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Nostra madre la
Costituzione
di
Ettore Masina
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Non c’erano
soltanto i vecchi maestri del diritto, quelli che dal fascismo erano
stati brutalmente privati delle loro cattedre o se n’erano andati in
silenzioso dissenso, e adesso tornavano a dare il loro contributo alle
scelte etiche della nazione; non c’erano soltanto intellettuali di fama
mondiale come Benedetto Croce, Ignazio Silone, Luigi Einaudi. La
composizione dell’Assemblea costituente, eletta dagli italiani sessant’anni
fa per redigere la Carta fondamentale della Repubblica, quella che
doveva contenere gli ideali nei quali il nuovo Stato sarebbe vissuto,
era assai più varia. C’erano, per esempio delle donne, per la prima
volta nella storia parlamentare italiana. La più giovane di loro, Teresa
Mattei, 25 anni, piangeva un fratello che, torturato nelle carceri di
via Tasso a Roma, quando le sevizie gli erano diventate insostenibili si
era impiccato per non tradire i compagni; lei, dal canto suo, aveva
partecipato alla Resistenza come staffetta e “gappista”, una di quei
combattenti clandestini che atterrivano i nemici, colpendoli
all’improvviso nel cuore delle città. Un’altra donna, Teresa Noce,
poverissima operaia, poi sindacalista, era andata a combattere in difesa
della repubblica spagnola; più tardi, deportata dai nazisti era
sopravvissuta all’orrore del lager di Ravensbruck. E c’era una
socialista testarda e coraggiosa, Lina Merlin, che per anni aveva
lavorato alla difesa della dignità della donna, spingendosi fino a
reclamare, fra l’orrore dei maschilisti, la chiusura dei bordelli, cui
lo Stato concedeva il riconoscimento di aziende regolarmente tassate.
Stavano, queste donne – una ventina – insieme a 500 uomini, che avevano
vissuto esperienze non meno importanti. Alcuni di loro avevano perciò
(come Sandro Pertini, Ernesto Rossi, Ferruccio Parri…) trascorso lunghi
anni nelle carceri del fascismo o erano stati costretti a vivere una
vita dura al confino di polizia o in esilio, all’estero, come Giuseppe
Di Vittorio, Emilio Lussu, Francesco Saverio Nitti… Molti erano rimasti
in patria ma vigilati quasi ossessivamente dal regime e ridotti, come
Alcide De Gasperi, a lavori impiegatizi minuti, grigi, sproporzionati
alla loro cultura e intelligenza. Alcuni avevano sofferto, ancora
ragazzi, le violenze del fascismo: Giorgio Amendola aveva poco più di 19
anni quando aveva visto morire il padre Giovanni, deputato e ministro
negli anni ’20, a causa delle bastonature che gli squadristi gli avevano
inflitto in due successive aggressioni. Alcuni, come Boldrini,
Zaccagnini e Dossetti, avevano appena deposto le armi della Resistenza.
Da un lager veniva Giuseppe Lazzati, docente universitario, presidente
diocesano della Gioventù milanese di Azione cattolica. Dopo l’8
settembre aveva, come 600 mila soldati italiani, ostinatamente ripetuto
il suo No ad ogni invito a riconoscere la repubblica di Salò ed era
rimasto nella miseria e nei pericoli dei campi nazisti per “internati
militari”..
C’erano nell’assemblea, naturalmente, i leaders dei grandi partiti:
Togliatti, Nenni, De Gasperi, Ruini, La Malfa, Saragat, Lelio Basso. Dal
loro gruppo sarebbero usciti nei decenni successivi sette presidenti
della Repubblica (Einaudi, Gronchi, Segni, Saragat, Leone, Pertini e
Scalfaro). Per altri tre costituenti (La Pira, Lazzati e Zaccagnini)
sarebbe stata proposta dai cattolici, negli anni ’80, una causa di
beatificazione. (Ho avuto la gioia e il privilegio di conoscerli da
vicino, e penso anch’io che debbano essere definiti santi; ma mi sembra
importante sottolineare che da tutti i costituenti essi furono
considerati preziosi soprattutto per il loro contributo di pensiero).
