|
La
formidabile proliferazione delle nuove tecnologie
dell'informazione e della comunicazione comporta oggigiorno la
necessità di rivedere in profondità le regole che devono
prevalere nella produzione e nella trasmissione dei saperi.
I dispositivi di regolazione che circondano le opere dello
spirito furono forgiati, almeno per la maggior parte, alla fine
del diciottesimo secolo. Sono stati messi in opera in un
contesto dove la gestione del patrimonio intellettuale si
limitava ai soli meccanismi della commercializzazione del libro.
Persino oggigiorno, quando l'inquadramento generale e le forme
della circolazione delle conoscenze sono sconvolti dalla
rivoluzione microelettronica, le principali categorie in uso
risalgono a qualche decennio prima della Rivoluzione francese.
L'ingegnosità creativa dell'Illuminismo aveva permesso, da
Diderot a Voltaire, da Kant a Fichte, di porre i fondamenti
dell'individualismo giuridico in materia di diffusione delle
idee, e così di contribuire a forgiare tutto un lessico che
sarebbe apparso estraneo al medioevo.
Si faccia appunto attenzione alla relazione, fondata in questa
epoca, tra lo scrittore come autore, il testo divenuto oggetto
di una proprietà letteraria, il contratto con un incaricato
d'affari denominato editore, lo spazio pubblico astratto
concepito come un pubblico di lettori, il mercato che trasforma
il libro in esemplare per una fabbricazione in serie, la
regolamentazione commerciale da parte della libreria, e, infine,
la registrazione dei beni spirituali attraverso l'imposizione
della procedura detta del deposito legale.
Sottoposta al diritto, la disseminazione del pensiero integrava
in tal modo il circuito dell'uniformazione degli scambi e
dell'universalità economica. Il limite che fissava il quadro
giuridico produceva una comprensione dei ruoli rispettivi
dell'autore, del lettore e dell'editore, lo scopo di quest'ultimo
essendo, come nota Kant, di assicurare "la condotta di un affare
a nome di un altro"[1]
.
Una tale riconduzione richiedeva, per giungere alla sua piena
efficacia, una oggettivazione delle entità astratte dello
spirito, il riconoscimento, come soggetto di diritto, della
persona che queste entità produce, non semplicemente come
cittadino, ma in quanto portatore di uno statuto specifico di
autorità (auctor) su di un capitale simbolico che gli appartiene
in proprio.
La protezione legale delle idee si inseriva nella logica della
loro abilitazione al rapporto mercantile. La normalizzazione
nella gestione dei prodotti intellettuali comportava e
richiedeva particolarmente, per contropartita, dei principi in
base ai quali definire la contraffazione.
Come si sa bene, questa pratica illecita prosperava alla fine
del diciottesimo secolo, tanto da rafforzare paradossalmente la
necessità di una filosofia contrattualista che tracciasse le
frontiere tra la pubblicazione legittima (autorizzata
dall'autore), la contraffazione (un'edizione pirata), e il
plagio (spogliazione di ciò che appartiene ad altri).
La nozione di plagio è inconcepibile senza fare riferimento alla
filosofia della modernità che ne favorì la concettualizzazione.
L'analisi del suo significato contemporaneo implica almeno tre
dimensioni che, tra le molte altre, rafforzano i fondamenti
della sua negatività.
|
1.
In primis, un’etica legalista s'incarna nella
pretesa del diritto di regolare tutti gli scambi e di
delimitare il perimetro oltre il quale comincia la
delinquenza.
[2]
2. In secundis, poiché la legge non può proibire
ogni cosa sbagliata, gli appelli a una moralità pubblica
di probità accompagnano le strategie volte a
salvaguardare la proprietà intellettuale.
[3]
3. Infine, il rispetto della firma presuppone la fusione
dell'opera col suo autore, il matrimonio del diritto
e dell'ontologia; in breve: l'ammissione di una
vicinanza intima che consente al produttore, sorgente
della legittimità, di fare una cosa sola con il
prodotto, che è il vettore della sua identità.
|
|
Ora, gli
interrogativi avanzati da ogni parte sugli stessi principi della
modernità concorrono a riattivare l'interesse di una riflessione
sul plagio, specialmente a partire dai concetti di soggetto e di
opera, la cui dissociazione reciproca è stata posta in luce dal
post-strutturalismo.
La riconfigurazione della nozione di autore nel discorso della
postmodernità è appunto recentemente servita a porre in luce
l'ambiguità della imputazione a chicchessia di qualsiasi forma
di scrittura, e in particolare di un testo.
Il tema della morte del soggetto annuncia, tutto d'un tratto, la
fine di una metafisica della firma. Il problema della
determinazione dell’origine del discorso, e pertanto della sua
proprietà, permane intero, irrisolto e forse più oscuro che mai.
Una preoccupazione deve essere esaminata, al centro di tale
riflessione: il plagio può ancora esistere in un universo
intellettuale in cui sparisce la possibilità di differenziare la
rappresentazione e il referente, la copia e l'originale, il
copista e l'autore?
