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Il plagio funzionale e il congedo dell’autore.
Una riflessione sul diritto d’autore da Kant al postmodernismo.

di Simone Sarasso

 
 

La formidabile proliferazione delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione comporta oggigiorno la necessità di rivedere in profondità le regole che devono prevalere nella produzione e nella trasmissione dei saperi.
I dispositivi di regolazione che circondano le opere dello spirito furono forgiati, almeno per la maggior parte, alla fine del diciottesimo secolo. Sono stati messi in opera in un contesto dove la gestione del patrimonio intellettuale si limitava ai soli meccanismi della commercializzazione del libro.
Persino oggigiorno, quando l'inquadramento generale e le forme della circolazione delle conoscenze sono sconvolti dalla rivoluzione microelettronica, le principali categorie in uso risalgono a qualche decennio prima della Rivoluzione francese. L'ingegnosità creativa dell'Illuminismo aveva permesso, da Diderot a Voltaire, da Kant a Fichte, di porre i fondamenti dell'individualismo giuridico in materia di diffusione delle idee, e così di contribuire a forgiare tutto un lessico che sarebbe apparso estraneo al medioevo.
Si faccia appunto attenzione alla relazione, fondata in questa epoca, tra lo scrittore come autore, il testo divenuto oggetto di una proprietà letteraria, il contratto con un incaricato d'affari denominato editore, lo spazio pubblico astratto concepito come un pubblico di lettori, il mercato che trasforma il libro in esemplare per una fabbricazione in serie, la regolamentazione commerciale da parte della libreria, e, infine, la registrazione dei beni spirituali attraverso l'imposizione della procedura detta del deposito legale.
Sottoposta al diritto, la disseminazione del pensiero integrava in tal modo il circuito dell'uniformazione degli scambi e dell'universalità economica. Il limite che fissava il quadro giuridico produceva una comprensione dei ruoli rispettivi dell'autore, del lettore e dell'editore, lo scopo di quest'ultimo essendo, come nota Kant, di assicurare "la condotta di un affare a nome di un altro"
[1] .
Una tale riconduzione richiedeva, per giungere alla sua piena efficacia, una oggettivazione delle entità astratte dello spirito, il riconoscimento, come soggetto di diritto, della persona che queste entità produce, non semplicemente come cittadino, ma in quanto portatore di uno statuto specifico di autorità (auctor) su di un capitale simbolico che gli appartiene in proprio.
La protezione legale delle idee si inseriva nella logica della loro abilitazione al rapporto mercantile. La normalizzazione nella gestione dei prodotti intellettuali comportava e richiedeva particolarmente, per contropartita, dei principi in base ai quali definire la contraffazione.
Come si sa bene, questa pratica illecita prosperava alla fine del diciottesimo secolo, tanto da rafforzare paradossalmente la necessità di una filosofia contrattualista che tracciasse le frontiere tra la pubblicazione legittima (autorizzata dall'autore), la contraffazione (un'edizione pirata), e il plagio (spogliazione di ciò che appartiene ad altri).
La nozione di plagio è inconcepibile senza fare riferimento alla filosofia della modernità che ne favorì la concettualizzazione. L'analisi del suo significato contemporaneo implica almeno tre dimensioni che, tra le molte altre, rafforzano i fondamenti della sua negatività.

 

1. In primis, un’etica legalista s'incarna nella pretesa del diritto di regolare tutti gli scambi e di delimitare il perimetro oltre il quale comincia la delinquenza. [2]
2. In secundis, poiché la legge non può proibire ogni cosa sbagliata, gli appelli a una moralità pubblica di probità accompagnano le strategie volte a salvaguardare la proprietà intellettuale.
[3]
3. Infine, il rispetto della firma presuppone la fusione dell'opera col suo autore, il matrimonio del diritto e dell'ontologia; in breve: l'ammissione di una vicinanza intima che consente al produttore, sorgente della legittimità, di fare una cosa sola con il prodotto, che è il vettore della sua identità.

 

Ora, gli interrogativi avanzati da ogni parte sugli stessi principi della modernità concorrono a riattivare l'interesse di una riflessione sul plagio, specialmente a partire dai concetti di soggetto e di opera, la cui dissociazione reciproca è stata posta in luce dal post-strutturalismo.
La riconfigurazione della nozione di autore nel discorso della postmodernità è appunto recentemente servita a porre in luce l'ambiguità della imputazione a chicchessia di qualsiasi forma di scrittura, e in particolare di un testo.
Il tema della morte del soggetto annuncia, tutto d'un tratto, la fine di una metafisica della firma. Il problema della determinazione dell’origine del discorso, e pertanto della sua proprietà, permane intero, irrisolto e forse più oscuro che mai.
Una preoccupazione deve essere esaminata, al centro di tale riflessione: il plagio può ancora esistere in un universo intellettuale in cui sparisce la possibilità di differenziare la rappresentazione e il referente, la copia e l'originale, il copista e l'autore?
Per rispondere a questa domanda e per precisarne tutte le poste in gioco, bisogna afferrare in che cosa Foucault e il post-modernismo distruggano ciò che Kant e Fichte teorizzarono, al fine di discernere che cosa voglia dire "plagiare" in un contesto in cui le basi stesse della modernità appaiono ormai screditate.

