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Buoni a nulla: i ničevoki
di Antonio Castronuovo
 

Nichilista russoMentre prendeva corpo la società sovietica, le avanguardie russe del primo Novecento si disperdevano, tirando a campare in tralci denutriti e segaligni, dai quali però stillava una linfa virulenta intrisa di anarchia, individualismo e nichilismo. Erano gli immaginisti, gli zaumniki, gli espressionisti, gli oberiuty, i seguaci di Malevič, i fuisty, i ničevoki. Questi ultimi, soprattutto, furono radicali nichilisti, come il nome stesso – che origina dalla parola russa ničegò (niente) da pronunciarsi ničevò – addita, il nome con cui si erano deliberatamente battezzati e che si potrebbe anche tradurre come “nullisti”. A Mosca, tra il 1921 e il 1923, produssero ciò che di più originale resta di loro: manifesti e proclami riuniti in due volumi siglati come “Edizioni della cassetta dei cani”. Sì, proprio così, cani: forse per emulazione e deferenza vero i cinici, gli antichi randagi, gli uomini indifferenti a ogni bisogno, a ogni lusinga della materia e della carne.
Il gruppo era germogliato nel 1920 a Rostov, sul Don, animato dai giovani poeti Rjurik Rok, Devis Umanskij, Sergej Sadikov, Susanna Mar, Aleksandr Ranov, Elena Nikolaeva, Oleg Erberg e qualche altro. Nel gruppo, Rjurik Rok fu la figura di maggiore spicco. Si chiamava in realtà Rjurik Gering, ma lo pseudonimo suonava, alle orecchie russe, come Rjurik il Destino. Voleva infatti incarnare un destino: giovane di aspetto seducente, un po’ effemminato, era freneticamente attivo, insolente, anche tracotante, come si addice a chi voglia fare avanguardia. Ebbe la sfacciataggine di annunziare pubblicamente di non volerne più sapere della poetessa Susanna Marr, sua moglie, quando lei aveva abbandonato la linea nullista per passare a quella degli immaginisti.
La notorietà dei poeti si era presto diffusa, anche grazie ai modi che usavano. Un testimone ricorda che «facevano un gran baccano, in ogni angolo leggevano i propri versi e non appena si profilava l’occasione li stampavano anche. Erano diventati così famosi che la gente chiamava ničevoki tutti quelli che in città facevano poesie». E alla poesia ci credevano, come a una funzione vitale della comunità, tanto che erano riusciti a convincere un buon ristorante di Rostov ad offrir loro ogni giorno un pasto. Probabilmente la gente di Rostov credeva che tutti i poeti fossero ničevoki perché tutti vi andavano a sbafare gratis, quando invece il pasto gratuito spettava solo ai nullisti genuini. Ma quando lo spasmo della fame rende urgente mettere qualcosa nello stomaco è facile aderire d’un colpo al nullismo.
La vera essenza di questi chiassosi nichilisti la colse lo scrittore Andrej Belyi, quando disse di loro che erano come «pulci in una casa deserta, i cui padroni se ne sono andati per l’estate. I padroni se ne sono andati e non è restato nulla. È rimasto solo il nulla e s’è accomodato ben bene». Insomma: erano il nulla che si faceva voce, che si trasformava in annuncio chiassoso, che diventava messaggio, anche buon messaggio, tanto che qualcuno cominciò a dire, con definizione azzeccata, che i ničevoki erano dei veri buoni a nulla, erano cioè molto bravi a generare il nulla. Nichilisti attivi dunque, convinti che tutto sia nulla e tuttavia, invece di abdicare a ogni gesto, inclini a mutarsi in attivi produttori di nulla: soggiogati dalla seduzione del vuoto ne diventavano efficienti artigiani.
Come per tutti i movimenti che si rispettino, anche a Rostov fu individuato una tana del lupo, il Kafe poetov, cioè il Caffé dei poeti. Era piuttosto caro ma sempre pieno, aperto a tutti. Pullulava soprattutto di poeti, pittori, musicisti e cantanti. Nel locale la poesia era un numero d’attrazione; la fama si sparse e cominciarono a giungere poeti anche da Mosca, come Esenin o Chlebnikov. Spopolavano alcune gare poetiche speciali: quelle in cui ai nullisti si opponevano i miraklery, vale a dire i miracolisti, che reputavano la poesia un evento soprannaturale, una sorta di rivelazione che, dall’alto, calava sulla testa degli artefici e ne suscitava versi.
Non passò molto tempo che cominciarono a pullulare manifesti e proclami dei ničevoki. Alla loro prima raccolta poetica, Vam (A voi), era anteposto un manifesto programmatico che inneggiava alla lungimiranza dei nullisti, i soli ad aver saputo prevedere la paralisi della poesia, e che ora ne constatavano il fatale decesso. Il manifesto si apre con l’incedere di un misero corteo funebre, accompagnato dai rintocchi di una campana; appare il catafalco su cui, cereo e smunto, giace il cadavere della poesia: «Dietro arrancano e si trascinano, deglutendo lacrime in silenzio, canuti vecchierelli: sono i veterani e gli invalidi della poesia, vacillanti nelle annose, malferme, tremolanti membra; da ultimi strascicano le loro gambe gli insolenti fra gli insolenti della defunta poesia, i futuristi di tutte le risme, gli immaginisti, gli espressionisti, gruppi, gruppetti, gruppuscoli».