Per rispondere a questa domanda e per precisarne tutte le poste
in gioco, bisogna afferrare in che cosa Foucault e il
post-modernismo distruggano ciò che Kant e Fichte teorizzarono,
al fine di discernere che cosa voglia dire "plagiare" in un
contesto in cui le basi stesse della modernità appaiono ormai
screditate.
1. Kant e
Fichte: i fondamenti moderni della nozione di diritto d’autore
La
filosofia ha lasciato in eredità al diritto e all'economia il
quadro normativo di quel che deve essere un autore, in primo
luogo, e poi degli attributi che la pratica della scrittura
comporta.
Tale eredità che essa lascia riposa sulla istituzionalizzazione,
consacrata ormai due secoli fa, delle relazioni tra lo scrittore
e il pubblico. Come era del tutto evidente, bisognava che le
istanze della produzione e del consumo di un libro fossero
conosciute, affinché potessero divenire identificabili le
origini dei loro rispettivi diritti, e i loro modi di esistenza
fossero infine suscettibili di definizione.
Kant, primo fra tutti, non inventa la nozione di autore, ma la
modernizza accentuandone la dipendenza dall'opera. Quest'ultima,
a seguire la sua ispirazione, acquisisce una doppia
determinazione la quale permette di distinguere, al contempo, la
proprietà dell'autore e il possesso dell'acquirente.
Secondo Kant, un libro possiede sempre due livelli di esistenza,
che egli dissocia spartendoli nettamente, per coglierne e
stabilirne lo statuto rispettivo.
|
- Da
un lato, la figura materiale dipende dalla
verosimiglianza. Essa costituisce - nel senso fisico del
termine - un "corpo" di cui chi lo detiene può disporre
a proprio piacimento. Di conseguenza essa si presta alle
diverse operazioni del mercato e alle transazioni del
capitalismo.
- Da un altro lato, Kant sostiene che il libro implica,
per di più, un aspetto spirituale che manifesta la
soggettività del suo autore (individualismo), e anche la
partecipazione intersoggettiva dello spirito
[4]
(universalismo), eternamente irriducibile alla
imposizione di una logica commerciale. |
|
Una struttura
paralogica fonda lo schema kantiano. Il suo sviluppo polarizza
l'uno rispetto all'altro i due domini di ciò che è intellettuale
e di ciò che è funzionale. Innanzitutto, li rende reciprocamente
incommensurabili. La procedura, in qualche modo, equivale a
separare il noumeno dal fenomeno in ciò di cui il libro
consiste. Sul piano delle idee, un legame consustanziale, una
solidarietà perfetta tra l'autore e l'opera creano una
reciprocità, anzi una responsabilità, che fa sì che essi siano
costantemente intrecciati.
Per Kant, nulla autorizza l'alienazione di questa parte anche
nella partecipazione e condivisione con altri di un testo
qualunque. Il filosofo dissipa qualunque ambiguità su questo
tema:
|
La
proprietà che un autore ha sui suoi pensieri [...], egli
la conserva nonostante la riproduzione.
[5] |
|
Nella sua
prospettiva, l'editore rappresenta ma non acquisisce alcun
diritto su questa porzione dell'opera, in quanto egli rimane
estraneo alla sua origine, e di conseguenza non se ne assume né
i meriti né i difetti.
In breve, il contratto colloca nella aderenza del soggetto al
suo discorso la causalità ultima di questo, e stabilisce in esso
il criterio di un diritto personale che appartiene alla
natura del libro.
La "condotta di un affare a nome di un altro", principio
kantiano per eccellenza della delega editoriale, trae quindi la
sua ragion d'essere dal fatto di rinviare alla interiorità della
persona e alle sue qualità.
Sul piano del modo in cui le idee si manifestano materialmente,
un diritto reale fornisce una legittimità al detentore
dell'esemplare, sull'altro versante della paralogia. Collegato
al fenomeno, però, esso non copre se non ciò da cui il libro può
essere alienato; detto altrimenti, la parte che, in esso, si
presta alla vendita e all'acquisto.
Come ben si vede, l'opera, nel senso che le conferisce Kant, si
rivela scissa tra una soggettività non oggettivabile, e un
"pensiero depositato" su di un sostegno concreto, il quale la
apre e abilita allo scambio. Kant utilizza una formula
chiarificatrice:
|
L'autore e il proprietario dell'esemplare possono dire
ciascuno con il medesimo diritto, dello stesso libro:
"E' il mio libro!", ma in due sensi differenti. Il primo
prende il libro in quanto scritto o discorso, il secondo
semplicemente in quanto strumento muto della diffusione
del discorso sino a lui.
[6]
|
|
Due
osservazioni devono essere estratte da questa affermazione di
Kant.
|
-
In primis, ne segue che il diritto d'autore non
concerne una cosa in senso stretto.
