agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti  
 
 
 

 Itinerario errabondo: poesia e migranza

 

di Laura Montanari

 
 

Non è stato agevole individuare una rotta secondo i miei obiettivi, navigando nel vasto mare della poesia italiana , pur avendo definito precise coordinate temporali, dalla fine Ottocento ad oggi, e spaziali, la letteratura italiana.
La corrente predominante del lirismo orienta le rotte, tende cioè a imporre il tema del viaggio, della migranza, come “ulissismo”, e dunque come percorso personale, in prevalenza metaforico, di tanti poeti italiani e stranieri, segnato dagli approdi a liriche seduttive come il canto delle sirene.
Facile e coinvolgente seguire questa corrente.
Ma volendo esplorare l’ambito della poesia etico-civile, la navigazione è più difficoltosa, più rarefatto lo spazio in cui ci si muove, perché ci si ritrova a bordeggiare ai margini della grande corrente,verso rive meno conosciute, forse anche perché meno appariscenti. Maggiori le difficoltà poi, se l’obiettivo mirato della ricerca è la migrazione, l’erranza di gruppi di uomini o di singoli uomini, come esperienza reale, come fatto realmente accaduto e sofferto.

Questa prima tappa attraverso la poesia-testimonianza, la poesia-denuncia, la poesia-lamento, avvicina a poeti, o per l’occasione tali, come
Edmondo De Amicis ( 1846-1908), Dino Campana (1885- 1932), Giuseppe Ungaretti (1888 - 1970), Rocco Scotellaro (1923-1953), Salvatore Quasimodo (1901- 1968) e Pier Paolo Pasolini (1922-1975).
Poeti di diversa provenienza, di vario spicco , di disparata formazione e produzione letteraria, in un itinerario veramente errabondo, ma non alla deriva, spero.

Nelle poesie di
Ungaretti, SILENZIO (1916, da “L’allegria”, sezione “Il Porto sepolto”), di Scotellaro, PASSAGGIO ALLA CITTA’ (da “E’ fatto giorno”- 1954 ) di Quasimodo ‘, LAMENTO PER IL SUD (da “La vita non è sogno” 1949) c’è l’esperienza comune del distacco dalla terra di nascita, rivissuto a distanza di spazio e di tempo, attraverso la memoria. Liriche che esplicitano l’intima sofferenza degli animi mediante l’evocazione coloristica, circostanziata del paesaggio o mediante accenni narrativi alla storia dei luoghi , e dunque distanti dalla metafora, dal simbolo.
Per tutti c’è l’abbandono del Sud, e dunque trattasi di “migrazione interna” ; si può considerare tale anche quella di Giuseppe Ungaretti , che lasciò la nativa Alessandria d’Egitto dopo avervi trascorso gli anni dell’infanzia e adolescenza, in quanto figlio di genitori lucchesi emigrati per i lavori del canale di Suez.

