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Non esistono forse
due poesie antitetiche, nello stile, negli intenti, nel rapporto emotivo
fra poeta e contenuto, addirittura nel raffronto fra le personalità dei
due poeti, come “Gli
emigranti”
di EDMONDO DE
AMICIS e “Buenos
Aires”
di DINO
CAMPANA.
Non è nemmeno lo scarto temporale a giustificare la differenza: la prima
infatti fu pubblicata in una raccolta del 1880, la seconda fu scritta
probabilmente nel 1908, ventotto anni dopo, durante i quali però il
contesto storico italiano, soprattutto sotto l’aspetto socioeconomico,
non era sensibilmente mutato, in quanto permanevano precarie le
condizioni di lavoro e di vita della maggior parte delle classi rurali e
operaie.
Eppure, non so se arbitrariamente, metto in comparazione le due poesie,
in quanto legate dal tema comune del viaggio di migrazione, la
migrazione “esterna” di gruppi di Italiani che abbandonavano la patria
diretti verso l’America, in entrambi i casi l’America del Sud,
destinazione Buenos Aires.
E comune è anche il ruolo dei due poeti rispetto alla vicenda
collettiva: entrambi sono “presenti” nella situazione, “partecipi” del
viaggio, come testimone De Amicis(che poi fece anche l’esperienza
diretta del viaggio transatlantico assieme agli emigranti italiani, nel
1884) e come viaggiatore Campana. Ben diverse tuttavia le ragioni, ben
diversi gli atteggiamenti che animavano i due uomini nel “far poesia”sul
fenomeno migratorio, di cui tuttavia lasciano personale documentazione.
La poesia di De Amicis è imperniata sulla partenza, dal porto di Genova,
quella di Campana ci prospetta l’arrivo, appunto a Buenos Aires, “
sull’acqua gialla di un mare fluviale/ appare la città grigia e
velata.”
“Gli
emigranti”
è una lunga poesia (ben 19 strofe) di impianto tradizionale: strofe di
cinque versi, tutti endecasillabi tranne il quarto, settenario, con
schema metrico fisso ( rima AABAB), la cui lettura risulta scandita da
accenti ritmici regolari, e dunque cadenzata
Una tipica poesia ottocentesca, di quelle, ricordo, “da sussidiario
scolastico degli anni Cinquanta”. odiose perché “da imparare a memoria”,
con il carico della lunghezza e di un lessico altisonante, retorico,
lontano dalla nostra lingua bambina.
Edmondo De
Amicis,
reduce nel 1870 dall’esperienza militare dell’ultimo Risorgimento, si
mise a scrivere, con la penna ispirata ai miti e alle forme della
retorica patriottica e moralistica, che tutti riconosciamo all’apice nel
libro “Cuore” ( 1886); solo più avanti, dalla fine degli
anni Ottanta , la sua adesione ideologica e politica in senso lato alla
vicenda italiana si orientò verso il Socialismo,
scoprendo l’inadeguatezza del progetto politico di matrice borghese a
fronte della grave condizione economica e sociale delle masse popolari.
La sua sensibilità verso il sociale dovette essere comunque
concretamente sollecitata dal viaggio in Argentina del 1884, sul
piroscafo degli emigranti, di cui narrò nel romanzo “Sull’Oceano”,
pubblicato nel 1889.
La poesia, precedente a tali date, tenta di superare la retorica e di
raggiungere il livello della com-partecipazione emotiva, ma si avverte
nell’insieme un punto di vista “esterno e onnisciente”che in qualche
modo la attenua. Il poeta è lì, sulla banchina del porto di Genova (a
cui affluivano migliaia di poveri Italiani delle Regioni del Nord) ad
assistere alla partenza degli emigranti, non è “in mezzo a loro”. L’“onniscienza” segna la “distanza”, di situazione personale, di status
sociale, di cultura, fra De Amicis e gli emigranti..
Egli sa
che cosa
spinge i connazionali a partire (Varcano i mari per cercar del
pane.), sa della truffa affaristica che si alimenta a loro spese
(Traditi da un mercante menzognero..), sa dei sentimenti
che si dibattono in cuore (Pur nell’angoscia di quell’ultim’ora/
il suol che li rifiuta amano ancora…; E ognuno forse sprigionando un
grido/ se lo potesse tornerebbe al lido…), sa dei disagi a cui
vanno incontro (Vanno, oggetto di scherno allo straniero,/ bestie
da soma, dispregiati iloti,/ Carne da cimitero,/ vanno a campar
d’angoscia in lidi ignoti.), sa infine dei luoghi e dei vecchi
che abbandonano forse per sempre (E li han nel core in quei
solenni istanti/ i bei clivi di allegre acque sonanti /E le chiesette
candide.) Di sapore paternalistico la chiusa, vibrata tra
un’invocazione di buona sorte (Addio, fratelli ,addio ,turba
dolente!/ Vi sia pietoso il cielo e il mar clemente…) e una
raccomandazione alla solidarietà (Datevi pace e fatevi
coraggio./Stringete il nodo dei fraterni affetti/ riparate dal freddo i
fanciulletti,/Dividetevi i cenci,i soldi, il pane,/Sfidate uniti e
stretti /L’imperversar de le sciagure umane.)