La poesia era dunque morta, questo vedevano i nullisti, ma non ne erano afflitti, anzi: si sentivano spronati ad agire affinché non risorgesse mai più, come indicava un altro loro straordinario proclama, il Decreto sulla poesia che, stampato a cura del cosiddetto “Ufficio creativo dei ničevoki”, si distingue per forza nichilista. In nome della “Rivoluzione dello Spirito” veniva dichiarato l’annullamento, da quell’agosto del 1920, di «qualsiasi poesia che non permette un atteggiamento individuale da parte del creatore, che non definisce una concezione particolare del mondo, propria di quell’unico creatore». Chiunque fosse stato colto «nell’atto di diffondere i segni annullati della poesia o nell’imitare i segni della poesia dei ničevoki» sarebbe stato processato da un sedicente “Tribunale rivoluzionario dei ničevoki”.
Primi a sollevare un’insurrezione a favore del niente, i nullisti affermano che «è tempo di ripulire la poesia dall’elemento tradizionale e artigianalmente-poetico (vero e proprio mucchio di concime) della vita», e farne emergere la maschera del nulla. Convinti che ogni ulteriore affinamento avrebbe dissipato l’arte, dichiarano che il loro scopo è dunque di «affinare la creazione poetica in nome del nulla». Per cui la parola d’ordine diventa: «Non scrivete niente! Non leggete niente! Non dite niente! Non stampate niente!». Perfetto proclama di nichilismo compiuto: la poesia giunge alla sua massima definizione nichilista quando, appunto, convince il poeta a non scrivere più nulla, non leggere più nulla, non stampare più nulla.
Ma il proclama nichilista era diretto a tutti: la lotta era rivolta contro la tradizione, i dogmi, la consuetudine, l’uniformità del quotidiano. Il dichiarato imperativo avanguardistico era di soffocare l’arte e annullarla, spingerla nel baratro e non cantarne nemmeno la morte. L’operazione da compiere era vasta, gli edifici da abbattere tanti, per cui ai nullisti della poesia si affiancarono i nullisti della vita, i cosiddetti “chobo”, che sta per “incalliti barboni e vagabondi rivoluzionari”, coloro che non essendo visitati dalla musa poetica potevano comunque agevolare la diffusione delle idee, lavorare al fine di disgregare le “belle lettere”, diffondere il terrore verbale.
L’impressione è quella di trovarsi tra gente di forza inaudita, e invece la grandiosità del messaggio nichilista sorge da anime esulcerate, pavide. In una sua quartina, il ničevok Aecij Ranov esprime bene la forma mentale del nullista: «Domani voglio provare di spaccare l’arte / Dammi una mano, ti prego, compagno Lenin, / altrimenti, tanto sono sciocco, rischio di finire / in una gora di nuda e disperata tristezza». In altre parole questi nichilisti estremi, questi sommi individualisti, cercavano l’appoggio carismatico di una figura esterna, e Lenin era a portata di mano...
A Rostov lo strepito durò un anno appena: alla fine del 1920 i nullisti si trasferirono in massa a Mosca, eleggendo a loro quartier generale il reticolo di vicoli e tuguri attorno al mercato Chitrov, traboccante di furfanti e prostitute, dove vissero da emarginati e derelitti. Per due anni lanciarono fogli unti e sbrindellati che chiamavano “decreti” e pubblicarono opuscoli poetici altrettanto sbrindellati.
Ma lanciarono anche provocazioni e ingiurie contro tutti quelli che nella poesia mescolavano ideologia e politica. La loro pecora nera fu Majakovskij, la canaglia Majakovskij, colui che nel gennaio 1922 aveva concepito la necessità di una purga della poesia contemporanea. Faceva la sua comparsa nel mondo dell’arte una parola spietata, che avrebbe tenuto banco a lungo nella storia sovietica: purga. Majakovskij aveva forse le sue buone ragioni a biasimare – anche aspramente – l’intera galassia dei gruppuscoli poetici sorti dal fermento della rivoluzione. Lanciò un pubblico verdetto contro i nullisti: i loro versi dovevano essere strigliati nella tinozza della rivoluzione e loro, i poeti, erano condannati «a procurargli le sigarette per tre mesi».
Ai nullisti questo non andò giù: Majakovskij poteva pensare che dal suo punto di vista si trattasse di gente non degna della poesia, ma affermare che erano estranei alla letteratura sovietica era troppo. Nella stridula cagnara che ne seguì i nullisti sostennero che non aveva alcun diritto di prospettare purghe: la poesia non tollera depurazione alcuna, è poesia e basta. La questione giunse a maturazione circa vent’anni più tardi, quando sulla “Pravda” del 21 settembre 1946 Andrej Zdanov, artefice della purga vera, si riferì ai movimenti anarchici e nichilisti postrivoluzionari chiedendosi quale traccia ne restava in ciò che definiva la «genuina letteratura russa sovietica».
Nonostante l’ardore delle polemiche e delle provocazioni, nel 1923 il movimento dei nullisti si disciolse. Scomparvero senza aver mai davvero esercitato una qualche influenza sull’evoluzione della poesia russa, né come poeti e né come teorici. Resta di loro il ricordo di uomini radicalmente amanti del nulla. Scomparvero proprio nel momento in cui nasceva “Lef”, la rivista del detestato Majakovskij. Su quella strada s’incamminava l’avanguardia russa: tragitto in cui il dadaismo nichilista non aveva spazio. In tanti all’epoca, contro il tumulto nullista, pensavano che la grande opera di annientamento era già stata realizzata – e molto più radicalmente – dalla rivoluzione. Ma forse confondevano il ribaltamento sociale con l’oscura efficienza del nichilismo, una cantonata che molti hanno preso. E continuano a farlo.

 

 


 

 
 

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agli incroci dei venti, 15 agosto 2006

 

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