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passato la borraccia». Del resto anche Il dolore (oltre la casa dei morti) (Milano, Scheiwiller, 1991, p. 56), dedicato alla memoria del padre, sanciva quella ideale trasmissione tra consanguinei, a fungere da viatico per l’esistenza di chi rimaneva. Il libro, dal tono sapienziale, si chiudeva con l’esortazione dell’amoroso figlio: «Fallo. Guidami… respiro dopo respiro, a capire la morte. A morire con te, la parte migliore della vita, la parte migliore, che i morti ricordano».

La propensione autobiografica è ammessa con naturalezza da Manzoni, e si evidenzia nell’opera fin dai primi lavori; chi ha qualche familiarità con l’uomo, non faticherà a riconoscere qualche somiglianza nelle fattezze del personaggio del romanzo, Luigi Compagnoni di San Lorenzo di Lugo, rivoltoso mazziniano partecipante ai moti del 1831, prigioniero della Chiesa, venduto come schiavo insieme ad una colonia di patrioti romagnoli all’imperatore del Brasile, quindi esule e ribelle per sempre, avventuriero ed idealista, intemperante e passionale, comunque indomito e mai pentito. Lo incontriamo trentacinquenne ma alla fine dei suoi giorni. Così ci viene descritto: «Questi era tarchiato, di robuste membra. La testa era di antico stampo, completamente rasata, con ossa prominenti ai lati della fronte e zigomi duri, così che gli occhi, protetti dall’architettura del volto, erano infossati ancor più dal malanno, e brillavano di un chiaro perla, inquietanti (…). Aveva, invece, due orecchie piccole, non certo in proporzione col resto (…). Altro particolare che non passò inosservato (…) era come le sue mandibole si incastrassero nel cranio non con morbidezza, come avviene di solito in natura, bensì ad angolo retto, come ostentano le bestie carnivore, di modo che la testa pareva affiorare da un blocco di pietra (…)» (p. 13). Manzoni resuscita, con questo personaggio e con i suoi compagni di vita e di lotta, una lontana e ormai per noi sconosciuta temperatura del sentire, del credo politico, dell’utopia. Uomini di grandi e sincere passioni, Compagnoni e i suoi sodali sono nati per lottare, si realizzano nell’azione e da essa stessa traggono energia ed esaltazione, convincimento a continuare. La fraternità che li unisce viene dalla condivisione del pericolo, non del pensiero; convinti che la vita comoda rammollisca, se momentaneamente non hanno una occasione di combattimento, una battaglia, una rivendicazione anche non loro ma alla quale sentirsi partecipi e solidali, si sentono perduti. Di lottare non possono fare a meno, sono uomini della stessa tempra dei rivoluzionari di professione, di cui è densa la nostra storia risorgimentale e in seguito dell’antifascismo: pensiamo, ad esempio, a patrioti come Santorre di Sanatrosa che andò a morire per l’indipendenza della Grecia, a Garibaldi e i suoi seguaci, agli anarchici come Amilcare Cipriani che partecipò alla Comune di Parigi, fino alla generazione dei Rosselli e di Emilio Lussu… Non a caso, al fianco dell’indomito romagnolo, lo scrittore ha posto una figura femminile suo pari, la bella e generosa creola Jolanda, modellata sull’esempio guerrigliero di Anita Garibaldi. Per il piantagrane idealista Compagnoni, la misura dell’uomo, il suo valore, è nel sapersi dare con abnegazione e senza personale vantaggio ad una causa, l’unica nobiltà è nello spirito di ribellione, nel sapere riconoscere in ogni dove l’iniquità e apprestarsi a combatterla. Anche quando le condizioni appaiono disperate e la propria vita è messa a repentaglio: «È stupendo resistere, mio caro frate, anche se ormai pensi che tutto sia perduto o proprio allora. È grande l’uomo in questo. Grande. Sia egli fedele a Cristo o alla libertà» (p. 21).

Questi coraggiosi, poiché si sentono cittadini del mondo, curiosi delle genti e dei multiformi costumi che vanno incontrando, non prevenuti nei confronti della diversità, si trovano a loro agio anche nel Mato Grosso o costeggiando il fiume Paranà. Ma com'è tipico dei romagnoli, ritrovano sembianze del loro territorio in ogni geografia attraversata, rendendo familiare e casalingo ogni angolo di mondo, anche il più remoto ed esotico; così nelle parole del Compagnoni riecheggia la nostalgia per la propria terra: «Esisteva un unico sentiero, divorato dalla foresta vergine, che con i machete dovevamo aprirci un varco a ogni passo, e in altri punti la carrettera la trovavamo sommersa dal tracimare dell’acqua, che sempre più sembravamo tornati in Romagna, dove il Po di Primaro investe le Valli di Mezzano, e ne fa terra di paludi, boschi, piallasse e isole che affiorano dalle melme stagnanti, a seconda delle piogge cadute e dalla voglia dei fiumi di invadere pascoli e

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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