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FOGLI E

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IL POLIZIOTTO FASCISTA.

I gialli di regime di Carlo Brighenti e Romualdo Natoli

di Marco Sangiorgi



Sul rapporto tra fascismo e giallo italiano si è già detto e scritto molto
1, non così su alcuni scrittori che aderirono al regime e si prestarono a un'opera di propaganda delle idee fasciste attraverso la loro produzione narrativa. In questa sede prenderemo in esame in particolare due autori: Carlo Brighenti (che in certe sue opere assunse lo pseudonimo di Cabrenti) e Romualdo Natoli. Nomi oggi sconosciuti ma spesso citati negli studi sull'argomento; poco o nulla studiati, però, se si eccettuano le pagine loro dedicate da Loris Rambelli nel suo saggio, Storia del "giallo" italiano, del 1979, tuttora fondamentale e imprescindibile. L'azione di controllo del fascismo nei confronti della letteratura poliziesca, esercitata attraverso l'occhiuta attenzione del Ministero della Cultura popolare, conobbe diverse fasi, con valutazioni alterne del fenomeno. Certamente l'atteggiamento di fondo fu sempre inficiato da diffidenza e sospetto; come scrive Rambelli: "In tempi di nazionalismo forzato e di cultura autarchica, i romanzi polizieschi furono visti come portatori di "malcostume straniero", soprattutto anglo-americano. Il fatto è che il romanzo poliziesco (…) rifletteva un tipo di condotta pubblica e privata inconciliabile coi modelli che il fascismo, ispirandosi ai miti littori, si sforzava di proporre alla collettività nazionale" 2. Il Minculpop imponeva un sistema rigido di regole, costrizioni e censure; gli stessi editori, i quali subivano il condizionamento dei finanziamenti statali, "dovettero impegnarsi in una forte autocensura anticipata" 3. Conviene riassumere l'intera vicenda affidandoci alla testimonianza che Alberto Tedeschi concesse al quotidiano "La Repubblica" nel 1979, in sé preziosa perché veniva da chi aveva diretto per oltre cinquant'anni la collana dei gialli Mondadori. Scrive Tedeschi:

In un primo momento andò tutto liscio, trattandosi di libri senza nessuna pretesa, almeno apparente, di critica sociale, senza nessun aggancio politico. Alla fine, il bene vinceva sempre sul male, e per un po' questo parve bastare ai censori fascisti. Le limitazioni vennero dopo. Un giorno arrivò l'ordine di non parlare di suicidi. Evidentemente, il regime pensava che togliersi la vita fosse una debolezza indegna del saldo carattere littorio. E così, per amore del Giallo, quando capitava l'occasione mi mettevo al tavolino e trasformavo i suicidi in incidenti stradali, o in accidentali cadute dalla finestra. Poi, a un dato momento, diede nell'occhio che alcuni romanzi polizieschi, specialmente americani, presentavano criminali di origine italiana. Altro intervento censorio, e noi dovemmo ricorrere all'espediente di cambiare le nazionalità dei criminali, regalandoli, a seconda della convenienza, all'America Latina, alla Spagna, alla Francia. Il regime intervenne una terza volta, in nome della cultura nazionale, imponendo la pubblicazione di un Giallo italiano almeno ogni quattro o cinque stranieri. Questo si risolse in parte in un beneficio, perché ci permise di scoprire e incoraggiare giallisti di casa nostra. (…) La tela calò nel 1941, quando un gruppo di giovani della buona borghesia milanese tentò una rapina alquanto maldestra. Acciuffati, gli aspiranti rapinatori dichiararono di essere grandi lettori di Gialli. Anzi, di essersi ispirati a un Giallo per organizzare il colpo. A questo punto, Mussolini intervenne personalmente e, attraverso il Minculpop, decretò la chiusura della collana. Fino al 1946 di Gialli, non si parlò più 4.