- In secundis, l'opera non genera da sé un
diritto reale che secondo una incarnazione tangibile, il
che significa che essa potrebbe persino esistere solo in
astratto, e limitare il campo di applicazione di un
diritto d'autore, senza che alcun oggetto empirico ne
sia il testimone nella pratica: questa, del resto, è la
situazione del libro la cui tiratura sia esaurita. |
|
La
determinazione giuridica del diritto d'autore, quale la enuncia
Kant, risente di una certa ambivalenza. Essa si dispiega in fasi
la cui logica si dimostra contraddittoria, almeno in apparenza:
paralogistica all'inizio, e sintetica alla fine.
Kant pone come distinto per mezzo della filosofia ciò che egli
riconcilia per mezzo del diritto. Da un lato, la definizione
delle categorie di autore e di opera mira a reperire la
differenza ontologica che si trova al cuore stesso di tutti gli
usi della nozione di proprietà.
Cosa si intende con ciò? Semplicemente, che non ci si confonde
affatto con la cosa che si possiede, ovvero, in altri termini,
che non ci si può dire proprietari che di una cosa esterna a se
stessi.
[7]
Per esempio, la proposizione "questo mi appartiene" coinvolge
due termini non identici di cui l'uno non potrebbe essere
l'altro a priori. D'altra parte, la proprietà intellettuale
implica, nella sua determinazione giuridica, che il parallelismo
tra l'opera e l'autore o la loro irriducibilità possano
risultare superabili.
Secondo Kant, questa convergenza possibile sorge allorché la
persona è vista nell'opera (come il noumeno nel fenomeno), e
quella stessa diviene la manifestazione dell'interiorità del suo
autore.
Ora, una tale rappresentazione sintetica costituisce la sola
istanza determinante nella pratica, poiché il diritto le
riconosce delle conseguenze, una operatività effettiva, nel
considerare l'opera come il riflesso della persona.
A questo idealismo che, alla fin fine, si appoggia su un
principio di indivisibilità dell'opera e del suo autore, fa eco
il discorso di Fichte, più "kantiano di Kant".
[8]
Non solo il personalismo morale si consolida qui, ma esso è
duplicato da una fenomenologia estetica che tenta di specificare
ancor più chiaramente la figura del locutore nel libro. Essa
rende così marcata la distinzione tra lo strato materiale e
quello spirituale, rinforzando la gerarchia tra loro. La sua
problematica si fonda innanzitutto su un'interrogazione, e poi
su un modo di argomentazione.
L'interrogazione che egli propone è la seguente: perché si
compra un libro? Raramente “per fare sfoggio della sua carta
stampata, o per tappezzarne i muri”. Piuttosto, egli scrive,
|
bisogna bene che con l'acquisto uno pensi di guadagnare
così anche un diritto su ciò che in esso vi è di
spirituale.
[9] |
|
Per Fichte,
un libro è innanzitutto uno spirito che vi si decanta. Ora, la
comunicazione di tale spirito resta inconcepibile se è amputata
di quello da cui discende. La proprietà intellettuale possiede
tutto il suo senso nella identificazione della parola. E il
diritto di edizione, in Fichte, designa meno "la condotta di un
affare al nome di un altro" (Kant), che non la concessione dell'usufrutto,
nozione, questa, mirante a limitare il potere dell'editore al
ristretto uso della dimensione economica del libro.
La sovranità dell'autore esce intatta, più assoluta che mai,
poiché la commercializzazione del libro rimane sempre ridotta a
nient'altro che l'esercizio di ciò che potremmo chiamare una
"parola prestata".
Il modo argomentativo di Fichte radicalizza la visione di Kant,
introducendo, nell'altra partizione di un trittico spirituale,
un’ulteriore divisione il cui effetto consiste nel dire che un
libro non è solamente il pensiero che esso contiene, ma è anche
uno stile
[10]
che in esso si dispiega. Egli parte da una premessa:
|
a sua
volta, questo elemento spirituale deve farsi oggetto
d'una spartizione o partecipazione.
[11] |
|
I vettori
dell'originalità di esso vengono così demoltiplicati. Essi
arricchiscono considerevolmente l'enunciazione, al contempo
rivelando tutto un pensiero e una maniera di pensare.
Fichte sottolinea così, a confronto del dispregio classico per
la retorica, che le forme, le figure e gli artifici del
linguaggio fanno egualmente parte delle particolarità della
soggettività, e che sono sottoposte, per conseguenza, al campo
di applicazione del diritto d'autore. La disposizione estetica
del ragionamento serve ad avvalorare un principio di
inalienabilità. Scrive Fichte:
|
Ma
ciò di cui assolutamente nessuno può appropriarsi, in
quanto questo resta fisicamente impossibile, è la forma
dei pensieri, l'incatenamento delle idee e i segni nei
quali esse sono esposte.
[12]
|
|
in questa
ottica la nozione di plagio comporta un duplice ancoramento,
poiché la proprietà intellettuale ha ormai, in qualche modo, due
sorgenti di legittimità. La determinazione delle parole da parte
della forma e del contenuto sostanziale moltiplica le
caratteristiche e i segni dell'individualità e contribuisce, in
fin dei conti, ad accentuare l'importanza della firma di
un'opera.
