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Le politiche
della paura
di
Paolo Pobbiati*
Il Rapporto Annuale 2007
di Amnesty International Di Paolo Pobbiati, presidente della Sezione
Italiana di Amnesty International
Se, come abbiamo
fatto negli anni precedenti, andiamo a cercare una immagine che possa
fotografare la situazione dei diritti umani descritta da questo Rapporto
Annuale, oggi è quella della lente deformante della paura.
La paura è il sentimento più diffuso nel mondo.
La paura è reale. È quella di chi vive privato della propria sicurezza,
di chi rischia ogni giorno di entrare a far parte del computo delle
vittime di un conflitto o di un attentato, di chi è costretto a lasciare
la propria casa e il proprio paese per fuggire da guerre o carestie, di
chi non sa cosa potrà mangiare e dare da mangiare domani ai propri
figli.
Ma è anche la paura di chi rischia ogni giorno di essere schiacciato dai
sistemi repressivi messi in atto dal proprio governo o di essere
travolto da quei giganteschi tritacarne che sono le politiche
antiterrorismo. E poi c’è la paura di chi, ritenendosi affrancato da
tutto ciò, teme di perdere il suo benessere e la qualità della propria
vita.
Quello che vogliamo denunciare con forza in questa occasione è che
questa paura è un elemento di una strategia politica. Esasperando e
manipolando questo sentimento, numerosi governi hanno introdotto misure
liberticide e hanno portato avanti, spesso con successo, il disegno di
erodere, e far considerare superato e inadatto ai tempi, il sistema di
protezione dei diritti umani.
Così, abbiamo assistito in questi ultimi mesi a vari tentativi di
legittimazione di una sorta di zona grigia, largamente applicata nel
mondo e per cui paiono fare il tifo anche commentatori ed esponenti
politici del nostro paese, dove alcuni fra i diritti umani possono
essere sospesi in nome dell’emergenza e della sicurezza. Una sorta di
ossimoro dei diritti, che pretende di negarli per poteri difendere. La
tortura è l’esempio più evidente: il Rapporto Annuale 2007 denuncia la
sua pratica in 102 paesi, più della metà del mondo.
Soffermiamoci a guardare cosa è stato sacrificato in nome della
sicurezza, e confrontiamolo con i risultati ottenuti: delle decine di
migliaia di persone arrestate qua e là nel mondo nel contesto della
“guerra al terrore”, pochissime sono state portate di fronte a un
tribunale e quando ciò è avvenuto, le procedure seguite sono state
manifestamente inique.
L’adozione dell’Atto sulle commissioni militari, da parte del Congresso
degli Stati Uniti, che conferma l’utilizzo di tribunali militari e di
procedure molto lontane dagli standard internazionali per gli accusati
di terrorismo, è l’esempio più evidente di quella parodia della
giustizia che ha il volto visibile di Guantanamo, che è ormai il simbolo
di una catena di violazioni dei diritti umani composta da rapimenti,
arresti, detenzioni arbitrarie, sparizioni, torture e trasferimenti di
sospetti da una prigione segreta all’altra del pianeta, in un contesto
marcato dall’illegalità e dall’impunità.
Ma esattamente come per chi guarda la realtà come da un cannocchiale
girato dalla parte sbagliata, i risultati di questo sistema di
violazioni dei diritti umani non soltanto hanno ampiamente dimostrato i
loro limiti e la loro scarsa efficacia, ma hanno evidentemente avuto
l’effetto di amplificare quelli sono i motivi di odio e risentimento in
un mondo che pare sempre più una fabbrica del rancore. La paura alimenta
le divisioni in tutto il mondo, tra nazioni e tra comunità, tra ricchi e
poveri, tra abbienti e nullatenenti, tra nativi e stranieri, tra
musulmani e cristiani, tra arabi e occidentali, tra “noi e loro”.