Tra la tolleranza degli inizi e la soppressione decretata nel 1941, c'è un interregno in cui il regime cercò di utilizzare ai suoi scopi questo genere letterario di successo, che godeva di grande popolarità presso lettori di ogni estrazione sociale e cultura. Il problema era dibattuto; nel 1939, in un articolo, il giornalista Emilio Radius, auspicava che si riuscisse a dare al nostro Paese "un modellino originale, nostrano, di romanzo giallo, o poliziesco, o semplicemente di avventure: e di risolvere così quest'altro problema autarchico". Interrogandosi su come dovesse essere questo prodotto nazionale, rispondeva: "Non sofistico, non meccanico (…). Dovrebbero poterci mettere mano il buon senso, l'umanità, la psicologia, la grammatica, la sintassi e -perché no?- il gusto della lingua italiana" 5. E aggiungeva:

Il problema del romanzo giallo è un problema autarchico ed è un problema morale. Il romanzo giallo italiano, se è destino che si debba scrivere anche noi romanzi gialli, per non importarne troppi e per non importare, con la carta stampata, costumi, usi e vezzi, dovrebbe uniformarsi al vero ragionevolmente drammatizzato e non cadere in una manieraccia dalla quale è poi impossibile spremere una stilla di commozione o di interesse non effimero: ingegnarsi di descrivere davvero la lotta della giustizia contro la delinquenza, fare un uso prudente ed accorto dei necessari artifici e lasciar posto alla realtà 6.

Il nuovo romanzo giallo d'ispirazione italica avrebbe dovuto svolgere, dunque, una funzione essenzialmente educativa e didascalica, farsi portavoce del credo politico imperante, col compito di diffonderne e divulgarne i principi in forma semplice e chiara per tutti. Nell'accezione fascista, infatti, l'arte "è considerata non solo uno strumento di propaganda, ma anche un mezzo importante per la modifica della realtà ed in particolare per la creazione dell'uomo adatto al regime. L'arte non doveva rispecchiare la realtà, quanto piuttosto la rappresentazione che ne veniva data dal potere politico" 7. A rispondere all'appello, dando vita ad una operazione preminentemente propagandistica e solo in seconda istanza letteraria, furono pochi e perlopiù figure di secondo piano; ci fu chi, per servilismo, inserì qualche omaggio al Duce e al suo operato, innestandolo in maniera pretestuosa e posticcia all'interno di trame che con la politica nulla avevano a che fare. E' il caso, ad esempio, di un feuilleton poliziesco di Ferruccio Buratti, La strega bianca (Milano, Mondadori, 1941) incentrato su un commercio illegale di cocaina (lo ha citato anche Rambelli), in cui, ad un certo punto, si elogia l'energica azione repressiva del governo italiano in materia, concludendone che il popolo italiano per fortuna è sano e non è portato a tali vizi. Erano questi, però, ancora casi isolati; a produrre con ben altra determinazione romanzi polizieschi "politicizzati" furono, invece, i già citati, Carlo Brighenti, cronista sportivo e direttore di collane gialle per alcuni editori minori, che si cimentò scrittore in una mezza dozzina di romanzi di scarso pregio, e Romualdo Natoli, prolifico autore di libri avventurosi e polizieschi (il Dizionario bibliografico del giallo, a cura di R. Pirani e M. Mare, ne conteggia oltre venti), più professionale e incisivo, e anche più rabbiosamente impregnato di fervore ideologico e antisemita. Comune obiettivo di entrambi era presentare l'uomo fascista (o nazista, nel caso di Natoli) come elemento sano della nazione, araldo dei tempi nuovi, modello per tutti i giovani.