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Queste donne
e questi uomini avevano non soltanto diversissime “estrazioni sociali”,
come si usava dire, e diversissime esperienze, ma anche diversi ideali
politici. Erano marxisti o cattolici o liberali, e talvolta diversi fra
loro anche all’interno del marxismo, del cattolicesimo e del
liberalismo. Nel Paese la lotta politica divampava, talvolta con
asprezze pericolose, ma i costituenti che sedevano nella stessa aula di
Montecitorio in cui Mussolini aveva dichiarato la morte della democrazia
italiana e annunziato la sua dittatura, esaminavano attentamente le
proprie parole poiché sapevano che a loro era affidato il compito di
fondare un nuovo Stato, unitario, giusto e pacifico; scrivevano quelle
parole con l’inchiostro delle lacrime e del sangue, degli errori e delle
consapevolezze in cui il Paese aveva vissuto negli ultimi vent’anni. Un
sentimento li univa: la speranza, la volontà di fare sì che non tornasse
mai più tanto dolore, che la povera gente non rimanesse confinata
nell’ineguaglianza e nell’inermità, schiacciata dall’ingiustizia, da una
dittatura, dalla follìa delle guerre. Dovendo conquistare un novo
futuro, radicalmente diverso dal passato, questo popolo doveva darsi
come madre una costituzione.
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Penso che noi
vecchi abbiamo il dovere della memoria. Non e' poi un passato remoto
quello che andiamo raccontando, se noi che lo testimoniamo siamo ancora
vivi; e dobbiamo mostrare che anche nella storia delle nazioni esiste
talvolta la coazione a ripetere: per questo le nostre memorie non sono
inutili. Ricordo quegli anni con una lucidità che mi sorprende. Quando
il vento soffiava, da qualunque direzione venisse, sollevava un acre
polverone perché tutte, o quasi, le città italiane erano segnate da
immensi cumuli di macerie: i viali, le piazze, i “corsi” lungo i quali
si erano allineati per secoli gli orgogliosi palazzi dei potenti, erano
diventati viottoli fiancheggiati da baracche, o voragini. Nelle stazioni
ferroviarie, sconvolte dai bombardamenti, i binari dispersi o piegati
verso l’alto come per rispondere alla violenza caduta dal cielo, insieme
ai resti dei vagoni bruciati sembravano scheletri di mostruosi
mastodonti antidiluviani che una tragedia planetaria aveva colpito in un
deserto di pietre. Sui marciapiedi ai quali approdava qualche treno che
impiegava dieci, dodici ore per viaggiare da Roma a Milano e due giorni
per andare da Catania a Torino si ammassavano famiglie devastate dalla
guerra, che ora cercavano di ricomporsi. Di quando in quando su quei
marciapiedi si affollavano improvvisamente decine, centinaia di donne:
un pietoso tam tam le aveva avvisate che sarebbe passato un treno carico
di prigionieri di guerra che finalmente tornavano da lontananze
infinite. Le donne si abbarbicavano ai vagoni, quasi impedendo ai reduci
di scendere; qualcuna, con un urlo, ritrovava il suo uomo, la maggior
parte, come con furia, protendeva verso i volti dei reduci, stralunati
dalla fatica del viaggio e dalle emozioni, le fotografie dei suoi cari
di cui non aveva più notizie. Le donne chiedevano imperiose “Guarda,
guarda bene… Qui ha in testa la bustina e non si vede ma è pelato, così
giovane… Ma non sei della Tridentina, tu, possibile che non lo abbia mai
visto?”. La furia si spegneva in un lamento, le donne se ne andavano a
testa china. Ma sarebbero tornate, poi, per mesi e mesi, a rovistare
ricordi e grumi di dolore.
In guerra erano morti 330 mila soldati italiani. Non c’era famiglia che
non piangesse un caduto nei deserti o sulle ambe dell’Africa, sui monti
della Grecia o dell’Albania, nel gelo sconfinato della Russia. Nelle
notti delle mogli e delle madri gemevano le ombre dei dispersi. Nel
ghetto di Roma non suonavano più le voci dei bambini. Anche 110 mila
civili erano stati uccisi, Questa era stata la guerra di Mussolini.