Gli artefici di questa strategia sono diversi, così come le loro
finalità, ma ben visibili: sono i gruppi armati che utilizzano gli
attentati e le uccisioni indiscriminate per controllare territori e
terrorizzare popolazioni; sono i governi autoritari che della paura
fanno uno degli elementi principali per mantenere il proprio potere, ma
sono anche i governi dei paesi ricchi e democratici che, anziché farsi
promotori di politiche che possano realmente risolvere i problemi
globali, agitano gli spettri dell’insicurezza, della minaccia portata da
nemici invisibili che vengono da fuori. Lo fanno utilizzando la
comunicazione, la propaganda xenofoba, attizzando a compiere crimini
dell’odio. In questo modo, hanno buon gioco nel giustificare limitazioni
altrimenti inaccettabili della libertà personale.
Proprio come quando si guarda dentro una lente deformante, si perdono di
vista le reali cause dell’insicurezza globale: la fame, la povertà, i
conflitti armati. Proviamo a confrontare quante risorse sono impegnate
nelle politiche antiterrorismo o nel cercare di istituire barriere alle
frontiere o in mezzo al mare per contenere il flusso di coloro che
cercano, attraversandoli, l’opportunità di una vita migliore, e quanto
invece i paesi ricchi e progrediti investano in programmi di sviluppo, e
avremo una indicazione di quanto le politiche della paura siano miopi e
ipocrite.
Per ogni dollaro investito nello sviluppo, ve ne sono dieci sperperati
in armi. I 22 miliardi di dollari spesi ogni anno dai paesi in via di
sviluppo per comprare le armi dai paesi membri del Consiglio di
Sicurezza, potrebbero essere sufficienti per mandare a scuola tutti i
bambini di Asia, Medio Oriente, America Latina e Africa e ridurre di 2/3
la mortalità infantile entro il 2015.
Dominata dalla sfiducia e dalla divisione, la comunità internazionale è
rimasta troppo spesso tiepida o impotente di fronte alle grandi crisi
dei diritti umani:
• l’Hiv/Aids, che nel 2006 ha ucciso 2.100.000 persone;
• la povertà: una persona su sei nel mondo vive con meno di un dollaro
al giorno, ma in compenso ha a disposizione ben due pallottole;
• la violenza nei confronti delle donne, di cui nel 2006 abbiamo
denunciato l’impressionante incidenza in numerosi paesi (in Guatemala ne
sono state uccise 580) e particolarmente tra le mura domestiche: 1 donna
su 3 nel corso della sua vita ha subito o subirà violenza ad opera del
proprio partner
• i conflitti dimenticati di Cecenia, Colombia e Sri Lanka o quelli,
meno dimenticati ma questa è una magra soddisfazione per le vittime, del
Medio Oriente.
Le Nazioni Unite hanno impiegato settimane prima di riuscire a chiedere
il cessate il fuoco nel conflitto in Libano, in cui hanno perso la vita,
da una parte e dall’altra della frontiera israelo-libanese, circa 1300
civili. La comunità internazionale non ha mostrato coraggio, e non lo
mostra ancora oggi come le drammatiche cronache di questi giorni ci
ricordano, nell’affrontare la disastrosa situazione dei diritti umani
provocata dalle gravi restrizioni alla libertà di movimento imposte ai
palestinesi dei Territori occupati, dagli incessanti attacchi
dell’esercito israeliano e dagli scontri tra le fazioni palestinesi.
Sono ancora molte le ferite sulla coscienza del mondo, che restano
aperte e sanguinanti grazie ai doppi standard che gli Stati più potenti
applicano: la situazione in Darfur non accenna a migliorare, nonostante
i primi mandati di cattura emessi dalla Corte penale internazionale.
Dopo oltre 200.000 vittime e più di due milioni di profughi e sfollati
interni, la prospettiva oggi è quella di assistere a un allargamento
della crisi con il coinvolgimento di paesi confinanti, come il Ciad e la
Repubblica Centroafricana. A fronte di crimini di guerra e contro
l’umanità commessi dal governo sudanese e dalle squadre della morte dei
janjawid, a fronte di decine di migliaia di casi di stupro, abbiamo la
miseria di nove persone incriminate, di cui zero condannate.