1. Kant e Fichte: i fondamenti moderni della nozione di diritto d’autore
La filosofia ha lasciato in eredità al diritto e all'economia il quadro normativo di quel che deve essere un autore, in primo luogo, e poi degli attributi che la pratica della scrittura comporta.
Tale eredità che essa lascia riposa sulla istituzionalizzazione, consacrata ormai due secoli fa, delle relazioni tra lo scrittore e il pubblico. Come era del tutto evidente, bisognava che le istanze della produzione e del consumo di un libro fossero conosciute, affinché potessero divenire identificabili le origini dei loro rispettivi diritti, e i loro modi di esistenza fossero infine suscettibili di definizione.
Kant, primo fra tutti, non inventa la nozione di autore, ma la modernizza accentuandone la dipendenza dall'opera. Quest'ultima, a seguire la sua ispirazione, acquisisce una doppia determinazione la quale permette di distinguere, al contempo, la proprietà dell'autore e il possesso dell'acquirente.
Secondo Kant, un libro possiede sempre due livelli di esistenza, che egli dissocia spartendoli nettamente, per coglierne e stabilirne lo statuto rispettivo.

 

- Da un lato, la figura materiale dipende dalla verosimiglianza. Essa costituisce - nel senso fisico del termine - un "corpo" di cui chi lo detiene può disporre a proprio piacimento. Di conseguenza essa si presta alle diverse operazioni del mercato e alle transazioni del capitalismo.
- Da un altro lato, Kant sostiene che il libro implica, per di più, un aspetto spirituale che manifesta la soggettività del suo autore (individualismo), e anche la partecipazione intersoggettiva dello spirito
[4] (universalismo), eternamente irriducibile alla imposizione di una logica commerciale.

 

Una struttura paralogica fonda lo schema kantiano. Il suo sviluppo polarizza l'uno rispetto all'altro i due domini di ciò che è intellettuale e di ciò che è funzionale. Innanzitutto, li rende reciprocamente incommensurabili. La procedura, in qualche modo, equivale a separare il noumeno dal fenomeno in ciò di cui il libro consiste. Sul piano delle idee, un legame consustanziale, una solidarietà perfetta tra l'autore e l'opera creano una reciprocità, anzi una responsabilità, che fa sì che essi siano costantemente intrecciati.
Per Kant, nulla autorizza l'alienazione di questa parte anche nella partecipazione e condivisione con altri di un testo qualunque. Il filosofo dissipa qualunque ambiguità su questo tema:

 

La proprietà che un autore ha sui suoi pensieri [...], egli la conserva nonostante la riproduzione. [5]

 

Nella sua prospettiva, l'editore rappresenta ma non acquisisce alcun diritto su questa porzione dell'opera, in quanto egli rimane estraneo alla sua origine, e di conseguenza non se ne assume né i meriti né i difetti.
In breve, il contratto colloca nella aderenza del soggetto al suo discorso la causalità ultima di questo, e stabilisce in esso il criterio di un diritto personale che appartiene alla natura del libro.
La "condotta di un affare a nome di un altro", principio kantiano per eccellenza della delega editoriale, trae quindi la sua ragion d'essere dal fatto di rinviare alla interiorità della persona e alle sue qualità.
Sul piano del modo in cui le idee si manifestano materialmente, un diritto reale fornisce una legittimità al detentore dell'esemplare, sull'altro versante della paralogia. Collegato al fenomeno, però, esso non copre se non ciò da cui il libro può essere alienato; detto altrimenti, la parte che, in esso, si presta alla vendita e all'acquisto.
Come ben si vede, l'opera, nel senso che le conferisce Kant, si rivela scissa tra una soggettività non oggettivabile, e un "pensiero depositato" su di un sostegno concreto, il quale la apre e abilita allo scambio. Kant utilizza una formula chiarificatrice:

 

L'autore e il proprietario dell'esemplare possono dire ciascuno con il medesimo diritto, dello stesso libro: "E' il mio libro!", ma in due sensi differenti. Il primo prende il libro in quanto scritto o discorso, il secondo semplicemente in quanto strumento muto della diffusione del discorso sino a lui. [6]

 

Due osservazioni devono essere estratte da questa affermazione di Kant.