Il poliziotto fascista di Carlo Brighenti
Esemplare in questo senso, in un romanzo del 1939, L'assassinio del campione, la figura del commissario Orazio Grifaci del "Servizio Speciale della Polizia Criminale" italiana, creatura di Cabrenti (Brighenti), funzionario perspicace e integerrimo, che risulta persino noioso per quanto è per bene, ammodino, preciso, pieno di qualità: al lettore più che un personaggio verosimile, dà l'impressione di un figurino disegnato, di un manichino. Cabrenti lo descrive come un giovanotto "sulla trentina, bruno, alto, dal viso intelligente"
8, che è entrato in polizia per "desiderio di bene", poiché, "si chiese un giorno il nostro giovane, quale missione più bella di difendere l'uomo dal Male? Questa tremenda domanda se la rivolsero tanti uomini e furono dei santi, furono dei missionari, furono dei martiri" 9. E ancora: "Un vero poliziotto, non potrà mai compiere grandi cose, se non si sentirà milite di un apostolato"10. Precoce nell'ottenere successi nella lotta alla criminalità, ben presto "ebbe dai superiori dimostrazioni di stima che avrebbero fatto inorgoglire chiunque. Ma il giovanotto sapeva essere prudente e diede prova di eccezionale senso di opportunità rientrando immediatamente nell'ombra" 11. Riservato, non cerca la gloria personale, ma è mosso unicamente da spirito del dovere, inoltre è consapevole che la popolarità finirebbe per nuocergli e sarebbe d'impedimento alla discrezione che è necessaria al suo mestiere d'investigatore. Quando deve interrogare una fanciulla intimorita, sa essere rassicurante, simpatico, amichevole; così infatti appare alla ragazza: "Elegante, gli occhi azzurri e profondi, la bocca atteggiata a bontà, nulla aveva del poliziotto brutale" 12. Quando mette alle strette il criminale, dopo ardua ricerca, è così sostenuto da salda tempra morale che non sa trattenere lo sdegno di fronte al rivelarsi dell'ignominia dell'altro: "-Furfante!- gridò stringendo i denti, Grifaci" 13. Nelle indagini segue un metodo indiziario piuttosto accurato, attento a non sottovalutare il minimo particolare. A guidarlo, però, non è tanto lo spirito scientifico o il raziocinio, piuttosto un segreto istinto, un'intuizione, un comando interiore:

La visita agli spogliatoi (…) durò poco. Nulla di particolarmente notevole essi presentarono agli sguardi del poliziotto, ove si eccettui un biglietto di seconda classe che Orazio scorse sotto il lavabo della cameretta dell'arbitro. (…) Lo raccolse e se lo mise in tasca. Nell'attività di poliziotto i casi fortuiti contano. Orazio scorgendo quel pezzo di cartoncino bianco sentì che "doveva" raccoglierlo. Il custode vide il suo gesto e non mostrò la minima sorpresa: hanno delle idee così strane questi poliziotti!, egli pensò certamente 14.

Nel servizio, quando necessita, sa essere audace, sempre consapevole della gravità del suo compito, mai dimentico del suo ruolo gregario, rotella di un meccanismo che funziona solo se ognuno sa rimanere al suo posto con spirito di corpo e non è mosso da ambizioni personali. Infatti, tiene in gran conto i consigli del suo diretto superiore, rispettando la gerarchia come un suo dovere indiscutibile:

Il Capo, voleva bene a Grifaci e lo stimava assai. Ma anche il giovane poliziotto sentiva per il Capo una di quelle profonde affezioni fatte di amorevolezza e di entusiasmo, di gratitudine e di fiducia, che si accompagnano spesso in un temperamento italiano. Non è la cieca soggezione nordica, non è la fredda forma di ineccepibile rispetto inglese, non è nemmeno la prorompente ed entusiastica dedizione francese ma è qualcosa di meglio e di più alto: c'è insomma qualche cosa del soldato e del figlio in un italiano che ama un superiore 15.

Questo carattere italico, che armonizza una calda e simpatica umanità con un senso alto della responsabilità personale, è frutto, secondo lo scrittore, sia della naturale propensione del nostro popolo che del rinnovamento morale che la temperie del momento storico ha impartito al Paese. La generazione che si è formata nel primo dopoguerra ha dovuto compiere ineluttabilmente scelte fondamentali, che l'hanno temprata e nel contempo purificata:

Erano quelli i tempi nel quale fare lo studente riusciva estremamente difficile. La bufera, placatosi miracolosamente nelle trincee, era esplosa nelle vie, ed i giovani, i giovani sani intendiamo, ne erano abbacinati. Illuminata di riflesso per più di tre anni dalla immensa luce della guerra, la gioventù italiana, improvvisamente si trovò avvolta dalle fiamme della Rivoluzione Fascista. Quali fati propizii ebbe subito questa Rivoluzione! Un Capo e dei Martiri! (…) Orazio fu così fascista 16.

