agli incroci dei venti

 
 

Psiche e Techne

Psicosi e televisione (1)
 

di Angelo Moroni

 
 

“Donna irrequieta è follia, una sciocca che non sa
nulla. Sta seduta sulla porta di casa, su un trono,
in un luogo alto della città, per invitare I passanti
che vanno dritti per la loro strada: “Chi è
inesperto venga qua!”. E a chi è privo di senno
essa dice: “Le acque furtive sono dolci, il pane
preso di nascosto è gustoso”.Egli non si accorge
che là ci sono le ombre e che I suoi invitati se ne
vanno nel profondo degli inferi”
 

Proverbi (9, 13-18)


Marcel Sassolas, in un paragrafo intitolato Civiltà tecnologica e psicosi: stessa battaglia, del suo recente libro “La terapia delle psicosi” (1999), mette in evidenza che la posta in gioco nella lotta dello psicotico contro il mondo è stranamente la stessa che sembra promuovere anche lo sviluppo della civiltà tecnologica nel suo complesso.

“L’idea del progresso, che è il mito centrale di questa civiltà tecnologica, colloca da qualche parte una vita migliore, una pienezza di felicità da trovare seguendo un vettore puntato sempre avanti, verso il futuro. E tutto per meglio mascherare ai nostri occhi il fatto che questa idea di progresso veicola la folle nostalgia della pienezza narcisistica primaria, all’altro capo del vettore della nostra storia, nel più profondo passato di ciascuno di noi” (p. 30).

Psicotici e tecnocrati, dunque, incapaci di rinunciare al sentimento di pienezza senza limiti del narcisismo primario, sarebbero così imparentati dalla stessa difficoltà/impossibilità a pensare quegli aspetti della vita che rendono difficile e penosa l’esistenza di tutti: i lutti, appunto, le separazioni, i limiti, la morte.
Temiamo che chi non conosce il testo potrebbe scambiare queste tematiche per quelle troppo diffuse banalizzazioni della psicosi che finiscono per ridurla a un fenomeno antropologico universale e tuttavia confuso, vago. Concezioni che riteniamo non solo teoricamente discutibili, ma anche clinicamente dannose, perché privano gli operatori della salute mentale proprio di ciò che sarebbe necessario per far fronte alle loro gravose responsabilità: una teoria seria, cioè plausibile e convincente, che li aiuti a comprendere la specificità dei fenomeni di cui si occupano e a farsi carico delle notevoli responsabilità che ne derivano.
Sassolas però non appartiene alla schiera dei vari e vaghi edulcoratori della psicosi, e per il modello che propone sa fornire diverse ragioni, tutte pertinenti e clinicamente fondate.
La differenza sostanziale fra noi normaloidi e i nostri utenti più sfortunati consisterebbe nella qualità dei sistemi di difesa mobilitati per far fronte a queste problematiche fondamentali.
Mentre noi siamo continuamente costretti a mostrare di essere già divenuti “questo famoso Io che tutti siamo spinti a diventare” (p. 32), gli psicotici intraprendono una strada diversa.
Terrorizzati o irriducibilmente disgustati dalla realtà, essi realizzano “l’impresa sistematica e insidiosa di spodestamento di sé, di esilio dalla propria vita psichica, di erosione dell’identità, di dissoluzione progressiva verso l’anonimo, l’impersonale, l’atemporale” (p. 29).
La psichiatria classica, accusata non sempre a ragione di ogni male (e però certamente criticabile, poiché ossessivamente interessata solo ai sintomi e al loro controllo), non si è saputa rendere conto che le sue pratiche non andavano nel senso di contrastare questa tendenza implicita nel funzionamento psicotico, ma ne facilitavano anzi lo sviluppo.
Pur senza volerla demonizzare (questa psichiatria “dimostra di essere più sciocca che cattiva”, “più complice che responsabile” – scrive), Sassolas ritiene che debba essere sottolineato che essa, la psichiatria classica, ha appunto assecondato la psicosi, “accarezzandola nel senso del pelo” (p. 28) invece di affrontarne terapeuticamente la tendenza alla deriva depersonalizzante.
Proviamo allora a riassumere che cosa afferma Sassolas per definire la psicosi, in diversi luoghi del suo testo., per cercare poi di mostrare quali e quante zone di contatto con il modus vivendi dello psicotico, possiamo trovare in un certo modo di utilizzo e fruizione del mezzo tecnologico. Partiremo dal mezzo televisivo, per poi estendere la nostra esplorazione, ad altri campi della tecnologia.
Il capolavoro del funzionamento psicotico, il lavoro più compiuto delle difese messe in campo contro la vita psichica e il contatto con gli altri, è certamente il ritiro autistico che si osserva nei pazienti più gravi.
Il risultato di questa “invaginazione all’interno di se stessi” (p. 31) è, insieme al suicidio, la risposta più radicale e più efficace alla dimensione tragica dell’esistenza umana; quella dimensione angosciosa e incerta con la quale lo psicotico rifiuta assolutamente di confrontarsi.
Dato però che questo ritiro – per fortuna – non è quasi mai completo, ecco che lo psicotico, seppur riluttante, si lascia coinvolgere dal mondo che lo circonda e prova ad intrattenere una relazione sui generis con i suoi curanti.
Ciò che si osserva in questi casi è allora, appunto, l’insufficienza del lutto originario.
Incapace di rinunciare alla perfezione del narcisismo primario, lo psicotico proietta su di un altro “questo stato di perfezione iniziale e l’investimento di quest’altro come prolungamento narcisistico di sé” (p. 31).
 (Continua)
 

 

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5/04/05

 

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