In Afghanistan, la comunità internazionale e il governo locale hanno
perso l’opportunità di costruire uno Stato realmente basato sui diritti
umani e sullo stato di diritto, lasciando la popolazione in uno stato di
insicurezza permanente e di corruzione e in balia del ritorno dei
Talebani. Il caso di Rahmatummah Hanefi è emblematico del lavoro che c’è
da fare e che spetta anche all’Italia, incaricata della rielaborazione
del codice penale afgano. È inaccettabile, e lontano da qualunque
standard internazionale, che una persona rimanga per 60 giorni in
carcere, senza accusa né processo e senza potersi difendere, senza poter
incontrare i propri parenti e senza poter decidere una linea difensiva
con un avvocato di propria scelta.
In Iraq, le forze di sicurezza hanno favorito la violenza settaria
piuttosto che frenarla, il sistema giudiziario si è rivelato
profondamente inadeguato e le pratiche del regime di Saddam Hussein –
torture, processi iniqui, pena di morte e stupri nell’impunità – sono
rimaste in auge. A milioni hanno lasciato o stanno lasciando il paese.
Le fotografie di Francesco Zizola ce lo ricordano drammaticamente.
Agitare la paura per la sicurezza nazionale si è rivelato uno strumento
efficace anche per inasprire le tradizionali forme di repressione del
dissenso e di libertà fondamentali come quella di espressione e di
associazione: scrittori, giornalisti, attivisti politici e difensori dei
diritti umani sono finiti in carcere o sono stati assassinati in decine
di paesi. Il Rapporto Annuale di Amnesty International segnala
prigionieri di coscienza, o probabili prigionieri di coscienza, in 57
paesi. In Iran, Vietnam, Zimbabwe, Cuba, Turchia, Myanmar, Bielorussia,
Russia, solo per citare alcuni paesi, le voci indipendenti sono state
pressoché ridotte al silenzio.
Assistiamo ancora alle promesse non mantenute dalle autorità cinesi,
impegnatesi ad intraprendere un percorso virtuoso in vista dei prossimi
Giochi Olimpici: “Assegnando a Pechino i Giochi, aiuterete lo sviluppo
dei diritti umani”, aveva detto nell’aprile del 2001 Kiu Jingmin,
vicepresidente del comitato per le Olimpiadi a Pechino.
A poco più di un anno di distanza dall’apertura dei Giochi, non è
cambiato quasi nulla: le politiche repressive sono quelle di sempre e
colpiscono dissidenti, minoranze etniche e religiose, avvocati,
difensori dei diritti umani e sindacalisti che cercano di difendere
coloro che rimangono tagliati fuori dai benefici del boom economico,
spesso taglieggiati da funzionari corrotti o marginalizzati nel mercato
del lavoro e che oggi si vedono negati diritti fondamentali, come quello
all’assistenza medica o all’istruzione dei figli. Anzi, ci troviamo
ancora a denunciare un aspetto della globalizzazione delle violazioni
dei diritti umani, che è quello che riguarda internet e che vede pesanti
connivenze e responsabilità da parte di aziende occidentali.
Con una campagna che partirà qui in Italia a fine anno, Amnesty
International cercherà di approfittare delle luci della ribalta sportiva
per spingere il governo cinese a riforme profonde nel campo dei diritti
umani e per chiedere alla comunità internazionale di rimanere accecata
dalle opportunità economiche che questo gigantesco mercato offre.
Ma di fronte a questo continuo giocare sulla paura, quali sono le
alternative che possano realmente incidere sui diritti umani e sulla
legalità sia a livello nazionale che internazionale?
Il messaggio di quest’anno di Amnesty International è chiaro. Così come
si è riconosciuto che è necessario un impegno comune e condiviso per
contrastare il riscaldamento globale, allo stesso modo il mondo ha
bisogno di un investimento a lungo termine nei diritti umani, un impegno
globale e condiviso, che quanto mai oggi si presenta come l’unica strada
per puntare a soluzioni durature. Ma ci vuole coraggio per intraprendere
un tale cammino.