 

- In primis, ne segue che il diritto d'autore non concerne una cosa in senso stretto.
- In secundis, l'opera non genera da sé un diritto reale che secondo una incarnazione tangibile, il che significa che essa potrebbe persino esistere solo in astratto, e limitare il campo di applicazione di un diritto d'autore, senza che alcun oggetto empirico ne sia il testimone nella pratica: questa, del resto, è la situazione del libro la cui tiratura sia esaurita.

 

La determinazione giuridica del diritto d'autore, quale la enuncia Kant, risente di una certa ambivalenza. Essa si dispiega in fasi la cui logica si dimostra contraddittoria, almeno in apparenza: paralogistica all'inizio, e sintetica alla fine.
Kant pone come distinto per mezzo della filosofia ciò che egli riconcilia per mezzo del diritto. Da un lato, la definizione delle categorie di autore e di opera mira a reperire la differenza ontologica che si trova al cuore stesso di tutti gli usi della nozione di proprietà.
Cosa si intende con ciò? Semplicemente, che non ci si confonde affatto con la cosa che si possiede, ovvero, in altri termini, che non ci si può dire proprietari che di una cosa esterna a se stessi.
[7]
Per esempio, la proposizione "questo mi appartiene" coinvolge due termini non identici di cui l'uno non potrebbe essere l'altro a priori. D'altra parte, la proprietà intellettuale implica, nella sua determinazione giuridica, che il parallelismo tra l'opera e l'autore o la loro irriducibilità possano risultare superabili.
Secondo Kant, questa convergenza possibile sorge allorché la persona è vista nell'opera (come il noumeno nel fenomeno), e quella stessa diviene la manifestazione dell'interiorità del suo autore.
Ora, una tale rappresentazione sintetica costituisce la sola istanza determinante nella pratica, poiché il diritto le riconosce delle conseguenze, una operatività effettiva, nel considerare l'opera come il riflesso della persona.
A questo idealismo che, alla fin fine, si appoggia su un principio di indivisibilità dell'opera e del suo autore, fa eco il discorso di Fichte, più "kantiano di Kant".
[8]
Non solo il personalismo morale si consolida qui, ma esso è duplicato da una fenomenologia estetica che tenta di specificare ancor più chiaramente la figura del locutore nel libro. Essa rende così marcata la distinzione tra lo strato materiale e quello spirituale, rinforzando la gerarchia tra loro. La sua problematica si fonda innanzitutto su un'interrogazione, e poi su un modo di argomentazione.
L'interrogazione che egli propone è la seguente: perché si compra un libro? Raramente “per fare sfoggio della sua carta stampata, o per tappezzarne i muri”. Piuttosto, egli scrive,

 

bisogna bene che con l'acquisto uno pensi di guadagnare così anche un diritto su ciò che in esso vi è di spirituale. [9]

 

Per Fichte, un libro è innanzitutto uno spirito che vi si decanta. Ora, la comunicazione di tale spirito resta inconcepibile se è amputata di quello da cui discende. La proprietà intellettuale possiede tutto il suo senso nella identificazione della parola. E il diritto di edizione, in Fichte, designa meno "la condotta di un affare al nome di un altro" (Kant), che non la concessione dell'usufrutto, nozione, questa, mirante a limitare il potere dell'editore al ristretto uso della dimensione economica del libro.
La sovranità dell'autore esce intatta, più assoluta che mai, poiché la commercializzazione del libro rimane sempre ridotta a nient'altro che l'esercizio di ciò che potremmo chiamare una "parola prestata".
Il modo argomentativo di Fichte radicalizza la visione di Kant, introducendo, nell'altra partizione di un trittico spirituale, un’ulteriore divisione il cui effetto consiste nel dire che un libro non è solamente il pensiero che esso contiene, ma è anche uno stile
[10] che in esso si dispiega. Egli parte da una premessa:

 

a sua volta, questo elemento spirituale deve farsi oggetto d'una spartizione o partecipazione. [11]

 

I vettori dell'originalità di esso vengono così demoltiplicati. Essi arricchiscono considerevolmente l'enunciazione, al contempo rivelando tutto un pensiero e una maniera di pensare.
Fichte sottolinea così, a confronto del dispregio classico per la retorica, che le forme, le figure e gli artifici del linguaggio fanno egualmente parte delle particolarità della soggettività, e che sono sottoposte, per conseguenza, al campo di applicazione del diritto d'autore. La disposizione estetica del ragionamento serve ad avvalorare un principio di inalienabilità. Scrive Fichte:
 

 

Ma ciò di cui assolutamente nessuno può appropriarsi, in quanto questo resta fisicamente impossibile, è la forma dei pensieri, l'incatenamento delle idee e i segni nei quali esse sono esposte. [12]