Il viaggio di trasferimento si compie in nave, nella poesia di Ungaretti (...dal bastimento/ verniciato di bianco…), in treno, in quella di Scotellaro, ed è un viaggio notturno, perché la notte nasconde ciò che si abbandona, ma genera comunque sofferenza. Per quanto riguarda Quasimodo non ci sono elementi in tal senso, ma c’è, e ciò accomuna i tre testi, il viaggio “di ritorno”, del sentimento e del pensiero, sulle ali del ricordo.
E’ la poesia di Ungaretti che più insiste sul momento puntuale del distacco:
Me ne sono andato una sera ./ Nel cuore durava il
limìo/delle cicale… ho visto/ la mia città sparire/lasciando/ un poco/ un abbraccio di lumi …
Le due figure, tra metafora e sinestesia, danno intensità ed emotività al momento della partenza, e così accade anche nei versi di Scotellaro …La città mi apparve la notte/ dopo tutto un giorno/ che
il treno aveva singhiozzato,…
L’evocazione dei luoghi del distacco porta con sé , se non proprio la mitizzazione degli stessi, almeno tratti evidenti di una connotazione positiva dei paesaggi, quasi paradisi perduti:
…Conosco una città / che ogni giorno s’empie di sole/ e tutto è rapito in quel momento: così
Ungaretti, nella sua nota sobrietà di costruzione del verso.
Scotellaro effonde in una lirica a versi liberi immagini umanizzate della sua Lucania e via via dalla personificazione del paesaggio passa a richiamare la sua gente, e con essa gli affetti:
..Addio, come addio? distese ginestre,/ spalle larghe dei boschi/ che rompete la faccia azzurra del cielo,/ querce e cerri affratellati nel vento,/ terra gialla e rapata/ che sei la donna che ha partorito, /e i fratelli miei e le case dove stanno/ e i sentieri dove vanno come rondini/ e le donne e mamma mia…
Quasimodo, con la figura insistita della preterizione (Ho dimenticato..ho dimenticato...) ci consegna in realtà belle suggestioni visive e uditive del paesaggio siciliano, ancora incorrotte dai mutamenti della modernità: ... il mare, la grave/ conchiglia soffiata dai pastori siciliani,/ le cantilene dei carri lungo le strade/ dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,/ … il passo degli aironi e delle gru,/ nell’aria dei verdi altipiani... Questo universo di natura e vita è dal poeta contrapposto fin dai primi versi al paesaggio del Nord, della Lombardia in cui ormai vive, in cui ha creato legami affettivi, e nell’antitesi delle immagini si consuma anche la contraddizione dolente che tormenta l’animo, confidata suo malgrado alla sua donna, come si legge nella chiusa:
La luna rossa, il vento, il tuo colore/ di donna del Nord, la distesa di neve…/ Il mio cuore è ormai su queste praterie,/ in queste acque annuvolate dalle nebbie. (Incipit) E questa sera carica d’inverno/ è ancora nostra, e qui ripeto a te/ il mio assurdo contrappunto/ di dolcezze e di furori, / un lamento d’amore senza amore. (Chiusa)
Il lamento che dà il titolo alla poesia non è solo sfogo lirico; nella strofe centrale del testo il poeta lascia i moduli più tipici del precedente stile ermetico per assumere una forma espressiva più aperta e vibrata, ritmata da incalzanti ripetizioni e parallelismi, per dare voce alla tematica civile, alla denuncia sofferta del travagliato destino della Sicilia, che ancora (nel 1949) non è riuscita a riscattarsi da secoli di miseria e pene:
Oh, il Sud è stanco di trascinare morti/ in riva alle paludi di malaria,/ è stanco di solitudini, stanco di catene,/ è stanco nella sua bocca/ delle bestemmie di tutte le razze/ che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,/ che hanno bevuto il sangue del suo cuore./ Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,/ costringono i cavalli sotto coltri di stelle,/mangiano fiori d’acacia lungo le piste/ nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse…
La veemenza di questo lamento si ricollega ai toni appassionati delle poesie sulla guerra (raccolta “Giorno dopo giorno”-1947) e di altre poesie di impegno etico-civile ( “ La vita è sogno”-1949), in coerenza con la nuova scelta di poetica, che chiede le strutture del “linguaggio del reale”, una poesia “corale, dai larghi ritmi”, che “parla del mondo reale con parole comuni” e “talvolta presume all’epica” , a partire da un programma che Quasimodo aveva teorizzato già nel 1946 :
Rifare l’uomo: questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle “speculazioni” è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno…” (saggio sulla Poesia contemporanea)