Nel pensiero dell'autore il fascismo non è che il compimento della missione storica del popolo italiano, cominciata con la lotta patriottica del Risorgimento; in diversi suoi romanzi, infatti, non manca di ribadire questo filo ideale, rammaricandosi però della scarsa memoria della gente, che sembra aver scordato quei passati sacrifici. Non a caso, Brighenti ambienta le sue vicende poliziesche nelle zone vicine al Lago di Garda che furono teatro di importanti battaglie risorgimentali, in particolare a San Martino; in L'assassinio del campione, scrive:

Allora, vedete, S. Martino aveva una certa importanza storica grazie alla battaglia del '59 che si svolse sui colli. Ma ora, dopo la guerra europea, i pellegrinaggi eroici si sono spostati altrove, nel Trentino, nella Carnia, sul Carso all'Adamello… Sta ormai diventando un glorioso rudere abbandonato, questo S. Martino, cosa del resto che capita anche a Solferino 17.

Insieme al mito risorgimentale, nella poetica dell'autore (se così la si può chiamare), ha largo spazio il mondo dello sport, concepito come la sede naturale di uno spirito competitivo sano e pulito, ammaestramento di vita per i giovani:

E' il destino dello sport quello di precorrere la diplomazia. La proposta di un uomo politico straniero di gettare le basi per una prossima Confederazione degli Stati Uniti di Europa, è caduta miseramente. La proposta del grande arbitro internazionale italiano Vinci, di unire le federazioni calcistiche di vari paesi europei, si è invece realizzata in breve. (…) Un'organizzazione mirabile, Capo, dalla quale anche i politici dovrebbero apprendere tante cose. Immaginate l'opera affratellatrice di quelle squadre, in giro per l'Europa. La folla al cospetto di tanta bella, leale, coraggiosa gioventù comprende tante cose di amici e di nemici, perché il gesto affratellatore di un giovane è irresistibile, mentre purtroppo i diplomatici sono spesso vecchi, e sui loro visi rugosi, ermetici, la verità si spegne sempre…18

Il primato dello sport sulla politica, overossia l'intendere lo sport come forma suprema di consenso di massa, è caratteristica dei regimi totalitari e di quelli populisti; Brighenti vi aderiva senza sforzo, in virtù della sua esperienza di giornalista sportivo (esordì sulla "Gazzetta dello Sport" nel 1922, collaborò a "Il Calcio Illustrato", fu direttore di "Schermo Sportivo", inoltre scrisse diversi romanzi sull'argomento, oltre a Il regolamento tecnico del gioco del calcio nel 1932); in un altro passo del romanzo, ad esempio scrive:"Il tennis per essere giocato perfettamente vuole intelligenza, agilità mentale oltre che fisica, prontezza fulminea di decisione ed anche una certa dose di scaltrezza. E non sono queste le doti proprie della nostra razza? " 19.
Un altro personaggio di Brighenti, che possiamo velocemente prendere in esame, meno caratterizzato da ideologia, è il commissario D'Abate, protagonista di alcune inchieste: L'osteria della fame del 1938, Morte di un editore del 1939, Un mistero alla "Mille Miglia"del 1940, tutti pubblicati dalle edizioni Attualità di Milano, che distribuiva nelle edicole e nelle librerie delle stazioni ferroviarie, anche in forma di almanacco denominato Ultragiallo, nel quale si aveva l'accortezza di raccogliere, insieme ai testi di Brighenti, che era anche direttore di collana, alcuni brevi romanzi stranieri degli autori più noti (Wallace, Conan Doyle, Fletcher…). Così viene presentata quest'altra figura di poliziotto:

Nel Reparto Speciale di Polizia, il commissario D'Abate dott. Vincenzo aveva quella che si usa chiamare una ottima quotazione. Quarantenne, alto, vigoroso, colto e piuttosto bonario (…). Era un meridionale al quale una solida educazione e molti anni passati nel settentrione erano riusciti a frenare meravigliosamente quegli impeti e spesso quella precipitazione nell'agire e nel giudicare che sono propri a gran parte dei meridionali 20.