Maledetta la guerra, maledetto il Duce.
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La guerra, in
un certo senso c’era ancora, quando l’assemblea costituente iniziò i
suoi lavori. I trattati di pace non avevano cancellato le tragedie.
C’era ancora il razionamento che non garantiva il pane quotidiano a
sazietà, ci sarebbe stato un altro inverno da affrontare senza
riscaldamento, senza indumenti adatti; c’erano lunghe fila davanti ai
negozi e agli uffici in cui si distribuivano gli aiuti degli americani,
del Vaticano. Un quinto del patrimonio economico dello Stato era andato
distrutto. La presenza delle truppe alleate e le norme afflittive
dell’armistizio stringevano un cappio al collo della nostra
indipendenza. La sovranità nazionale non era ancora ristabilita
nell’Alto Adige che i tedeschi avevano incorporato nell’impero nazista.
Trieste e la Venezia Giulia erano, formalmente e di fatto, separate
dall’Italia. In Sicilia la mafia collegata con le “Famiglie” degli Stati
Uniti, la militarizzazione di un banditismo prossimo a un ambiguo
movimento indipendentista corrodevano, rendevano esitante, frammentaria
la presenza dello Stato. Il referendum istituzionale aveva spaccato il
Paese fra monarchici e repubblicani e provocato veri e propri tentativi
insurrezionali.
Tale era la situazione del nostro Paese. Questo noi vecchi dobbiamo
testardamente ricordare, a costo di essere malamente spintonati, ogni
volta che qualcuno osa dire. “Scordiamoci il passato” o irridere a certe
norme della Costituzione repubblicana: sulla guerra, per esempio, sul
fascismo, sul lavoro, sull’unità nazionale.
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La
Costituzione fu dunque scritta in un momento fatale della storia
italiana, anzi il più importante, quello in cui dolore e speranza
fecondarono il futuro, tracciando scelte che non erano generazionali
perché partorite dai grembi più profondi delle nostre culture. Per la
prima volta tutti i cittadini sopra i 21 anni (e non solo i benestanti,
e non solo i maschi) avevano potuto scegliere le persone chiamate a
esprimere le loro convinzioni e aspirazioni. Sino a quel momento lo
Stato italiano, i poteri pubblici, i diritti e i doveri dei cittadini,
dunque i valori alla base della convivenza nazionale erano stati
definiti dallo Statuto albertino. Era una costituzione scritta per un
piccolo regno, quello di Sardegna, per un popolo di analfabeti e una
frazione di dotti e di sapienti; ma era, soprattutto, un documento
calato dall’ alto, dalla benevolenza di un grazioso sovrano; e per
questo, per la loro gelosa proprietà, i discendenti di Carlo Alberto
avevano tranquillamente potuto violarlo sino al grande tradimento del
1922.
Nata dai rappresentanti di tutti i cittadini, la Costituzione
repubblicana fu posta nelle mani del popolo: nelle nostre mani.
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Negli anni
seguiti alla sua proclamazione, la Carta fondamentale dello Stato e la
Corte chiamata a interpretarla hanno svolto una funzione preziosa, anche
se l’informazione al riguardo è purtroppo stata assai scadente e il
tentativo di dare vita a una educazione civica che fosse cultura
costituzionale, è stato vanificato dalla stolidità di certa burocrazia e
dalla pochezza intellettuale ed etica di certi cosiddetti statisti.
Decine di norme che pretendevano di regolare disinvoltamente, per così
dire, la vita dello Stato, i diritti dei cittadini, la sicurezza sociale
eccetera sono state bloccate dalla Corte e i legislatori costretti a
riscriverle. Di più: quando vi sono stati più o meno palesi attacchi
alla democrazia, “tintinnio di sciabole” (per usare una formula famosa)
od altre tentazioni di “eccezionalità”, la maggior parte delle forze
democratiche ha potuto serenamente opporsi a qualunque tentazione
autoritaria, richiamandosi con forza al dettato della Costituzione e
convocando attorno ad esso la solidarietà dei cittadini. Proprio per
questa ragione la Costituzione non piace a Berlusconi.