I poveri
emigranti invece “non sanno”;
fatta una scelta per necessità, sembrano non essere consapevoli né più
del tutto convinti: Salgono in lunghe fila,umili e muti …E le
donne con loro,/ istupidite martiri piangenti.
Ci sono comunque in questa poesia “da sussidiario” immagini che hanno la
forza della pittura impressionista, situazioni descritte in dettaglio
che incredibilmente ci richiamano all’oggi, alla crudezza di notizie e
immagini sulla disperazione dei nuovi migranti. Versi che incidono sulle
nostre coscienze sopite il ricordo dei tempi della povertà e
dell’umiliazione degli Italiani espatriati.
Li sottopongo alla sensibilità dei lettori:
(1° e 2°
strofa)
Con gli occhi spenti, con le
guance cave,
Pallidi, in atto addolorato e grave,
Sorreggendo le donne affrante e smorte,
Ascendono la nave
Come s’ascende il palco de la morte.
E ognun sul petto trepido si serra
Tutto quel che possiede su la terra,
Altri un misero involto, altri un patito
Bimbo, che gli s’afferra
Al collo, dalle immense acque atterrito.
……..
( 5°
strofa)
Ammonticchiati là
come giumenti
sulla gelida prua mossa dai venti,
Migrano a terre inospiti e lontane;
Laceri e macilenti,
Varcano i mari per cercar del pane.
La poesia di Campana “Buenos
Aires” è
tutt’altro, un’unica composizione di sedici versi, endecasillabi che
rigettano la rima (sciolti), la cui lettura è libera dallo schema
metrico, quasi prosastica, anche per scelte lessicali forti, dure,
tratte dal linguaggio comune.
Il testo, che sa di frammento, di annotazione da taccuino di viaggio, fa
parte effettivamente di un “Quaderno” in cui si ritrovano quelle che
Campana stesso definì “impressioni d’arte”, suggeritegli dai viaggi che
incominciò a fare dal 1907 , in varie parti di Italia e del mondo,
dall’America del Sud alla Russia”. Quaderni, lettere e scritture varie
furono pubblicate postume, ma cronologicamente precedevano la
pubblicazione dei “Canti Orfici” del 1914, anticipando a tratti la
poesia intensa, visiva, “moderna”, dell’opera che ha dato fama a
Campana.
Il poeta è sul bastimento che sta per attraccare, fisicamente
protagonista del viaggio, in mezzo agli emigranti, ma il suo punto di
vista è comunque distante, estraneo, quasi sprezzante nei confronti dei
suoi compagni di viaggio : “Gli emigranti/ Impazzano e inferocian
accalcandosi/ Nell’aspra ebbrezza di imminente lotta.” …si
gettano arance/ ai paesani stralunati e urlanti” e nell’ultimo verso “Ma
ringhiano feroci gli Italiani”
Gli attributi e i verbi con cui vengono resi i protagonisti e le loro
azioni richiamano comportamenti bestiali, di cani feroci o lupi che
stanno per avventarsi “nell’aspra ebbrezza di imminente lotta”.
Quella che dovrebbe essere la festa di benvenuto e accoglienza fra la
comunità italiana già insediata e integrata (...un gruppo di
Italiani ch’è vestito/ in un modo ridicolo alla moda/Bonearense…
Nemmeno a questo proposito è benevolo lo sguardo del poeta) è vista
in un’ottica di scontro o per lo meno di incomunicabilità: al cenno di
saluto di chi ha respirato, nascendo nella nuova terra, la libertà (Un
ragazzo…Prole di Libertà…), i nuovi arrivati rispondono con un
ringhio feroce.
C’è da chiedersi perché Dino Campana dia questa interpretazione degli
emigranti, esattamente agli antipodi di quella di De Amicis imbevuta di
umanitarismo cristiano, ma posso solo tentare di fare l’ipotesi che il
giovane poeta ( appena ventitreenne) si fosse trovato estremamente a
disagio nel corso del viaggio, a stretto contatto con uomini e donne del
popolo, forse chiassosi, forse litigiosi perché esasperati dagli stenti
della traversata, induriti dalle miserie patite negli anni, timorosi di
fallire nelle loro speranze. Comprensibile la ressa, al primo
avvistamento del porto, allo sbarco.