Kant e Fichte hanno, gradatamente, spiritualizzato il libro e,
insomma, situato la sua origine nel raggiungimento conseguito
dall'autore. Per contrappasso, essi dovevano partecipare al
riconoscimento del plagio.
Il loro problema fu quello della costituzione di un riflesso (miroitement)
– nel senso che Richard Rorty dà al termine –, mirante a rendere
il reale identico al suo creatore. La loro soluzione resta
inseparabile dalla regolazione a mezzo del diritto di quella
solidarietà tra i due che non può essere in nessun modo abolita.
I fondamenti che essi hanno posto contraddirebbero così l'antico
sistema, detto del privilegio, che Diderot e Voltaire avevano in
sostanza riconfermato, anzi persino sostenuto.
Se una soggettività d'autore vi era interamente riconosciuta
nell'opera, ella comportava, in questo schema prekantiano, la
possibilità di abolirsi: la cessione del manoscritto all'editore
privava definitivamente l'autore di tutti i diritti.
Si trattava di una merce come un'altra e la sua origine non
faceva in nessun modo fede del suo carattere inalienabile. Al
contrario, la libertà dell'autore includeva quella di darsi in
quanto persona attraverso la stessa materialità dell'opera. La
fine del secolo XX ha comunque gettato un dubbio severo sul
discorso kantiano e fichtiano, incominciando contro di esso un
attacco su un duplice fronte contro la struttura filosofica del
diritto d'autore.
Senza tuttavia abrogare il dispositivo giuridico e senza rendere
inoperanti le regole elaborate attraverso duecento anni,
segnaliamo che lo scetticismo riguardo alla nozione di soggetto,
non meno della spettacolare proliferazione delle nuove
tecnologie, mostra che il diritto è superato da ogni parte.
Da un lato, come è utile ricordare, il campo dell'esperienza
rivela quotidianamente che i modi di comunicazione sfidano le
capacità di regolazione del mondo giudiziario, e tanto più
efficacemente quanto più si dispiegano a livello mondiale.
D'altra parte, se lo strutturalismo aveva particolarmente
favorito la formulazione di un pensiero sui limiti del soggetto,
il poststrutturalismo accelera, o addirittura radicalizza,
questa tendenza e propone, per di più, un (auto)affondamento di
ogni funzione referenziale. In termini chiari, ciò vuole dire
che l'opera non ha più chi ne risponda (l'autore), né a sua
volta risponde a nulla (la realtà).
L'autonomia del testo rispetto all'autore accompagna
l'affrancamento delle parole rispetto alle cose. Così la rottura
della solidarietà in questione, che era costitutiva del diritto
d'autore, rischia di rendere ammissibile l'idea secondo la quale
il plagio non può più esistere dal momento che il discorso non
è, ormai, null'altro che uno “spazio di interferenze” multiple e
di origine non assegnabile. Capofila nella destituzione della
supremazia del diritto d'autore, Foucault suggeriva forse che la
rivendicazione di una paternità sulle produzioni intellettuali
era ormai conclusa?
2.
Foucault e la critica dell’autore
Il discorso contrattualista di Kant e Fichte presupponeva che i
firmatari potessero, sin dall'inizio, appartenere a se stessi
col provare le proprie rispettive identità come un naturale
spazio di appropriazione. Nulla permetteva, allora, di porre in
questione il rapporto a se stesso che si considerava (già) dato
all'origine.
Questa lettura si trova alla base del giusnaturalismo moderno, e
ha favorito una concezione del diritto come trasposizione di una
natura prima. L'opera era vista come l'espressione di un
lavoro su di sé, essa incarnava l'autore, fabbricandogli in
qualche maniera una figura materiale direttamente equivalente a
lui stesso.
Bene: proprio questo classico archetipo dell'umanismo Foucault
vuole mettere in questione, anzi tenta di scuoterne i principi e
di sconvolgerne da cima a fondo le strutture. L'interrogativo
che egli pone in luce è principalmente consegnato al suo testo,
presentato nel 1969 alla Società francese di filosofia e volto
precisamente a sviscerare l'enigma "Che cosa è un autore?".
Vi è difeso, in opposizione al fondamentalismo kantiano e al
personalismo spiritualista, il seguente principio di
argomentazione: non vale più la presunzione secondo la quale si
può ritenere evidente la conoscenza di colui che parla in un
testo. In effetti, il processo della scrittura sfugge alla
designazione di un individuo responsabile. Nessuno potrebbe
farsi determinante totale o ultimo istigatore di un pensiero
[13].
In altre parole, la complessità degli apporti nella scrittura e
la loro irriducibile molteplicità rendono la pretesa di potere
imputare un testo un'impresa o metafisica o ideologica, mai una
presa d'atto empirica.
Insomma, l'opera è abbandonata alla incertezza della sua origine
[14].
"L'assenza è il luogo primo del discorso"
[15].