Una figura con cui il lettore può simpatizzare, benallevato ma alla mano; da prendere come esempio di stile e comportamento:

Sbarbato di fresco, ancora giovane, gli occhi neri un poco da sognatore, la bocca tumida ombreggiata da due sottili baffetti, il commissario è simpatico, pulito, ispira confidenza. Il taglio del suo vestito è assai elegante, una bella camicia di seta, una cravatta blu a puntini bianchi…Pare un giovane aristocratico capitato là dentro per puro caso. Il sottile profumo di Colonia che emana dalla sua persona ha invaso la stanzetta…21

Ha più dell'attore cinematografico che del questurino, ma i modelli cui si ispiravano quasi tutti i giallisti di quella generazione erano giocoforza quelli anglosassoni, tutti personaggi piuttosto signorili, sia per quanto riguarda le forze dell'ordine (investigatori privati o in servizio pubblico) che i loro pericolosi antagonisti, i criminali, che erano spesso veri e propri geni del Male, a controbilanciare l'eccellenza dei primi. Lo annotava, con una certa acutezza, il già citato Emilio Radius nel suo controverso articolo del 1939; egli scriveva:

Ci sbaglieremo, ma il libro giallo, questo giuoco di società, ha limato sordamente il mito britannico del gentiluomo. La convenienza di far commettere il delitto dal personaggio meno sospettabile, dal più rispettabile, dal più cospicuo, ha popolato i romanzi polizieschi inglesi e americani di grandi signori del censo, del sapere, della tecnica e dell'arte, abili a celare diabolicamente sotto le belle maniere neri vizi e manie criminali. L'intelligenza, la cultura, l'educazione, l'eleganza sono state messe a servizio dell'impunità, e rendono inafferrabile il colpevole, sulle cui rare e scarse tracce bisogna quindi mettere non il poliziotto di mestiere, conoscitore di avanzi di galera, ma il detective di eccezione, il finissimo dilettante, il principe dell'indagine 22.

Come autore italiano Brighenti non fa eccezione (e così pure Natoli di cui parleremo in seguito); addirittura sembra che i suoi poliziotti provino fascinazione e rispetto per le figure di criminali che devono perseguire, attratti dalla loro astuzia, abilità e cultura, purtroppo volte al Male. Il commissario Grifaci, ad esempio, di un sospettato (della cui colpevolezza è però già sicuro), dice: "E' un giovanotto intelligentissimo quel Lazarus Bloch, ed è un conversatore assai piacevole!" 23. E in seguito aggiunge:

Nonostante che lo slovacco avesse detto poco o nulla che servisse a illuminare la Giustizia, pure il commissario Grifaci sentì quello che certamente ebbe a provare lo stesso giudice istruttore: un vivo desiderio che Bloch rimanesse per discorrere con lui amichevolmente, dimenticando magari il delitto ed i doveri di un'istruttoroia. Fa proprio piacere intrattenersi con una persona intelligente! 24

Di un veterinario di cui si scoprirà nel corso di un inchiesta la propensione omicida (ma a scopo di ricerca scientifica: stava studiando gli effetti della morte sul corpo umano), viene offerta una descrizione accattivante e simpatetica: "E' il veterinario che gli apre la porta. E' in maniche di camicia e quei suoi occhi azzurri, di fanciullo, pare sorridano" 25. Questo apostolo della scienza, che uccide disinteressatamente, per scoprire le leggi della vita, è animato da una visione messianica:

Bisogna dare all'umanità la certezza che la morte non dà sofferenze, che si entra nel regno delle ombre inconsapevolmente, come si nasce. Il medico che saprà dare le prove di questo avrà tolto dall'anima di miliardi d'uomini il terrore che dentro vi sonnecchia…Il volto del dott. Berbi apparve a queste parole come trasfigurato. Esprimeva un rapimento ascetico, una gioia soffusa di purezza angelica, sorprendente 26.