Anche nella poesia di
Rocco Scotellaro un paesaggio “altro”, quello della città ( Napoli, grande metropoli rispetto alla lucana Tricarico) fa da contrappunto a quello nativo, e ben più che per Quasimodo la Lombardia, dà al poeta il senso dell’estraneità: ... Città del lungo esilio/ di silenzio in un punto bianco dei boati,/ devo contare il mio tempo/ con le corse dei tram,/…e il senso della assenza, della mancanza, marcato dall’anafora, nella chiusa: ….e non c’era la nostra luna,/ e non c’era la tavola nera della notte/ e i monti s’erano persi lungo la strada.
Lo sgomento della perdita del proprio Eden viene dichiarato fin dai primi tre versi, che sorprendono perché l’anafora del primo e terzo (Ho perduto…ho perduto) ha due oggetti antitetici: la schiavitù contadina e la mia libertà… Ritroviamo qui, anche se appena accennata, la denuncia della pesante condizione contadina del Sud, retaggio di secolare schiavitù, da parte di un uomo che , come militante socialista, si era impegnato nell’azione politica per il riscatto della sua terra, scontando anche la prigione. Eppure non si attenua la dolorosa nostalgia del paese, che consentiva al poeta di sentirsi “libero” in spirito, di vivere il contatto con la natura, rapporti spontanei con la gente (in città: …devo… regolare il mio pianto, il mio sorriso), perciò il trasferimento alla città diviene “esilio”.
La parola richiama allora, inevitabilmente, il “lamento”di Quasimodo, quando proclama, dal fondo della sua angosciosa contraddizione, “il diritto alla patria”, a mantenere pur da lontano, dall’esilio, un legame stretto con essa: ... Ma l’uomo grida dovunque la sorte di una patria./ Più nessuno mi porterà nel Sud.
Tale diritto sembra negato al poeta Ungaretti , che in una lirica del 1918, fin dal titolo,
GIROVAGO (da “L’allegria”) confessa:
In nessuna /parte / di terra/ mi posso accasare . Ad ogni/ nuovo /clima/ che incontro/ mi trovo/ languente/ che/ una volta/già gli ero stato/ assuefatto. E me ne stacco sempre/ straniero Nascendo/ tornato da epoche troppo/ vissute.
La migrazione, quasi condanna fatalistica, condizione abituale dell’esistenza, è qui però più metaforica, psicologica, che reale, anche se è vero che la vita di Ungaretti fu soggetta a vari trasferimenti. Questa ammissione di un dolente sradicamento dai luoghi della terra prelude allo sradicamento, alla frattura drammatica che segnò l’esistenza di Mohamed Sceab, a cui il poeta dedica la lirica
In memoria (1916, da “L’allegria”, sezione “Il Porto sepolto”)

E’ l’ultima poesia a cui approdo, in questa prima tappa del mio itinerario errabondo, perché essa conduce al tema della migrazione “esterna”, fuori dalla propria nazione , e anche se riguarda un singolo uomo, che non è più il poeta stesso, prefigura l’esperienza di quei gruppi di uomini che, dalla fine dell’Ottocento ad oggi, hanno preso e prendono il mare per cercare una patria fuori dalla loro patria, spesso fallendo nelle loro speranze, nei loro obiettivi.
E’ dunque anche la poesia che “fa ponte” fra quelle esaminate e quelle di D.Campana, di E.De Amicis e di P.P.Pasolini (di cui farò lettura nel prossimo appuntamento) , che, pur nella diversità, sono poesie-testimonianza della migrazione come fenomeno collettivo, storico.

Mohamed Sceab fu compagno di Giuseppe Ungaretti, trasferitosi a Parigi, dal 1912 al 1914, per un’ esperienza di studio che si arricchì di frequentazioni feconde con esponenti delle avanguardie artistiche e letterarie. Ma Moammed Sceab, ...discendente/ di emiri di nomadi…, che..amò la Francia/ e mutò nome.. consumò invece nella metropoli europea il dramma del suo fallimento di migrante, fu… suicida/ perché non aveva più Patria.
La lirica, asciutta , epigrafica, risponde, con la frantumazione dei versicoli, alla frantumazione della vita di un “senza patria”, che tanto aveva investito di sé, per integrarsi in una nuova società:
..Fu Marcel/ ma non era Francese/ e non sapeva più/ vivere/ nella tenda dei suoi/ dove si ascolta la cantilena del Corano/ gustando un caffè/ E non sapeva/ sciogliere/ il canto del suo abbandono..
La solitudine dell’anonimato, lo spaesamento in una grande città dell’Occidente e infine la morte anonima di questo migrante degli inizi del Novecento, attraverso la parola-discorso del Poeta, dovrebbero pesare ancora sulla nostra coscienza di Occidentali di oggi.
Una provocazione, la chiusa della poesia:
E forse io solo/ so ancora/ che visse.
 

(continua)

 
 
 
 

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