Questa parola attraversa tutta l'ispirazione di Foucault, ne
punteggia di segnali il percorso, soprattutto guida la sua
critica della autorità e, di conseguenza, della proprietà
intellettuale che continuamente si rivendica su di un testo, dal
punto di vista della influenza della cultura del XVIII secolo.
Per lui, il privilegio della firma è di un tipo ben preciso.
Nella misura in cui dipende da un esercizio di attribuzione, la
sua applicazione sfocia nell'enunciazione di una garanzia
extradiscorsiva che ha per effetto principale di suscitare una
lettura a priori, di operare delle selezioni, di fissare dei
limiti, di escludere o di ridurre, di mettere in gioco delle
regolarità, a rigore, infine, di riprodurre l'intero cerimoniale
storico che ha corso in una data società.
Per comprendere correttamente quel che Foucault voleva dire,
potrebbe essere utile un exemplum fictum: supponiamo che
un testo di cui ignoriamo l'origine circoli senza preciso nome
d'autore, un po' al modo di un racconto popolare, narrato
secondo lo stile "c'era una volta questo o quest'altro
avvenimento o la tale persona".
Sempre proseguendo l'ipotesi, immaginiamo che l'autore sia
identificato al termine di una ricerca qualunque, e che la
scoperta di un 'firmatario' autentico faccia uscire l'opera
dall'anonimato a cui era stata consegnata sino ad allora.
Infine, pensiamo un istante che, con stupore generale, l'autore
o produttore del testo fosse Shakespeare, oppure ancora, secondo
un altro scenario, che un individuo qualunque divenisse, tra
l'indifferenza universale come è del resto facile presumere, il
soggetto della attribuzione.
Allora, tutto un dispositivo di prescrizione e di
normalizzazione entra così in funzione; è certo che esso
disporrà per lo meno una rilettura del testo, e persino
l'esplorazione di un'altra coerenza, secondo, s'intende, che si
trattasse di Shakespeare o del misterioso sconosciuto.
In ciascuno dei due casi, delle interpretazioni differenti,
eventualmente divergenti, farebbero riferimento alla
persona-autore investendo una coerenza singolare attraverso
questa attribuzione. Lapidario, Foucault dichiara:
|
Per
"ritrovare" l'autore nell'opera, la critica moderna si
serve di schemi assai vicini a quelli della esegesi
cristiana quando voleva provare il valore di un testo
tramite la santità dell'autore
[16]. |
|
Che cosa
denota l'evocazione di una tale circostanza immaginaria, che
vantaggio pedagogico apporta, al fine di una rilettura del
rapporto tra l'opera e colui che la genera, e di che conclusioni
essa è testimone nella critica foucaultiana?
Il soggetto non è importante per comprendere un testo (e questo
Eco dimostra di saperlo bene), piuttosto ne distrugge la
possibile polivalenza; esso lo deporta sui lidi di una
speculazione ontologica e impedisce al discorso di “fare evento”
di per se stesso.
Lawrence Olivier descrive così tutti i misfatti che Foucault
attribuisce a esso, scrivendo:
|
L'autore è un'altra forma di limitazione, di rarefazione
del discorso.
[17]
|
|
Alla diagnosi
del male fa seguito l'invocazione di rimedi tutti impregnati di
medicina strutturalista:
|
il
testo non è la voce del suo produttore, ma un processo
anonimo, senza soggetto, un'azione del linguaggio su se
stesso.
[18] |
|
Vi è, in
questa inclinazione foucaultiana, la messa in opera di
un'impresa di liberazione non politica, ma epistemica, che si
può rintracciare sul piano critico (fatticità
dell'apprezzamento dell'opera da parte dell'autore) e cognitivo
(impossibilità di reperirne l'origine in qualunque maniera).
Che si possieda o meno l'identità del firmatario, Foucault pensa
che non si trarrà mai da tale conoscenza un fattore esplicativo.
Questo ragionamento comporta, lo si vede, la destituzione di un
genere letterario: la biografia, il racconto di una vita.
Invalida anche una disciplina, la psicologia.
Quali le ragioni di questo discredito? Si tratta di due
orizzonti di esposizione del soggetto, della sua precarietà e
inconsistenza. L'insistenza sulle pratiche discorsive piuttosto
che sul rimando alla "autorità dell'autore" – per impiegare un
pleonasmo – non si rapporta certo alla sparizione fisica
dell'enunciatore (del discorso), ma alla decostruzione della sua
efficacia nel discorso
[19].
Per Alexander Nehamas l'adozione di tale atteggiamento comporta
nulla di meno che una netta dissociazione tra scrittore e
autore; il primo rifiuta ogni tutela interpretativa sul
testo poiché egli si pone fuori di lui, nella sua ottica; il
secondo, di contro, magnifica l'atto dello scrivere e fa della
sua propria produzione il 'punto di caduta' della sua intenzione
profonda e del suo voler-dire
[20].