Fino a qualche tempo fa pensavo che il Cavaliere guardasse alla
Costituzione con fastidio, come per un vecchio mobile che contrasta con
la modernità di altri arredi. Avrei giurato che la Costituzione, lui,
non l’aveva mai letta. Adesso, dopo i discorsi sul possibile ritiro dei
suoi parlamentari dalla Camere, sul marciare su Roma, sulla lotta nelle
piazze ho mutato parere. Il vecchio adepto della P2 non ha mai
dimenticato il “Piano Gelli”: il cui primo presupposto è la
rielaborazione della Carta per ridurre il controllo dello Stato e del
Parlamento sui poteri economici. Vuole una repubblica presidenziale,
quale la riforma prevede perché, certo di tornare al governo, non vuole
impedimenti all’esercizio del proprio potere. Mentre tutti i
commentatori politici, mi pare, scrivono che Berlusconi è costretto a
battersi nella battaglia referendaria dalla necessità di non perdere il
sostegno dei leghisti, io penso che il sostegno dei leghisti gli
interessi proprio perché anche loro vogliono il cambio della
Costituzione. Negli ultimi giorni, anzi, li ha spinti a non tentare
trattative con gli avversari.
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Nella loro
battaglia per la devolution, i leghisti non sono, un fenomeno eversivo
soltanto italiano, tanto meno nuovo. Dovunque via sia un’entità statale
nei cui confini sussistano aree di differente ricchezza, l’ottusità di
un egoismo di massa preme verso una secessione. I discorsi fatti a
Verona o a Varese sulle aree produttive costrette a trainare quelle dei
ladroni o degli infingardi, sono soltanto linguisticamente diversi da
quelli che risuonano ai bordi dei campi da golf di Sâo Paulo, locomotiva
del miracolo brasiliano. Il frazionamento della Federazione Jugoslava
reca lo stesso marchio di violenza e di superbia, di disprezzo per la
solidarietà. Nonostante le tensioni del nostro tempo lo dimostrino
giorno dopo giorno, la tentazione di alzare muri di separazione è
vastissima. La Lega crede di poterne iniziare la costruzione,
immiserendo l’unità nazionale. I suoi sostenitori, i ricchi che vogliono
godersi in toto il proprio benessere, non conoscono la storia e non
vogliono conoscerla. Del resto, se passa la devolution, la storia
potranno riscriverla a proprio uso e consumo nelle “loro” scuole. Chissà
se citeranno i soldi del Banco di Napoli trasferiti al Nord, appena
realizzata l’unità d’Italia, per finanziare l’industrializzazione del
Piemonte e della Lombardia, e la forza-lavoro del Sud costretta a
emigrare in paesi lontani o risalire la Penisola in condizioni di
inermità. Viene da piangere quando si considera la differenza fra gli
antichi e i modernissimi costituenti, dominati questi ultimi dalla
ferocia di un capitalismo dialettale e senza etica.
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Il NO al
prossimo referendum (quest’occasione così rischiosa perchè ogni
astensione dal voto conterà, di fatto, come un SI’ alla costituzione
“riformata” secondo Berlusconi, Bossi e Casini) è dunque un voto
rinnovato alle scelte di libertà, di giustizia, di solidarietà che
l’Italia fece dopo l’esperienza del fascismo, di una guerra terribile e
di una coraggiosa resistenza al razzismo. Mai come questa volta il Paese
è chiamato ad essere fedele ai momenti più alti della propria storia.
E non basta. Man mano che si va verso la data del referendum, i due
poli, incerti sui risultati, propongono trattative. Da varare prima del
voto, dice Bossi, da non escludere, ma dopo, dicono gli
arciprudentissimi olivetani, ogni possibilità d’accordo non è di per sé
scandalosa. Ma la fedeltà al nostro passato sarà tanto più garantita
quanto più il voto contrario allo stravolgimento non sarà una bandiera
sventolata da una esigua parte di cittadini.
www.ettoremasina.it
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