 

in questa ottica la nozione di plagio comporta un duplice ancoramento, poiché la proprietà intellettuale ha ormai, in qualche modo, due sorgenti di legittimità. La determinazione delle parole da parte della forma e del contenuto sostanziale moltiplica le caratteristiche e i segni dell'individualità e contribuisce, in fin dei conti, ad accentuare l'importanza della firma di un'opera.
Kant e Fichte hanno, gradatamente, spiritualizzato il libro e, insomma, situato la sua origine nel raggiungimento conseguito dall'autore. Per contrappasso, essi dovevano partecipare al riconoscimento del plagio.
Il loro problema fu quello della costituzione di un riflesso (miroitement) – nel senso che Richard Rorty dà al termine –, mirante a rendere il reale identico al suo creatore. La loro soluzione resta inseparabile dalla regolazione a mezzo del diritto di quella solidarietà tra i due che non può essere in nessun modo abolita.
I fondamenti che essi hanno posto contraddirebbero così l'antico sistema, detto del privilegio, che Diderot e Voltaire avevano in sostanza riconfermato, anzi persino sostenuto.
Se una soggettività d'autore vi era interamente riconosciuta nell'opera, ella comportava, in questo schema prekantiano, la possibilità di abolirsi: la cessione del manoscritto all'editore privava definitivamente l'autore di tutti i diritti.
Si trattava di una merce come un'altra e la sua origine non faceva in nessun modo fede del suo carattere inalienabile. Al contrario, la libertà dell'autore includeva quella di darsi in quanto persona attraverso la stessa materialità dell'opera. La fine del secolo XX ha comunque gettato un dubbio severo sul discorso kantiano e fichtiano, incominciando contro di esso un attacco su un duplice fronte contro la struttura filosofica del diritto d'autore.
Senza tuttavia abrogare il dispositivo giuridico e senza rendere inoperanti le regole elaborate attraverso duecento anni, segnaliamo che lo scetticismo riguardo alla nozione di soggetto, non meno della spettacolare proliferazione delle nuove tecnologie, mostra che il diritto è superato da ogni parte.
Da un lato, come è utile ricordare, il campo dell'esperienza rivela quotidianamente che i modi di comunicazione sfidano le capacità di regolazione del mondo giudiziario, e tanto più efficacemente quanto più si dispiegano a livello mondiale.
D'altra parte, se lo strutturalismo aveva particolarmente favorito la formulazione di un pensiero sui limiti del soggetto, il poststrutturalismo accelera, o addirittura radicalizza, questa tendenza e propone, per di più, un (auto)affondamento di ogni funzione referenziale. In termini chiari, ciò vuole dire che l'opera non ha più chi ne risponda (l'autore), né a sua volta risponde a nulla (la realtà).
L'autonomia del testo rispetto all'autore accompagna l'affrancamento delle parole rispetto alle cose. Così la rottura della solidarietà in questione, che era costitutiva del diritto d'autore, rischia di rendere ammissibile l'idea secondo la quale il plagio non può più esistere dal momento che il discorso non è, ormai, null'altro che uno “spazio di interferenze” multiple e di origine non assegnabile. Capofila nella destituzione della supremazia del diritto d'autore, Foucault suggeriva forse che la rivendicazione di una paternità sulle produzioni intellettuali era ormai conclusa?