Il problema dell'autore in Foucault è che egli descrive se
stesso come causa formale mentre egli non costituisce che un
destinatario, a somiglianza dello stesso lettore. In tal modo
viene a confondersi la frontiera tra l'artigiano di un testo e
il pubblico dei lettori.
Nessuna di queste polarità può mantenere l'altra in ostaggio,
pretendendo di esaurire così il senso.
3.
Il post-moderno e il testo senza autore
Lontano dalle singolarità, dalle differenziazioni troppo marcate
e delle esclusive, il campo di determinazioni dipende da
relazioni complesse e globali, da una matassa di legami che
sfugge, insomma, alla appropriazione degli uni quanto degli
altri.
A partire da questo, si può affermare che la proprietà
intellettuale non esiste più, nel contesto di quella
postmodernità della quale Foucault fu partecipe, se non come
difensore, senz’altro come autore, paradossalmente proprio nel
senso in cui non voleva intenderla. Le nozioni di originalità e
di plagio, il suo contrario, costituiscono, a parlare
strettamente, delle categorie metafisiche; l'una e l'altra,
prese alla lettera, non resistono all'esame.
Gli autori della antichità non vi sentivano alcun vantaggio,
tanto erano invece attenti a scrivere valorizzando la fedeltà
alle regole di un genere: la tragedia, l'epica
[21].
Il romanticismo ha grandemente contribuito, nel XIX secolo, a
isolare l'autore facendone un "essere d’eccezione", essendo la
sua attività data come una singolarizzazione perfetta. Per
contro, non è forse il plagio proprio una ripresa sprovvista di
ogni singolarità?
Può il plagiario non essere altro che una istanza della
ritrasmissione della voce dell'altro, col riprodurre la
configurazione e trasporre il senso in una copia conforme?
Gli "autori" della postmodernità credono piuttosto che la
riproduzione di un testo non sarebbe integrale qualora il
contesto non fosse lo stesso. Poiché esso cambia senza sosta, la
riproducibilità non si ridurrebbe mai a una copia conforme, in
maniera tale che il plagio non è dunque altro, tutt'al più, che
un idealtipo del rapporto al pensiero altrui.
Malgrado la diversità degli usi e delle letture che vi
prevalgono
[22],
il postmodernismo confina la scrittura al destino di una
incessante ricomposizione. A nome della impossibilità di
arrestare il senso, di issarlo in rappresentazioni definitive,
il plagio è in esso semplicemente ricusato, poiché ogni
ripetizione è nello stesso tempo spiazzamento, reinvestimento
dei contenuti semantici.
Ottica similare, filosoficamente pertinente ma giuridicamente
assurda, veicola un "pensiero della ripetizione" come fondamento
della scrittura
[23].
L'argomentazione segue questa logica: ogni opera riconoscibile o
semplicemente comunicabile passa attraverso una "griglia" di
segni, e attraverso la molteplicità delle voci che proliferano
per mezzo delle esperienze linguistiche, a tal segno che essa
non è alcunché che non sia già oggetto di una pratica di natura
intersoggettiva
[24]
.
La nozione di proprietà intellettuale implica, o addirittura
richiede, un sapere di ciò che appartiene a se stesso e di ciò
che appartiene all'altro. Jean-François Lyotard non vede alcun
interesse né nello stabilire tale distinzione, né in una analisi
dei modi di incidenza del diritto d'autore.
La proprietà letteraria, egli osserva, "non è davvero un grande
problema"
[25],
bensì semplicemente "un caso di applicazione della legge del
valore" in un sistema capitalistico che recupera tutto ciò che è
“mercantilizzabile”.
La critica di questa categoria deve metter luce su tutto quello
che corrisponda alla appartenenza comune e ne dipenda,
rifiutando però di considerare la firma come la "chiusura del
terreno scritturale"
[26].
In una certa misura, l'esercizio stesso della parola si
iscriverebbe sempre, secondo lui e molti altri, in una
operazione di disappropriazione, di dispersione costante
dell'origine. È questo che ci ricorda Vandendorpe citando le
conclusioni di Roman Jakobson:
|
La
proprietà privata nel dominio del linguaggio,
semplicemente non esiste: tutto è socializzato.
[27] |
|
I pensatori
della postmodernità non fanno altro che sottoscrivere questa
tendenza, anzi la rincarano. A loro giudizio, l'attività dello
scrittore non si situa che nella intertestualità; in essa
predominano delle ricombinazioni, dei riciclaggi, delle
giustapposizioni di elementi disparati ed eterogenei rispetto al
lavoro su di sé, in breve vi predominano dei prestiti ridisposti
attraverso una sorta di "dialogismo", per riprendere qui la
terminologia di Bachtin.
Il dispiegamento del discorso non si spiega, a conti fatti, che
attraverso lo schema caratteristico del barocco: miscuglio di
apporti senza una provenienza indicabile, e dunque fine della
originalità.