Questo coraggio lo ha avuto il popolo nepalese che ha posto fine a un
conflitto durato più di dieci anni. Sì, perché ci vuole più coraggio a
deporre le armi che non a impugnarle. Lo ha fatto da solo, senza che la
comunità internazionale, come al solito distratta e assente, avesse dato
un contributo significativo.
Ha avuto coraggio il governo filippino, che nella Pasqua del 2006 ha
realizzato la più grande commutazione di pena di morte della storia,
sottraendo più di 1200 persone alla mano del boia e abolendo poche
settimane dopo la pena capitale, primo paese dell’Asia e 99mo paese al
mondo. Ci auguriamo che lo stesso coraggio possa essere dimostrato
nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite quando verrà presentata la
proposta per una moratoria delle esecuzioni, che se venisse approvata
sarebbe un altro importante passo su questo lungo e difficile percorso.
Ma il 2006 è stato caratterizzato anche da altri momenti di assunzione
di responsabilità e di coraggio. Il rapporto del Consiglio d’Europa e
successivamente quello del Parlamento Europeo hanno portato alla luce
uno dei fenomeni più inquietanti degli ultimi decenni: quello delle
extraordinary renditions. 1245 voli della CIA hanno attraversato gli
spazi aerei e usato gli scali della maggior parte, secondo l’indagine
del Parlamento europeo, dei paesi del nostro continente.
Ora ci aspettiamo che questi paesi pongano in atto tutti gli strumenti a
loro disposizione per fare chiarezza su questo fenomeno e per portare
davanti a un tribunale chi si è macchiato di azioni al di fuori della
legge, dimostrando il coraggio di chi è risoluto nel contrapporre alla
barbarie del terrorismo le armi della legalità e della giustizia, e non
è disposto a tollerare nessuna altra via.
Un altro passo avanti, e di straordinaria importanza, è stato fatto il 7
dicembre, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dato il via
libera alla stesura di un trattato internazionale che finalmente possa
regolamentare la vendita di armi convenzionali. Lo ha fatto con una
maggioranza schiacciante: 153 si e un solo no, da parte degli Usa.
Questo risultato lo abbiamo ottenuto noi di Amnesty, insieme a Oxfam e
alla Rete internazionale d’azione sulle armi leggere, con la campagna
Control Arms, svolta in Italia anche dalla Rete italiana per il disarmo.
Ma lo hanno soprattutto ottenuto 1.250.000 persone che hanno aderito a
questa campagna. È la prova che l’opinione pubblica ha coraggio, vuole
un cambiamento.
Ci auguriamo che una così forte presa di coscienza a livello
internazionale possa esprimersi in un trattato realmente efficace ma
soprattutto in un diverso approccio da parte dei governi che li porti
non soltanto a considerare le esportazioni di armi come uno strumento
per aumentare il prodotto interno lordo, ma come una delle cause
principali della violenza e dell’impossibilità di accedere a un reale
sviluppo in molte fra le zone più povere e disastrate del pianeta. Fra
qualche anno ci accorgeremo di quanto questo passo sarà stato importante
per ottenere cambiamenti sostanziali in molti paesi del mondo.
E’ di questo coraggio, e non di alimentare altra paura, di cui abbiamo
bisogno per andare avanti verso un futuro migliore.
Un coraggio che noi per primi vogliamo mostrare il 3 giugno a Riga. Soci
di Amnesty International provenienti da undici paesi, Italia compresa, e
compreso chi vi parla, si recheranno nella capitale della Lettonia per
solidarizzare con gli organizzatori e i partecipanti al Pride e
garantire, con la loro presenza, un minimo di protezione e di sicurezza.
Per far vedere che non abbiamo paura!
*
Scritto per PeaceReporter
PeaceReporter, 23 maggio 2007
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