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Aboliamo la
scuola?
di
Antonio Orlando
Ogni mattina un piccolo
esercito di uomini e donne, animati da indomita passione e consci della
loro missione civilizzatrice, fa il suo solenne ingresso in austeri
edifici pubblici rigurgitanti di adolescenti e di giovani virgulti
italici, per spargere a piene mani il sapere e la conoscenza e forgiare
così i futuri cittadini della Nazione. Tranquilli, stavo scherzando.
Questo è l’incipit della voce “insegnamento” nella “Grande Enciclopedia
Pratica della casa” edita da Garzanti nel 1937.
Oggi i professori – di più le professoresse – continuano a fare il loro
ingresso, in verità molto dimesso e sempre più stanco, nelle aule, ma
assomigliano ad un esercito in rotta che ha, da tempo, ceduto ogni
proposito battagliero. E del resto quale entusiasmo vi può essere in una
professoressa che, tutte le mattine, con il pullman o con la propria
macchina, dopo aver percorso magari un'ora di strada, si va ad infilare
in aula per spiegare Aristotele o la perifrastica passiva o la Nota
integrativa o un qualsiasi altro argomento a venticinque adolescenti in
tumulto e del tutto disinteressati alle sue parole? Poi uscirà, intorno
alle 14.00, per tornare a casa, cucinare, fare la spesa, lavare e
stirare e, a sera, sedersi a correggere compiti sgrammaticati e senza
senso, preparare lezioni e cercare pure di aggiornarsi ed informarsi. Il
tutto per uno stipendio che, dopo quindici anni di ininterrotto
servizio, supera appena i mille euro. Ma chi glielo fa fare? Questa
domanda rischia di non avere risposta o, come pensava Beniamino Placido
già quindici anni fa, l'unica risposta sensata non potrebbe essere altra
che quella contenuta nel titolo.
Il bello è che uno degli editorialisti di punta del Corriere della sera
– Geminello Alvi -, in un suo recentissimo saggio, classifica lo
stipendio degli insegnanti tra le rendite alla pari con i capital gain,
con gli affitti di immobili e i dividendi azionari. Peccato che poi non
concluda, come il Prezzolini di novant'anni fa, che sarebbe meglio
abolire completamente la Scuola. Inseguire l'opinione corrente su questo
terreno non porta a grandi risultati. I luoghi comuni, si sa, sono duri
a morire: gli insegnanti sono dei fannulloni, lavorano, sì e no, quattro
ore al giorno, hanno tre mesi di ferie pagate, ferie a natale e a
pasqua, gite gratuite (ed osano pure divertirsi), sono ignoranti, sono
retrogradi, non sanno usare il computer e, in buona sostanza, per quello
che fanno, guadagnano anche troppo. Sono dei privilegiati, dei rentiers,
appunto. La diffusione di questi stereotipi autorizza chiunque a parlare
di scuola, a discettare sulla didattica e sull'organizzazione scolastica
anche se, a stento, ha conseguito la terza media e anche se non ha mai
messo piede in un'aula. Forse si sente autorizzato dal fatto che i
propri figli frequentano una scuola o forse perché gli hanno fatto
credere di essere diventato utente e compartecipante ( azionista ?)
della struttura scolastica. Fatto sta che di scuola si parla ovunque, al
supermercato, dal parrucchiere, in ufficio, negli ospedali, ai giardini
pubblici meno che nel luogo a ciò deputato: la Scuola.
Tant'è che è passata una riforma, definita dal ministro “storica”,
“epocale” ed “innovativa” ( “rivoluzionaria” la Moratti non lo direbbe
mai), senza che gli insegnanti lo sapessero, senza che gli insegnanti
siano stati consultati o, anche, semplicemente informati. I diretti
interessati non hanno mai potuto discutere del loro lavoro, della
didattica, dell'organizzazione scolastica, del rapporto con gli
studenti, del rapporto con le famiglie, con la società, con gli enti
territoriali, con i sindacati, con le università e con il c.d. “mondo
del lavoro”.
I docenti vengono trattati come degli esecutori di ordini ai quali
bisogna spiegare le cose fin nei minimi particolari perché o è gente che
ha la testa tra le nuvole o è gente che svolge un compito (insegnare non
è un lavoro, nei tempi belli era, tutt'al più, “una missione”)
evanescente e perciò bisogna ancorare a solide e rigide norme di
attuazione la loro (presunta) prestazione lavorativa.
Solo così si spiega l'enorme catasta di carta e moduli che gli
insegnanti sono chiamati a riempire quasi quotidianamente perché la loro
attività (continuo a sostenere che insegnare non è considerato un
lavoro) in questo modo, si oggettivizza, si concretizza e, quindi, si
realizza. Le ore di lezione non contano, il diuturno dialogo con i
propri studenti sono solo chiacchiere, il tentativo di impartire
un'educazione è solo perdita di tempo e puro velleitarismo, quello che
conta sono le carte, come dicono spesso i presidi, ora diventati
“dirigenti scolastici”, che devono essere sempre “in perfetto ordine”.
Se si riflette seriamente sull'organizzazione del lavoro scolastico non
si può fare a meno di notare che esso è fondato su due esclusivi
pilastri: i docenti e i discenti, dietro questi fino ad un certo punto –
diciamo fino all'attuale biennio della scuola superiore - ci dovrebbero
essere le famiglie. Tutto il resto, comprese le segreterie, i bidelli, i
tecnici, ecc. sono inutili ed ininfluenti orpelli dei quali, se vogliamo
esasperare il discorso, si potrebbe anche fare a meno. Invece, la
centralità dell'insegnamento è stata completamente dimenticata e viene
subordinata alla ricerca di una efficienza di stampo burocratico che
vede nei dirigenti scolastici, contemporaneamente, il vertice ed il
terminale della struttura.