Da Foucault a Lyotard, da Derrida a Baudrillard fino alla
produzione letteraria di Umberto Eco, la scomparsa della firma,
se non dello stesso scrittore, non risponde solamente al
progetto della realizzazione di una "decostruzione" radicale
dell' autoriferimento (l'illusione di essere il soggetto
della propria opera). Esso costituisce altresì un programma, a
rigore anzi una nuova politica. L'utopia post-moderna è quella
dell'anonimato. Essa consegna, negli atti di scrittura, l'opera
in retaggio, per la condivisione (en partage).
Antiumanista, questa utopia fa appello a una sorta di effusione
del sé che si spinge sino alla sua finale dissoluzione.
Antikantiana, essa mostra che non vi è niente dietro
l'apposizione di una firma, se non degli imperativi regolanti
gli scambi commerciali. Lyotard voleva incarnarla nello stesso
testo:
|
Noi
abbiamo sognato (...) d'un libro senza titolo e senza
nome d'autore.
[28] |
|
Una tale
speranza era ingenua, egli confessa. Eppure, essa svelava
un’ambizione, nutriva di sé una sublimità consistente, per
l'essenziale, a investire l'indeterminabile e lo sconosciuto di
una specie di mistica. Questo ineffabile si chiama l'Altro.
Derrida non cessa mai di interpellarlo. Il titolo di uno dei
suoi ultimi libri è, a questo proposito, fortemente rivelatore:
Sauf le nom
[29].
In senso lato e un poco astratto, si tratta di ciò che non ha
nome e sfugge, di conseguenza, alla denominazione ovvero, se si
vuole, alla regolazione (enfermement) e all'esclusione.
Una strategia di eteroriferimento (il rinvio all'Altro piuttosto
che a sé) entra in scena in Derrida come opzione sostitutiva
rispetto alla concezione kantiana del libro:
|
Io lo
lascio firmare, se almeno lo può. Bisogna sempre che
l'Altro firmi ed è sempre l'Altro che firma per ultimo.
O, altrimenti detto, per primo.
[30] |
|
Ecco chi
disegna un nuovo incantesimo attraverso la depersonalizzazione
del testo.
4.
Dal postmodernismo a una concezione funzionale del plagio
Il
congedo dall'autore comporta tutta una serie di ripercussioni
sullo statuto dello scritto e, all'occorrenza, sulla
comprensione che si può ricavare del plagio nel contesto della
postmodernità.
La sfida in effetti diviene quella di cercare un cammino, di
aprirsi un passaggio al margine delle aporie del personalismo
kantiano e di quelle, dopotutto non meno severe, della
squalificazione foucaultiana di qualunque "firma". Gli ordini di
argomentazione sembrerebbero seguire una logica assolutistica, e
arroccarsi dietro posizioni imprendibili.
Enumeriamo ora le principali implicazioni della risposta
post-moderna a Kant, per poi concludere col tentativo di fornire
una lettura possibile dell'autore e del plagio:
1. Separazione della ontologia e del diritto.
Questi discorsi non sono più corollari l'uno dell'altro. Il
postmodernismo serve a porre una distanza tra loro. Esso
rintuzza ogni pretesa a trarre il giusto dal vero (Lyotard), a
iscrivere il potere in un dispositivo di riconoscimento del
sapere (Foucault), o, da ultimo, a investire il diritto
prendendo spunto da questa conoscenza privilegiata che
l'ontologia ambisce a conquistare (Derrida).
Esso abbandona l'opera ai venti mutevoli dell’intersoggettività
(e dell’intertestualità) e le sottrae la soggettività della sua
origine proprio spezzando il legame con l'autore. In breve,
questo discorso disarticola il moralismo che postulava legami
tra la filosofia (che cosa si può sapere?) e politica (che cosa
si può fare?).
2. Separazione di storicità e di testualità.
L'opera non testimonia che della propria esistenza; essa non
rinvia che a se stessa. Non è più condotta dalla storia, che ne
sarebbe il principio di possibilità. Tutto il suo sviluppo
l'allontana non solamente dal processo storico come fonte di
spiegazione secondo il modello conservato da Hegel e da Marx, ma
anche dalle condizioni prevalenti nel suo ambiente.
In breve, l'enunciato che suggerisce che la storia fornisce il
senso non ha senso per i post-moderni, che tentano di
destoricizzare e decostruire l'opera. È quel che Derrida (in
linea con Eco: “andate a chiedere al testo il significato di
quello che scrivo. Io non ne so più di voi.”) annunciava in
De la Grammatologie, osservando che non v'è nulla al di
fuori del testo.
3. Dissoluzione del plagio attraverso la non responsabilità
dell'autore.
Plagiare significa tradurre in un modo che è negativo, dato che
gli fa difetto la legittimità. Questo atto magnifica dunque a
contrario la "responsabilità" di qualcuno, una nozione la cui
radice mostra chiaramente proprio questo: respondere significa
che un soggetto sia in grado di rispondere di qualche cosa.
Ora, la non transitività o l'intraducibilità dell'opera da parte
dell'autore conduce, secondo i pensatori della postmodernità,
alla sparizione dell'originalità e del plagio per mancanza di un
garante cui si rechi pregiudizio. Si annuncerebbe piuttosto la
fine della usurpazione del diritto d'autore, della alienazione
nel campo intellettuale.
