino, Il Cairo: le piramidi, e via fotografando…).

Il turista ama visitare celebri città “da non mancare”, tappe obbligate del curriculum di ogni buon vacanziere, ma anche località esotiche meno rinomate, sulle orme dei suoi idoli del momento, “veline” e calciatori. Forse, piuttosto che “visita”, sarebbe più appropriato dire che “soggiorna”. Le sue visite si limitano, infatti, a luoghi comuni, intesi come luoghi nei quali molti altri sono passati prima di lui, di cui ha sentito favoleggiare dai molti che lo hanno preceduto e la cui conoscenza potrà essere oggetto di condivisione con altri suoi simili.
L’idea che il turista – vacanziere si è fatto dei luoghi da visitare, acquisita e consolidata attraverso il passaparola mediatico, è degna di essere inserita in un vero “Catalogo dei luoghi comuni”, da costruire ispirandosi liberamente al celebre “Dizionario” flaubertiano. Ogni luogo si visita in quanto è incluso nell’elenco delle località “che non devono mancare”, perché, se non ci sei stato, non sei nessuno. La visita a questi luoghi è rassicurante, essendo noti attraverso una loro “Descrizione Semplificata”. Si tratta di una versione particolare e minimalista delle bellezze del luogo, captata attraverso i racconti di chi vi ha già soggiornato La visione dei luoghi, al momento della visita, dovrà perfino suscitare le stesse emozioni, descritte con dovizia di particolari da chi ci è stato prima, e ne ha parlato a lungo al bar aziendale, durante la pausa caffé. Nell’epoca della post - modernità, le emozioni, o sono di massa, o non sono.
Ecco un esempio tra i tanti. Il nostro turista visitando Parigi non potrà non andare al Louvre, dove sa da tempo – ci è andato quasi apposta! - che troverà la famosa “Gioconda” di Leonardo. Non importa che ci siano migliaia di capolavori da ammirare; lui è venuto per mettersi in fila davanti alla Gioconda, come ogni buon turista che si rispetti. Così potrà dire agli amici, quando tornerà, che lui l’ha vista – ecco qui anche l’immancabile foto davanti al quadro! – ma che “è meglio in fotografia che dal vero”.
La bulimia del visitare posti costringe spesso il turista a guardare tutto senza vedere niente, visitando luoghi con la stessa frenesia di chi sta tentando di entrare nel Guinness dei primati “per il più alto numero di immagini catturate in un’ora”.

Nella formazione di una “cultura turistica”, il viaggio di nozze è un momento topico, perché rappresenta per molti l’unica occasione di estendere la propria esperienza a luoghi non consueti. Nella maggior parte dei casi, fino ad allora, ci si era limitati alla settimana bianca, tutto compreso, o a sette giorni al mare “nell’esclusivo villaggio vacanze” sulla costa ionica.
Ecco, finalmente, concretizzarsi la possibilità di uscire dalla ristretta cerchia delle esperienze di vacanza tipo. Per la maggior parte delle coppie, la luna di miele si svolgerà in località esotiche, ad esempio Caraibi o Maldive, luoghi nei quali riaffiora la vera anima del turista. Gli sposini pretendono – o sarebbe meglio dire, esigono - di ritrovare le stesse condizioni degli alberghi a mezza pensione di Rimini o Cattolica, dove spesso hanno trascorso la loro infanzia e ne custodiscono la memoria, ormai indelebile come una specie di imprinting. L’unico ricordo che sopravvive al ritorno, sbiadita ormai l’abbronzatura, è quello del “gran caldo che si è sofferto”.

Viaggiare nei paesi a rischio è diventata un’esperienza che non deve assolutamente mancare al turista per forza, meglio se condita con l’emozione di una rapina, di un sequestro di persona a scopo di estorsione o il ribaltamento dell’auto nella quale viaggia, preferibilmente in pieno deserto. Forse è proprio vero che la vita quotidiana è vissuta come un carcere, e genera solo frustrazione e desiderio di evadere.
Se, per ipotesi, il nostro turista dovesse recarsi a Santo Domingo, oltre ad osservazioni relative al fatto che gli abitanti del luogo sono “diversi”, potrebbe azzardare arditi paragoni tra le toilettes del residence presso il quale ha alloggiato e le omologhe del residence, poniamo, di una “sperduta” località dello Sri Lanka, dove ha avuto modo di soggiornare l’estate precedente.
In merito al cibo, il turista sa senz’altro dire se nel tale luogo “si mangia bene” oppure no, specie se è un nostro connazionale, che pretende - perché lui paga! – di trovare la pizza anche nella più sperduta delle isolette del Pacifico. Può transigere, anche se con molta difficoltà, sul fatto che gli indigeni “non capiscono l’inglese”, o che ci siano problemi a farsi una doccia decente in pieno Sahara, ma la pizza no! Non gliela devono far mancare. Se i cibi del luogo contengono spezie, delle quali i ristoratori locali sembrano non poter fare a meno, o quantità consistenti di cipolla, a volte quasi l’ingrediente principale dei piatti tipici del Mediterraneo, il nostro turista, dando fondo a tutte le risorse del suo inglese approssimativo e imparaticcio, riuscirà solo ad ottenere l’effetto opposto a quello desiderato. Alla sua richiesta di “no onion” riceverà dosi massicce di cipolla affettata a grossi pezzi e condita con le salse più piccanti che il menu locale propone.

Il turista torna da ogni viaggio con sempre maggiori certezze: ad esempio, che in Egitto ci sono le piramidi. Glielo avevano perfino detto a scuola, ma, adesso che le ha viste di persona, ne è più convinto. È certo anche che nel deserto non c’è proprio niente, neanche un autogrill o una stazione di servizio. Anche questo glielo avevano detto, ma adesso lo ha visto con i suoi occhi e, naturalmente, potrà confermare a conoscenti stupiti e increduli che “è tutto vero”.
Tornano dai safari parrucchiere ed elettricisti, cassiere di supermercati e benzinai. Cercano qualcosa che nella loro vita quotidiana non c’è stato mai: l’avventura, l’evasione da una vita di ininterrotta routine. Si trascinano dietro enormi valigie, zeppe di abiti fuori luogo ed accessori assolutamente inutili. Tentano la discesa nei recessi del Grand Canyon dondolandosi su graziosi zoccoletti più adatti alle passeggiate a mare della riviera adriatica. Si avventurano nella giungla abbigliati come se uscissero per una gita in Costa Smeralda.
Alla fine, per mascherare quel senso di insoddisfazione, che anche l’ultimo viaggio non è riuscito a cancellare, invitano amici e conoscenti a visionare le centinaia di filmati amatoriali, ripresi con l’ultimo modello di videocamera digitale, acquistata per l’occasione. “E’ stato così difficile tenere in carica le batterie!”, commentano con aria di soddisfazione. Potenza del turismo! L’avventura, oggi, non consiste più nel partire alla scoperta delle cascate Vittoria, ma nella ricerca di una presa di corrente, compatibile con il caricabatterie della propria videocamera.
 

 
 

 

 
 

agli incroci dei venti, 11 dicembre 2006

 

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