Doveva essere esplosa già da giorni prima dell’arrivo l’insofferenza del
giovane poeta, che poi come si sa non era un giovane …qualunque. Dino
Campana si era messo in viaggio, senza mete e obiettivi precisi, se non
quelli di fuggire da Marradi, il paese da cui si sentiva perseguitato
“con infamia e con ferocia”, di lasciarsi alle spalle i
fallimenti negli studi universitari di Bologna e di Genova, di dare
sfogo al disfrenamento delle sue energie vitali (A.Asor
Rosa). Campana stesso dichiara al riguardo “Verso i vent’anni non
potevo più vivere, andavo sempre in giro per il mondo” E ancora:
“Sissignore, viaggiavo molto. ero spinto da una specie di mania di
vagabondaggio. Una specie di instabilità mi spingeva a
cambiare continuamente” (C.Pariani,Vita non romanzata di Dino
Campana). Si può dunque pensare che quando il verso dice “Si entra
in uno strano porto”, la stranezza, la visuale straniata con cui
il giovane guarda sia più parte della sua personalità disturbata che
oggettiva.
Se già la poesia di De Amicis stupisce per le analogie fra l’
emigrazione italiana di fine Ottocento e le migrazioni attuali, ancor
più appare intrigante la “profezia” di
Pier Paolo
Pasolini,
che nei primi anni Sessanta, quando ancora l’Italia era terra di
emigrazione, prefigurò l’arrivo di migliaia di uomini verso l’Italia,
spinti dalla voglia di riscattare un’esistenza di pena.
Della lunga (e non semplice) poesia, compresa nella raccolta
“Poesia a forma di rosa” del 1964, focalizzo soltanto il tema
della migrazione, sintetizzando il significato che si può ad esso
attribuire nel contesto complessivo e complesso a cui Pasolini affida il
suo sogno di un sostanziale cambiamento politico e socioeconomico.
Alì dagli occhi azzurri, proveniente da Algeri, capofila di migliaia di
uomini diseredati sbarcherà sulle coste della Calabria, terra arida,
terra deprivata, terra di migrazioni verso Nord, e porterà alle genti
del sottoproletariato contadino linfa nuova, per scatenare una
rivoluzione che cambierà il corso di una storia millenaria di miseria e
di ingiustizia. Dall’Africa tribale , dalla sua barbarie riversatasi
sulle coste dell’Italia verranno dunque l’esempio e l’energia per una
lotta anche sanguinosa, più efficace di quella sostenuta dalla classe
operaia al Nord, la quale si è sì battuta per il salario, e anche per il
diritto alla terra dei compagni del Sud, ma si è poi appagata del
raggiungimento dei miti del benessere novecentesco( frigorifero,
televisione…). Il cammino di questa orda rivoluzionaria in crescita non
si fermerà in Italia, ma proseguirà verso l’Europa dell’Ovest, per far
risorgere le masse del proletariato , rigenerate dallo spirito del
marxismo e del cristianesimo (Poi col Papa e ogni sacramento/
andranno su come zingari/verso nord-ovest/ con le bandiere rosse/ di
Trotzky al vento…).
La figura di croce in cui si sviluppa il testo acquista dunque in questa
profezia il significato cristiano sia della sofferenza, della passione
sia della risurrezione e redenzione: l’utopia di Pasolini che parte da
premesse di cruda denuncia di un diffuso, atavico malessere
socioeconomico si chiude con la positiva promessa di gioia (gioia
della vita, gioia della libertà, gioia della morte..)
Il linguaggio della poesia è forte, ricco di ossimori (la tragica
luna del pieno sole era là..), di paradossi, di provocazioni.
L’andamento prosastico diventa a tratti martellante per l’insistente
iterazione di parole-chiave (…color delle feci), per le
ripetute anafore (Essi sempre umili/ essi sempre deboli/ essi
sempre timidi/essi sempre infimi..)
Mi interessa sottolineare, in chiusura, il messaggio che mi sembra si
possa trarre dalla poesia di Pasolini (certamente suscettibile di una
lettura ben più sfaccettata e profonda, per altri fini) o almeno, che io
riesco a “leggere”, suggestionata dal fenomeno migratorio sempre più
massiccio nella storia dei nostri giorni.
La
migrazione “degli ultimi della terra” è inevitabile, è un cammino
spaziale che di necessità prima o poi questi compiranno, per il riscatto
dalla oppressione, dallo sfruttamento subìti nel tempo. La conseguenza
sarà un mutamento di grossa portata, traumatico, ma non distruttivo.
Non può mancare,ora,
la voce diretta di Pasolini :
Alì dagli occhi azzurri
uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini,
e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.
Porteranno le nonne e gli asini, sulle trireme rubate ai porti
coloniali.
Sbarcheranno a Crotone o a
Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camicie
americane…..
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