Su questa traccia, Baudrillard nota come la trasparenza degli
altri divenga la norma universale
[31],
in modo tale che non è più possibile deprivare chiunque dei suoi
diritti o di una qualunque proprietà.
Che cosa resta dunque dell'autore nella postmodernità? Nulla,
almeno secondo le osservazioni precedenti. Tuttavia, una critica
si impone non tanto per arrestare il dibattito, quanto,
piuttosto, per mostrare le insufficienze dei tentativi
contemporanei dispiegati mirando a un superamento degli
imperativi kantiani in materia.
In primo luogo, sul rapporto tra l'ontologia e il diritto, i
vari Foucault, Derrida, Lyotard, Baudrillard sono stati incapaci
fino al presente di reinventare una nuova forma di
riconoscimento dello scrittore piuttosto che dell'autore
(secondo la distinzione precedentemente menzionata di Nehamas).
Per giunta, non si vede come il diritto potrebbe funzionare
concretamente a partire dai principi di una filosofia
post-moderna.
In secondo luogo, la dissociazione tra la storia e il testo non
può fare a meno di porre un certo numero di problemi. Infatti,
se anche la storia non contiene in se stessa un senso che le sia
intrinseco, è tuttavia vero che il contesto resta essenziale per
comprendere il senso di un testo. Non bisogna confondere il
processo e le condizioni della storia: il primo non determina
nulla di per se stesso, ma le seconde fanno parte
dell'interpretazione che si apre sull'opera stessa.
Un esempio: sapere che Mein Kampf è stato scritto da
Adolf Hitler anziché da Madre Teresa cambia radicalmente la
lettura dell'opera, modifica il senso che le si accorda, se non
addirittura esige una messa in relazione con certi dati della
storia stessa che sono suscettibili di chiarificarla. Ciò non
vuole dire che la produzione di questo libro sia segnata da una
specie di destino ineluttabile.
Ma il fatto che questo autore piuttosto che un altro sia stato
nell'ambiente immediato di questa opera capovolge in modo
fondamentale la percezione del messaggio che, per il resto, non
esiste affatto, in maniera positivistica, al riparo da tutto ciò
che lo circonda. L'autore è una componente della contestualità
che non si può sottrarre alla comprensione dell'opera. Gracia è
chiaro a questo riguardo:
|
Texts
do need historical authors, for texts without authors
are texts without history, and texts without history are
texts without meaning,that is, they are not texts.
[32] |
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Infine,
perché una relazione esista tra il testo, la storia e il
significato, la nozione di responsabilità deve essere
reinvestita e non negata sotto il pretesto che l'autore non sia
il solo produttore, l'unica fonte di tutti gli elementi
costitutivi del suo discorso.
Bisogna dunque reinventare una concezione funzionale del plagio
la quale, tenendo conto delle critiche dell'umanismo, sappia
allo stesso tempo evitare le trappole del nichilismo e
dell'idealismo che lo sottende.
Leggere un testo, che lo si voglia o no, è incontrare
"qualcuno", situato "da qualche parte", che dice "qualche cosa":
"qualche cosa" che non si può separare nella complessità di un
dispositivo che si sottrae a una intelligibilità unilaterale.
Comincia qui un problema epistemologico insolubile, tuttavia,
dal momento in cui si punta a delle determinazioni univoche
entro queste dimensioni del testo, addossandole poi le une alle
altre secondo una logica globalizzante e astratta.
Come, allora, ricostruire una nozione di responsabilità, e con
essa di plagio, che si tenga lontana tanto dal nichilismo quanto
da una visione sostanzialistica dell'opera?
Un suggerimento per la riflessione – che peraltro dovrebbe
essere concettualizzato filosoficamente e giuridicamente –
lascia forse intravedere una fuga verso un altro orizzonte
interpretativo. La comprensione del plagio non deve più essere
"indicizzata" a una designazione dell'origine, ma a una ben
circostanziata originalità. Nulla è più illusorio che trattare,
specie nelle scienze umane, la circolazione delle idee come se
esse potessero venire brevettate alla stregua di oggetti
tecnici, oggetti la cui utilizzazione si presterebbe così a
ordini di funzionalità ben più facilmente reperibili.
Per contro, dissolvere proprio ogni considerazione sul plagio
con la scusa che non si può mai sapere "chi" per primo ha detto
"cosa" sarebbe una posizione tanto insensata quanto
irragionevole.
La sfida consiste dunque nel conservare le acquisizioni della
critica post-modernista, contemporaneamente mirando a una
identificazione funzionale del plagio. Ora, il solo modo, a
nostro avviso, di pervenire a ciò consiste nel non associarlo
più a una spoliazione delle idee dell'autore, ma a una
riproduzione dell'uso che egli ne fa.
Nessun tema o rappresentazione pareva suscettibile di
appropriazione, ma le sue applicazioni invece generalmente
possono esserlo.
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