2. Foucault e la critica dell’autore
Il discorso contrattualista di Kant e Fichte presupponeva che i firmatari potessero, sin dall'inizio, appartenere a se stessi col provare le proprie rispettive identità come un naturale spazio di appropriazione. Nulla permetteva, allora, di porre in questione il rapporto a se stesso che si considerava (già) dato all'origine.
Questa lettura si trova alla base del giusnaturalismo moderno, e ha favorito una concezione del diritto come trasposizione di una natura prima. L'opera era vista come l'espressione di un lavoro su di sé, essa incarnava l'autore, fabbricandogli in qualche maniera una figura materiale direttamente equivalente a lui stesso.
Bene: proprio questo classico archetipo dell'umanismo Foucault vuole mettere in questione, anzi tenta di scuoterne i principi e di sconvolgerne da cima a fondo le strutture. L'interrogativo che egli pone in luce è principalmente consegnato al suo testo, presentato nel 1969 alla Società francese di filosofia e volto precisamente a sviscerare l'enigma "Che cosa è un autore?".
Vi è difeso, in opposizione al fondamentalismo kantiano e al personalismo spiritualista, il seguente principio di argomentazione: non vale più la presunzione secondo la quale si può ritenere evidente la conoscenza di colui che parla in un testo. In effetti, il processo della scrittura sfugge alla designazione di un individuo responsabile. Nessuno potrebbe farsi determinante totale o ultimo istigatore di un pensiero
[13].
In altre parole, la complessità degli apporti nella scrittura e la loro irriducibile molteplicità rendono la pretesa di potere imputare un testo un'impresa o metafisica o ideologica, mai una presa d'atto empirica.
Insomma, l'opera è abbandonata alla incertezza della sua origine
[14].
"L'assenza è il luogo primo del discorso"
[15]. Questa parola attraversa tutta l'ispirazione di Foucault, ne punteggia di segnali il percorso, soprattutto guida la sua critica della autorità e, di conseguenza, della proprietà intellettuale che continuamente si rivendica su di un testo, dal punto di vista della influenza della cultura del XVIII secolo.
Per lui, il privilegio della firma è di un tipo ben preciso. Nella misura in cui dipende da un esercizio di attribuzione, la sua applicazione sfocia nell'enunciazione di una garanzia extradiscorsiva che ha per effetto principale di suscitare una lettura a priori, di operare delle selezioni, di fissare dei limiti, di escludere o di ridurre, di mettere in gioco delle regolarità, a rigore, infine, di riprodurre l'intero cerimoniale storico che ha corso in una data società.
Per comprendere correttamente quel che Foucault voleva dire, potrebbe essere utile un exemplum fictum: supponiamo che un testo di cui ignoriamo l'origine circoli senza preciso nome d'autore, un po' al modo di un racconto popolare, narrato secondo lo stile "c'era una volta questo o quest'altro avvenimento o la tale persona".
Sempre proseguendo l'ipotesi, immaginiamo che l'autore sia identificato al termine di una ricerca qualunque, e che la scoperta di un 'firmatario' autentico faccia uscire l'opera dall'anonimato a cui era stata consegnata sino ad allora.
Infine, pensiamo un istante che, con stupore generale, l'autore o produttore del testo fosse Shakespeare, oppure ancora, secondo un altro scenario, che un individuo qualunque divenisse, tra l'indifferenza universale come è del resto facile presumere, il soggetto della attribuzione.
Allora, tutto un dispositivo di prescrizione e di normalizzazione entra così in funzione; è certo che esso disporrà per lo meno una rilettura del testo, e persino l'esplorazione di un'altra coerenza, secondo, s'intende, che si trattasse di Shakespeare o del misterioso sconosciuto.
In ciascuno dei due casi, delle interpretazioni differenti, eventualmente divergenti, farebbero riferimento alla persona-autore investendo una coerenza singolare attraverso questa attribuzione. Lapidario, Foucault dichiara:

 

Per "ritrovare" l'autore nell'opera, la critica moderna si serve di schemi assai vicini a quelli della esegesi cristiana quando voleva provare il valore di un testo tramite la santità dell'autore [16].

 

Che cosa denota l'evocazione di una tale circostanza immaginaria, che vantaggio pedagogico apporta, al fine di una rilettura del rapporto tra l'opera e colui che la genera, e di che conclusioni essa è testimone nella critica foucaultiana?
Il soggetto non è importante per comprendere un testo (e questo Eco dimostra di saperlo bene), piuttosto ne distrugge la possibile polivalenza; esso lo deporta sui lidi di una speculazione ontologica e impedisce al discorso di “fare evento” di per se stesso.
Lawrence Olivier descrive così tutti i misfatti che Foucault attribuisce a esso, scrivendo:

 

L'autore è un'altra forma di limitazione, di rarefazione del discorso. [17]

 

Alla diagnosi del male fa seguito l'invocazione di rimedi tutti impregnati di medicina strutturalista:

 

il testo non è la voce del suo produttore, ma un processo anonimo, senza soggetto, un'azione del linguaggio su se stesso.  [18]

 

Vi è, in questa inclinazione foucaultiana, la messa in opera di un'impresa di liberazione non politica, ma epistemica, che si può rintracciare sul piano critico (fatticità dell'apprezzamento dell'opera da parte dell'autore) e cognitivo (impossibilità di reperirne l'origine in qualunque maniera).
Che si possieda o meno l'identità del firmatario, Foucault pensa che non si trarrà mai da tale conoscenza un fattore esplicativo. Questo ragionamento comporta, lo si vede, la destituzione di un genere letterario: la biografia, il racconto di una vita. Invalida anche una disciplina, la psicologia.
Quali le ragioni di questo discredito? Si tratta di due orizzonti di esposizione del soggetto, della sua precarietà e inconsistenza. L'insistenza sulle pratiche discorsive piuttosto che sul rimando alla "autorità dell'autore" – per impiegare un pleonasmo – non si rapporta certo alla sparizione fisica dell'enunciatore (del discorso), ma alla decostruzione della sua efficacia nel discorso
[19].
Per Alexander Nehamas l'adozione di tale atteggiamento comporta nulla di meno che una netta dissociazione tra scrittore e autore; il primo rifiuta ogni tutela interpretativa sul testo poiché egli si pone fuori di lui, nella sua ottica; il secondo, di contro, magnifica l'atto dello scrivere e fa della sua propria produzione il 'punto di caduta' della sua intenzione profonda e del suo voler-dire
[20].
Il problema dell'autore in Foucault è che egli descrive se stesso come causa formale mentre egli non costituisce che un destinatario, a somiglianza dello stesso lettore. In tal modo viene a confondersi la frontiera tra l'artigiano di un testo e il pubblico dei lettori.
Nessuna di queste polarità può mantenere l'altra in ostaggio, pretendendo di esaurire così il senso.

