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“Fino a non molto tempo fa, ve
lo ricorderete, tenevamo la televisione accesa e nel frattempo ci
facevamo un caffè, rammendavamo un calzino, facevamo del sesso; oggi noi
siamo seduti lì, davanti immobili e dentro lo schermo si fanno un caffè,
rammendano un calzino e fanno del sesso”
Sabina Guzzanti (Reperto
Raiot, Rizzoli, 2005).
Perché esiste questo parallelismo così netto tra psicosi e televisione?
Innanzitutto perché la caratteristica principale, il parametro, l’invariante
funzionale che caratterizza entrambi i fenomeni è quello di porsi in
conflitto distruttivo con il pensiero. Se, come afferma Bion, la “mente
è un apparato per pensare i pensieri”, la malattia psicotica è una
ribellione permanente, onnipotente e onnipervasiva contro tale apparato.
Anzi, diciamo che desidera distruggere, tale apparato, sostituendolo con
un altro, fatto di immagini alternative alla realtà (l’allucinazione), e
di convinzioni erronee (il delirio). L’uso che si fa della TV è isomorfo
a tale struttura, nel senso che la TV si è da tempo ormai immemore,
completamente sostituita alla realtà. Di più: essa è una realtà “altra”
cui consentiamo di entrare in casa nostra, 24 ore su 24. Una realtà
fatta di desiderio sempre allucinato, mai reale, e che tende a generare
convinzioni totalmente svincolate dall’asse temporale su cui si fonda la
memoria, e di conseguenza il pensiero. Il “pensare” mette in scena un
distacco, una separazione, e proprio in funzione di tale “vuoto”, si dà
pensiero, altrimenti assistiamo semplicemente a un amorfo, liquido e
continuativo scorrere di immagini (come accade in TV) che portano il
segno di un atto feticistico, dove l’immagine è lì per se stessa, e non
si pone come evocazione, rimando, ma come statico peso autoreferenziale.
Ci si potrebbe tuttavia domandare come è possibile che la tv possa
diventare generatrice di pensiero (nel caso del “pubblico” ricevente) se
questo sfondo depressivo-luttuoso del distacco (il “lutto originario” di
cui parla Sassolas) è forcluso psicoticamente, dalla fruizione
televisiva. E’ una domanda centrale. Infatti la in-cultura post-moderna
tende, come sua strategia di base, a nascondere artatamente questo
aspetto, che è come dire cancellare la memoria (le immagini sono sempre,
per così dire “in diretta”) per cancellare-non soffrire-il lutto. La
TV-come-psicosi tende a sostituire il lavoro continuo del lutto,
attraverso cui, nel corso del tempo, decanta l’atto di pensiero , con
“superfici” piatte e liquide, generando l’illusione onnipotente
dell’assenza del dolore, cioè del piacere, dell’immagine continui. E’ un
illusione, appunto feticistica, che a voler ben guardare, ha somiglianze
incredibili con una configurazione tossicomanica, psicotica dove “la
roba” assume un significato di feticcio, che garantisce l’illusione di
una potenza sempre perennemente ai massimi livelli. Per ottenere tale
effetto, la cultura televisiva, lavora malignamente sul confine delicato
e soffuso tra lutto e creazione, operando principalmente attraverso gli
strumenti della scissione, della scotomizzazione e dell’iperstimolazione.
Nel prossimo editoriale studieremo più da vicino tali meccanismi
patologici.
(Continua)
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