Aver trasformato il vecchio preside in un dirigente e pretendere di
farne un manager ha significato stravolgere dalle fondamenta
l'organizzazione di trasmissione del sapere. E' incontestabile che non
si poteva restare fermi, per dirla in modo molto semplice, “alla penna e
all'abbecedario”, dal momento che le nuove tecnologie hanno trasformato
il nostro rapporto con la conoscenza, la cultura, la scienza ed il
sapere. In una parola, hanno trasformato la nostra vita. Tuttavia
pretendere di strutturare la scuola come fosse un qualsiasi ufficio
pubblico, pretendere di creare una gerarchizzazione interna dei suoi
componenti, pretendere di suddividere, parcellizzare e frammentare il
lavoro dell'insegnante, pretendere di burocratizzare il rapporto con le
famiglie (perfino la Corte di Cassazione ha riconosciuto che le
famiglie, al momento dell'iscrizione dei propri figli, concludono un
contratto e quindi l'attività di insegnamento rientra tra le prestazioni
di tipo contrattuale, il che è tutto dire) significa rinunciare alla
“educazione” dei giovani a favore di una generica formazione
professionalizzante che, tutt'al più, ci darà dei perfetti robot
incapaci di pensare però bravissimi nell'eseguire.
Si dirà che i giovani oggi sono troppo distratti da altre cose, che
hanno troppo, che sono svagati, indifferenti, menefreghisti, insicuri,
fragili e chi più ne ha più ne metta. Molti sostengono che è il docente
che deve “motivarli”, interessarli, spronarli allo studio per cui
qualsiasi fallimento o qualsiasi insuccesso è addebitabile al docente
stesso, il quale non sa insegnare, non sa esporre, non ha metodo, non ha
strumenti con i quali “relazionarsi” con gli studenti. Su tutto questo
si potrebbe aprire una discussione nel merito e ciascun docente, forte
della propria esperienza, potrebbe offrire un valido contributo, ma non
è questo il punto. Che esista una problematica metodologica
dell'insegnamento è questione immensa, non risolvibile certo con un
articolo e neppure con un saggio in materia. Questo, però, non preoccupa
minimamente né il ministero né i dirigenti, a loro non interessa la
didattica, a loro interessano altre cose.
Il punto è che gli insegnanti, prima sono stati beffeggiati, umiliati ed
isolati e poi sono stati lasciati soli e trasformati in piccoli caporali
all'interno di un esercito che vede sottocapi e capetti, sergenti ed
ufficiali, tutti tesi ad ingraziarsi “il grande capo”, che come un
satrapo distribuisce incarichi e prebende circondato da una corte di
collaboratori proni ad ogni un suo desiderio pur di compiacerlo. Il
nuovo e moderno insegnante non è più un educatore e un maestro bensì
deve diventare un esecutore di progetti, un ! organizzatore di stage, un
coordinatore di gruppi, deve saper lavorare in team, elaborare documenti
dalle sigle astruse, svolgere funzioni-obiettivo e quanto altro serva
all'organizzazione di una “comunità scolastica” aperta, moderna,
inclusiva, avvolgente e coinvolgente. Insomma deve fare tutto, meno che
insegnare.
Tutte queste attività - peraltro classificate, ordinate, organizzate,
strutturate e disciplinate, spesso, da norme minuziose e pedanti – sono
ben remunerate per cui scatenano appetiti e desideri, spiegabilissimi e
giustificabilissimi per una categoria professionale così mal retribuita
e tanto bistrattata. Ai docenti, dunque, è stato lanciato un osso sul
quale in molti si sono buttati e ciò ha causato due effetti collaterali
disastrosi. Primo ha lacerato ulteriormente la categoria già, come si
diceva sopra, frazionata e suddivisa da una gerarchizazzione di
incarichi e poi, in secondo luogo, ha generato un salario aggiunto non
dipendente dalla professionalità e dalla competenza e neppure
dall'anzianità, ma affidato alla graziosa ed insindacabile volontà del
dirigente. Si, all'esclusiva volontà del dirigente scolastico è dovuto
tutto questo in quanto gli organi collegiali, a cominciare dal collegio
dei docenti per finire al consiglio d'istituto, sono stati del tutto
esautorati e oramai sono privi di potere poiché si limitano a
ratificare, senza dibattito, decisioni già adottate altrove che calano
dall'alto come tanti ukase di zaristica memoria.
Quelli che non si rassegnano e vorrebbero continuare ad insegnare
vengono emarginati ed isolati, ridotti come tanti mohicani all'interno
di una riserva, quando non vengono, addirittura, additati al generale
ludibrio o perseguitati come eretici. A questi docenti non resta altro
che diventare “luddisti” per riaffermare e ripristinare un modo di fare
scuola più umano, finalizzato alla crescita complessiva dell'individuo e
non solo al suo sviluppo.
La ragione per cui i professori, nonostante tutto, continuano ad
insegnare la troviamo in Erasmo da Rotterdam. Chi si accontenta di uno
stipendio da fame, chi tollera quotidianamente le bizze e i capricci di
adolescenti maleducati ed ignoranti, chi sopporta pazientemente le
angherie di dirigenti sadici e frustrati, chi si sobbarca orari
impossibili, chi accetta di insegnare materie giudicate anacronistiche
ed inutili non può essere che definito “pazzo”, però, con “…la Follia è
capace di prolungare la giovinezza, altrimenti fuggevolissima e di
tenere lontana la molesta vecchiaia…mentre, altrove, di solito, l'età
porta saggezza, qui (cioè dentro la Scuola) più s'invecchia e più matti
si diventa.
22 marzo 2006 - La
Riviera
Fonte: Arianna Editrice
Fonte
AceA
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