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FOGLI E

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Il morbo che libera dalla paura

del tempo

di Marco Sangiorgi

La vicenda è ambientata nel 1849, a Rio de Janeiro in Brasile.

La città è impregnata di morte, i suoi abitanti falcidiati dalla peste: il morbo, il terribile morbo che dà titolo all’ultimo romanzo di Gian Ruggero Manzoni (Reggio Emilia, Diabasis, 2002), provoca un’atmosfera apocalittica tra gli spettrali abitanti, contagiati e perduti oppure sopravvissuti ma non ancora scampati, che deambulano spauriti tra abiezione e orrore, nel dispregio più totale di regole, leggi o anche soltanto prudenti misure igieniche. Il disordine regna sovrano, nell’erompere senza freni delle pulsioni più inconfessabili e primordiali. E’ una città dannata, che pare sottratta al tempo storico perché imprigionata in una parentesi temporale dove galleggiano in sospensione uomini e cose, in attesa che la malattia compia fino in fondo il corso e si esaurisca. In questa cornice, un uomo appestato e consapevole di essere vicino alla fine, vuole rendere testimonianza e lasciare memoria scritta della sua esistenza tumultuosa e dei valori che l’hanno sorretta e alimentata; per farlo, essendo analfabeta, pur non credente e di sentimenti libertari, chiede soccorso ad un ordine religioso preposto al pietoso ufficio del conforto ai moribondi. Nel ripercorrere a ritroso la sua vicenda umana, un frate in origine intimidito ma poi sempre più fortemente compreso nell’importanza e ineluttabilità del compito che si è assunto, vergando sotto dettatura il suo racconto, accompagnerà l’agonizzante fino all’ultimo respiro che gli sarà consentito: sarà la stessa malattia a spogliare di ogni remora e orpello il dialogo che tra loro s’instaurerà, mutandoli entrambi nel profondo. Scrive l’autore: «La peste lavora bene, sai? E ti vuota. Come la guerra. Prima ti sporca, ma poi ti raschia ogni cosa, la carne e l’anima, come un precipizio infinito, un abisso che inghiotte» (p. 40). In questo processo radicale e definitivo di chiarificazione a se stesso, l'uomo è costretto ad abbandonare ogni residuo alibi e avere il coraggio di guardare in faccia quella deve riconoscere come propria verità. Nella visione del mondo di questo scrittore, è un imperativo assoluto: saper andare fino in fondo, accettandone le conseguenze. Ancora una volta, come nelle sue opere precedenti, unite da un filo rosso di coerenza poetica, Gian Ruggero Manzoni appare affascinato dalle scelte estreme, perché è lì che si rivela la caratura di un individuo: « (…) il Morbo devi attraversarlo, se è il tuo momento. In esso non puoi ingannare e ingannarti. Devi scegliere chi sei, e poi esserlo fino alla fine. Per questo nel Morbo c’è coscienza e battaglia, e io sono un guerriero, e in ciò sei libero, libero e solo, affidato a te stesso» (p. 40). Chiusi in una stanza, in un’atmosfera forzatamente claustrale e soffocante, ammorbata dal lezzo degli umori corporali e degli escrementi del moribondo, l’uno revocherà quella parte della propria vita che riterrà meritevole di essere conosciuta, e nel farlo gli sembrerà di esperirla nuovamente rinnovandola nel senso e nell’ardore; l’altro, sensibilmente compreso e turbato dalla rivelazione di quelle parole, sovente blasfeme nei confronti della religione, non può non coglierne il sentimento verace, e sotto la volgarità e le violenze, un’apprezzabile purezza ideale. Per contenuto e capacità di coinvolgimento, il racconto conduce i due a stringere un sodalizio dove ognuno impara a pregiare la sincerità della fede dell’altro senza rinnegare la pro pria, fino a percepirsi, in ultimo, fratelli nell’intolleranza dell’ingiustizia e nel desiderio di umano riscatto. Nel contatto per più giorni perpetuato, nella condivisione della stessa infetta aria, in cui «due sincerità, nel parlare, si erano incontrate al cospetto della morte» (p. 65), il rivoluzionario finisce per rivolgersi all’uomo di Chiesa come a un altro se stesso: «(…) monaco, sei divenuto me a tutti gli effetti, che ci siamo congiunti e sovrapposti, così come forse doveva succedere fin dall’inizio» (p. 167). Dal canto suo, conscio del rischio di contrarre la malattia, «resisteva, il sacerdote, anche merito del compito che si era scelto, cioè quello di ascoltare, senza però privarsi del riflettere su ciò che verbalizzava, perché aveva capito che il meditare assieme era divenuto l’unica possibilità di scampare alla catastrofe nella quale Rio, e forse tutto il pianeta, stava sprofondando. Resisteva, il frate, come un guerriero. (...) Ora stava a lui difendere ciò che l’umanità di buono aveva conquistato. Il testimone era passato» (p. 125). Questa è la forma più alta e nobile di amicizia che possa intercorrere tra due esseri che si stimano; in un romanzo precedente, giocato tra invenzione e autobiografismo, Il Francese (Ravenna, Edizione del Girasole, 1995, p. 36), Manzoni aveva anticipato questa convinzione: «Sosteneva che se anche la morte era vicina doveva immagazzinare del sapere, era l’unica lotta da intraprendere contro l’oscurità, contro il male, e poi perché la sua energia, una volta liberata, sarebbe andata a influenzare chissà quale altra creatura, e perciò doveva lasciare qualcosa di sé; e questo avvenne, perché ancora adesso continuo per lui a percorrere quella strada, come mi avesse

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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