3. Il post-moderno e il testo senza autore
Lontano dalle singolarità, dalle differenziazioni troppo marcate e delle esclusive, il campo di determinazioni dipende da relazioni complesse e globali, da una matassa di legami che sfugge, insomma, alla appropriazione degli uni quanto degli altri.
A partire da questo, si può affermare che la proprietà intellettuale non esiste più, nel contesto di quella postmodernità della quale Foucault fu partecipe, se non come difensore, senz’altro come autore, paradossalmente proprio nel senso in cui non voleva intenderla. Le nozioni di originalità e di plagio, il suo contrario, costituiscono, a parlare strettamente, delle categorie metafisiche; l'una e l'altra, prese alla lettera, non resistono all'esame.
Gli autori della antichità non vi sentivano alcun vantaggio, tanto erano invece attenti a scrivere valorizzando la fedeltà alle regole di un genere: la tragedia, l'epica
[21].
Il romanticismo ha grandemente contribuito, nel XIX secolo, a isolare l'autore facendone un "essere d’eccezione", essendo la sua attività data come una singolarizzazione perfetta. Per contro, non è forse il plagio proprio una ripresa sprovvista di ogni singolarità?
Può il plagiario non essere altro che una istanza della ritrasmissione della voce dell'altro, col riprodurre la configurazione e trasporre il senso in una copia conforme?
Gli "autori" della postmodernità credono piuttosto che la riproduzione di un testo non sarebbe integrale qualora il contesto non fosse lo stesso. Poiché esso cambia senza sosta, la riproducibilità non si ridurrebbe mai a una copia conforme, in maniera tale che il plagio non è dunque altro, tutt'al più, che un idealtipo del rapporto al pensiero altrui.
Malgrado la diversità degli usi e delle letture che vi prevalgono
[22], il postmodernismo confina la scrittura al destino di una incessante ricomposizione. A nome della impossibilità di arrestare il senso, di issarlo in rappresentazioni definitive, il plagio è in esso semplicemente ricusato, poiché ogni ripetizione è nello stesso tempo spiazzamento, reinvestimento dei contenuti semantici.
Ottica similare, filosoficamente pertinente ma giuridicamente assurda, veicola un "pensiero della ripetizione" come fondamento della scrittura
[23]. L'argomentazione segue questa logica: ogni opera riconoscibile o semplicemente comunicabile passa attraverso una "griglia" di segni, e attraverso la molteplicità delle voci che proliferano per mezzo delle esperienze linguistiche, a tal segno che essa non è alcunché che non sia già oggetto di una pratica di natura intersoggettiva [24] .
La nozione di proprietà intellettuale implica, o addirittura richiede, un sapere di ciò che appartiene a se stesso e di ciò che appartiene all'altro. Jean-François Lyotard non vede alcun interesse né nello stabilire tale distinzione, né in una analisi dei modi di incidenza del diritto d'autore.
La proprietà letteraria, egli osserva, "non è davvero un grande problema"
[25], bensì semplicemente "un caso di applicazione della legge del valore" in un sistema capitalistico che recupera tutto ciò che è “mercantilizzabile”.
La critica di questa categoria deve metter luce su tutto quello che corrisponda alla appartenenza comune e ne dipenda, rifiutando però di considerare la firma come la "chiusura del terreno scritturale"
[26].
In una certa misura, l'esercizio stesso della parola si iscriverebbe sempre, secondo lui e molti altri, in una operazione di disappropriazione, di dispersione costante dell'origine. È questo che ci ricorda Vandendorpe citando le conclusioni di Roman Jakobson:

 

La proprietà privata nel dominio del linguaggio, semplicemente non esiste: tutto è socializzato. [27]

 

I pensatori della postmodernità non fanno altro che sottoscrivere questa tendenza, anzi la rincarano. A loro giudizio, l'attività dello scrittore non si situa che nella intertestualità; in essa predominano delle ricombinazioni, dei riciclaggi, delle giustapposizioni di elementi disparati ed eterogenei rispetto al lavoro su di sé, in breve vi predominano dei prestiti ridisposti attraverso una sorta di "dialogismo", per riprendere qui la terminologia di Bachtin.
Il dispiegamento del discorso non si spiega, a conti fatti, che attraverso lo schema caratteristico del barocco: miscuglio di apporti senza una provenienza indicabile, e dunque fine della originalità.
Da Foucault a Lyotard, da Derrida a Baudrillard fino alla produzione letteraria di Umberto Eco, la scomparsa della firma, se non dello stesso scrittore, non risponde solamente al progetto della realizzazione di una "decostruzione" radicale dell' autoriferimento (l'illusione di essere il soggetto della propria opera). Esso costituisce altresì un programma, a rigore anzi una nuova politica. L'utopia post-moderna è quella dell'anonimato. Essa consegna, negli atti di scrittura, l'opera in retaggio, per la condivisione (en partage).
Antiumanista, questa utopia fa appello a una sorta di effusione del sé che si spinge sino alla sua finale dissoluzione. Antikantiana, essa mostra che non vi è niente dietro l'apposizione di una firma, se non degli imperativi regolanti gli scambi commerciali. Lyotard voleva incarnarla nello stesso testo:

 

Noi abbiamo sognato (...) d'un libro senza titolo e senza nome d'autore. [28]

 

Una tale speranza era ingenua, egli confessa. Eppure, essa svelava un’ambizione, nutriva di sé una sublimità consistente, per l'essenziale, a investire l'indeterminabile e lo sconosciuto di una specie di mistica. Questo ineffabile si chiama l'Altro.
Derrida non cessa mai di interpellarlo. Il titolo di uno dei suoi ultimi libri è, a questo proposito, fortemente rivelatore: Sauf le nom
[29]. In senso lato e un poco astratto, si tratta di ciò che non ha nome e sfugge, di conseguenza, alla denominazione ovvero, se si vuole, alla regolazione (enfermement) e all'esclusione.
Una strategia di eteroriferimento (il rinvio all'Altro piuttosto che a sé) entra in scena in Derrida come opzione sostitutiva rispetto alla concezione kantiana del libro:

 

Io lo lascio firmare, se almeno lo può. Bisogna sempre che l'Altro firmi ed è sempre l'Altro che firma per ultimo. O, altrimenti detto, per primo. [30]

 

Ecco chi disegna un nuovo incantesimo attraverso la depersonalizzazione del testo.

4. Dal postmodernismo a una concezione funzionale del plagio
Il congedo dall'autore comporta tutta una serie di ripercussioni sullo statuto dello scritto e, all'occorrenza, sulla comprensione che si può ricavare del plagio nel contesto della postmodernità.
La sfida in effetti diviene quella di cercare un cammino, di aprirsi un passaggio al margine delle aporie del personalismo kantiano e di quelle, dopotutto non meno severe, della squalificazione foucaultiana di qualunque "firma". Gli ordini di argomentazione sembrerebbero seguire una logica assolutistica, e arroccarsi dietro posizioni imprendibili.
Enumeriamo ora le principali implicazioni della risposta post-moderna a Kant, per poi concludere col tentativo di fornire una lettura possibile dell'autore e del plagio:
1. Separazione della ontologia e del diritto.
Questi discorsi non sono più corollari l'uno dell'altro. Il postmodernismo serve a porre una distanza tra loro. Esso rintuzza ogni pretesa a trarre il giusto dal vero (Lyotard), a iscrivere il potere in un dispositivo di riconoscimento del sapere (Foucault), o, da ultimo, a investire il diritto prendendo spunto da questa conoscenza privilegiata che l'ontologia ambisce a conquistare (Derrida).
Esso abbandona l'opera ai venti mutevoli dell’intersoggettività (e dell’intertestualità) e le sottrae la soggettività della sua origine proprio spezzando il legame con l'autore. In breve, questo discorso disarticola il moralismo che postulava legami tra la filosofia (che cosa si può sapere?) e politica (che cosa si può fare?).
2. Separazione di storicità e di testualità.
L'opera non testimonia che della propria esistenza; essa non rinvia che a se stessa. Non è più condotta dalla storia, che ne sarebbe il principio di possibilità. Tutto il suo sviluppo l'allontana non solamente dal processo storico come fonte di spiegazione secondo il modello conservato da Hegel e da Marx, ma anche dalle condizioni prevalenti nel suo ambiente.
In breve, l'enunciato che suggerisce che la storia fornisce il senso non ha senso per i post-moderni, che tentano di destoricizzare e decostruire l'opera. È quel che Derrida (in linea con Eco: “andate a chiedere al testo il significato di quello che scrivo. Io non ne so più di voi.”) annunciava in De la Grammatologie, osservando che non v'è nulla al di fuori del testo.
3. Dissoluzione del plagio attraverso la non responsabilità dell'autore.
Plagiare significa tradurre in un modo che è negativo, dato che gli fa difetto la legittimità. Questo atto magnifica dunque a contrario la "responsabilità" di qualcuno, una nozione la cui radice mostra chiaramente proprio questo: respondere significa che un soggetto sia in grado di rispondere di qualche cosa.
Ora, la non transitività o l'intraducibilità dell'opera da parte dell'autore conduce, secondo i pensatori della postmodernità, alla sparizione dell'originalità e del plagio per mancanza di un garante cui si rechi pregiudizio. Si annuncerebbe piuttosto la fine della usurpazione del diritto d'autore, della alienazione nel campo intellettuale.
Su questa traccia, Baudrillard nota come la trasparenza degli altri divenga la norma universale
[31], in modo tale che non è più possibile deprivare chiunque dei suoi diritti o di una qualunque proprietà.
Che cosa resta dunque dell'autore nella postmodernità? Nulla, almeno secondo le osservazioni precedenti. Tuttavia, una critica si impone non tanto per arrestare il dibattito, quanto, piuttosto, per mostrare le insufficienze dei tentativi contemporanei dispiegati mirando a un superamento degli imperativi kantiani in materia.
In primo luogo, sul rapporto tra l'ontologia e il diritto, i vari Foucault, Derrida, Lyotard, Baudrillard sono stati incapaci fino al presente di reinventare una nuova forma di riconoscimento dello scrittore piuttosto che dell'autore (secondo la distinzione precedentemente menzionata di Nehamas). Per giunta, non si vede come il diritto potrebbe funzionare concretamente a partire dai principi di una filosofia post-moderna.
In secondo luogo, la dissociazione tra la storia e il testo non può fare a meno di porre un certo numero di problemi. Infatti, se anche la storia non contiene in se stessa un senso che le sia intrinseco, è tuttavia vero che il contesto resta essenziale per comprendere il senso di un testo. Non bisogna confondere il processo e le condizioni della storia: il primo non determina nulla di per se stesso, ma le seconde fanno parte dell'interpretazione che si apre sull'opera stessa.
Un esempio: sapere che Mein Kampf è stato scritto da Adolf Hitler anziché da Madre Teresa cambia radicalmente la lettura dell'opera, modifica il senso che le si accorda, se non addirittura esige una messa in relazione con certi dati della storia stessa che sono suscettibili di chiarificarla. Ciò non vuole dire che la produzione di questo libro sia segnata da una specie di destino ineluttabile.
Ma il fatto che questo autore piuttosto che un altro sia stato nell'ambiente immediato di questa opera capovolge in modo fondamentale la percezione del messaggio che, per il resto, non esiste affatto, in maniera positivistica, al riparo da tutto ciò che lo circonda. L'autore è una componente della contestualità che non si può sottrarre alla comprensione dell'opera. Gracia è chiaro a questo riguardo:

 

Texts do need historical authors, for texts without authors are texts without history, and texts without history are texts without meaning,that is, they are not texts. [32]

 

Infine, perché una relazione esista tra il testo, la storia e il significato, la nozione di responsabilità deve essere reinvestita e non negata sotto il pretesto che l'autore non sia il solo produttore, l'unica fonte di tutti gli elementi costitutivi del suo discorso.
Bisogna dunque reinventare una concezione funzionale del plagio la quale, tenendo conto delle critiche dell'umanismo, sappia allo stesso tempo evitare le trappole del nichilismo e dell'idealismo che lo sottende.
Leggere un testo, che lo si voglia o no, è incontrare "qualcuno", situato "da qualche parte", che dice "qualche cosa": "qualche cosa" che non si può separare nella complessità di un dispositivo che si sottrae a una intelligibilità unilaterale. Comincia qui un problema epistemologico insolubile, tuttavia, dal momento in cui si punta a delle determinazioni univoche entro queste dimensioni del testo, addossandole poi le une alle altre secondo una logica globalizzante e astratta.
Come, allora, ricostruire una nozione di responsabilità, e con essa di plagio, che si tenga lontana tanto dal nichilismo quanto da una visione sostanzialistica dell'opera?
Un suggerimento per la riflessione – che peraltro dovrebbe essere concettualizzato filosoficamente e giuridicamente – lascia forse intravedere una fuga verso un altro orizzonte interpretativo. La comprensione del plagio non deve più essere "indicizzata" a una designazione dell'origine, ma a una ben circostanziata originalità. Nulla è più illusorio che trattare, specie nelle scienze umane, la circolazione delle idee come se esse potessero venire brevettate alla stregua di oggetti tecnici, oggetti la cui utilizzazione si presterebbe così a ordini di funzionalità ben più facilmente reperibili.
Per contro, dissolvere proprio ogni considerazione sul plagio con la scusa che non si può mai sapere "chi" per primo ha detto "cosa" sarebbe una posizione tanto insensata quanto irragionevole.
La sfida consiste dunque nel conservare le acquisizioni della critica post-modernista, contemporaneamente mirando a una identificazione funzionale del plagio. Ora, il solo modo, a nostro avviso, di pervenire a ciò consiste nel non associarlo più a una spoliazione delle idee dell'autore, ma a una riproduzione dell'uso che egli ne fa.
Nessun tema o rappresentazione pareva suscettibile di appropriazione, ma le sue applicazioni invece generalmente possono esserlo.
 

 
 
 
 
 

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