Non meno inquietanti le conclusioni del commissario, che dimostra straordinaria comprensione per le ragioni dell'omicida, soave e filantropico, inconsapevole emulo del dottor Mengele:

Il veterinario non batteva ciglio. Muto e assorto sembrava non lo riguardassero le parole del commissario D'Abate, e il suo sguardo conservava sempre una meravigliosa dolcezza. - Voi dottore, avete precorso troppo i tempi, continuò D'Abate. Non si ha il diritto di uccidere oggi, anche nel nome della scienza. Forse verrà un giorno nel quale questo sarà permesso a degli scienziati, che come voi sono pensosi delle sorti non dell'uomo ma degli uomini 27.

Queste profetiche parole introducono degnamente il clima politico e culturale in cui agisce l'altro personaggio che interessa alla nostra ricerca: l'ispettore nazista Welf Schurke, della Polizia Criminale di Berlino, uscito dalla penna dello scrittore Romualdo Natoli.

Il poliziotto nazista di Romualdo Natoli
Al contrario dei suoi colleghi italiani, così comprensivi e umani pur nell'esercizio delle loro funzioni, l'ispettore Schurke è un vero superuomo germanico, implacabile e giustiziere, forgiato nella fucina della Prima guerra mondiale, altezzoso e arrogante, sempre sicuro di sé (in genere, scopre assassini e modalità dei delitti già alle prime battute, poi trascorre il restante tempo a produrre le prove che gli sono necessarie), concepisce la lotta contro il crimine come una gara di intelligenze, una sfida contro il nemico, riconosciuto come una mente geniale e malvagia, una forza corruttrice che sta inquinando come un cancro il tessuto sano della nazione. Estirparla e distruggerla, con nettezza chirurgica, allora, è un dovere innanzitutto morale. I romanzi di Natoli sono programmaticamente macchine per la propaganda, virati al peggior antisemitismo: dunque i nemici sono presto identificati in appartenenti alla razza ebraica o, in sostituzione, spie al soldo degli Inglesi, la "perfida Albione" d'infausta memoria. Il personaggio, e il suo autore, considerano la presenza degli ebrei come una minaccia, un pericolo che va disinnescato ed eliminato; l'azione repressiva e persecutoria non va intesa dunque come un'aggressione, ma una difesa legittima e sacrosanta:

Dove si è cacciato lo sporco ebreo che mi ha aperto? Un brivido freddo gli percorse la schiena. Già più d'una volta, nella sua carriera, egli si era trovato a dover lottare contro la subdola e terribile potenza israelitica, e sebbene ne fosse sempre uscito vincitore, non poteva dimenticare l'orrore di quelle lotte fatte di tradimenti e d'inganni 28

Il suo momento di gloria avviene quando può sputare in faccia agli assassini smascherati tutto il suo livore e il suo sdegno:

"Avete sempre fatto i corruttori, voialtri, e avete sempre distrutto quello che vi era di buono negli uomini e nelle donne della mia razza che hanno avuto la sciagura di incappare nei vostri invisibili lacci. Ma ora è finita per voi…Tempi nuovi, coscienze nuove! Ora è il nostro tempo, Lowenthal: quello dei veri tedeschi! 29

Tutto l'intreccio è confezionato su qualche inevitabile colpo di scena, sulla descrizione dei comportamenti dell'eroe, che gigioneggia assumendo le pose di un intellettuale annoiato (mentre è una mente lucidissima e vigile, subito pronta a scattare), pedante nello sfoggiare la sua cultura libresca, preso da sue stramberie e tic (ha l'abitudine di produrre uno strano verso, un rauco gracidio, quando è irritato). Ogni tanto l'autore inserisce, nel corpo stesso della narrazione, una fredda e laconica documentazione burocratica (ad esempio, i verbali di polizia), allo scopo di accentuare il realismo della trattazione; ma soprattutto, infarcisce la trama di prolissi sermoni che ripropongono il più vieto repertorio razzista e antisemita:

Il mio paese era stato misericordioso con quelli della vostra razza, Lowenthal… Avreste potuto e dovuto accontentarvi di ciò che vi lasciava. Ma la gente della vostra risma non è fatta per l'obbedienza e il rispetto delle leggi. (…) Il vostro scopo supremo è il dominio del mondo, e per raggiungere il vostro scopo non indietreggiate davanti ai più infami delitti…(…) Dovevate pur capire, voi che siete intelligenti, che laddove il parlamentarismo e il democraticismo erano stati sepolti ignominiosamente, non vi era più nulla da fare per la vostra razza, se non accettare con serenità il nuovo stato di cose e cercare di collaborare coi nuovi regimi, per farvi perdonare la vostra origine, e le vostre malefatte e la terribile maledizione che pesa su di voi! (…) Gesù, che la vostra razza assassinò 30.

Accecato dal suo livore, la prosa di Natoli a tratti s'infiamma, cresce d'intensità, si gonfia d'iperbole, spreca gli aggettivi: il quartiere ebraico è un "verminaio", un "brulichio di vermi immondi", un "luogo infetto", gli ebrei sono "stirpe infame", "razza maledetta" e "perversa", si riconoscono per i loro "volti maligni"dal "naso adunco", per la loro "terribile puzza", per la "sudicia impronta" che lasciano dietro di sé. In Cabrenti il sentimento antiebraico era più contenuto e circoscritto; un solo personaggio, il calciatore Ervino Snidersi, prima di cadere vittima di un assassino (ebreo, appunto), aveva espresso senza mezzi termini il suo pensiero e la sua preoccupazione, ma poi nel romanzo l'autore non vi insiste oltre:

Voi non conoscete certi ebrei. Io invece li conosco e vi dico che questi sono i loro delitti. (…) solo un ebreo può aver collocato fra i binari la bomba che fece precipitare nell'Isarco mezzo treno. (…)Non c'è che una razza in Europa che possa far saltare un treno, per uccidere una donna, che possa far affondare un bastimento per compiere una vendetta su di un passeggero, anche uno solo, che possa far crollare un edificio: è la razza ebrea degli Aschkénazi. (…) Cosa importa se i gorghi del mare, se i muri crollati dell'edificio, se le ferraglie del treno, seppelliranno tanti innocenti? Nulla arresterà la mano omicida perché la sete di vendetta non sarà saziata da nessun scrupolo: essa dovrà implacabilmente compiersi 31.

Quando Schurke si trova faccia a faccia col colpevole e ricostruisce il filo della vicenda, svela i laidi retroscena dei complotti a fatica sventati, gli antagonisti, vistosi perduti, lasciano cadere la maschera e ogni parvenza di signorilità cede il posto alla più vile abiezione:"Il capitano si era lasciato andare sulla sedia: era livido, e teneva gli occhi bassi; una paura folle lo aveva afferrato come in una morsa, e lo teneva inchiodato al suo posto, incapace di parlare e di reagire" 32. Avendo rinunciato ad ogni dignità, al reo non rimane che un'estrema risorsa, tentare di corrompere il difensore della legge, che, come si può prevedere, è invece granitico nella sua onestà e incorruttibilità:

Lowenthal parlava come se qualche cosa gli chiudesse la gola, stretta da un terrore abbietto. Grosse gocce di sudore gli imperlavano la fronte e tutto il suo corpo era agitato da un tremito violento. (…) - Lasciatemi fuggire, Schurke! - Oh, siete in pericolo? -Datemi due ore di tempo, e io vi consegno la chiave della cassaforte…Pensate: duecentomila marchi…(…) -Grrrr!…- gracidò. -Ecco del buon denaro per rinsanguare le finanze del paese! Afferrò rudemente per il bavero l'ebreo e lo costrinse a sedere su una poltrona, poi trasse di tasca un paio di manette e gliele passò intorno ai polsi 33.

Ogni vicenda che Natoli racconta, è concepita in un preciso momento storico di quegli anni: L'uomo e la folla (1941) è ambientato in Germania, a Berlino, nel 1933; Il marchio di Giuda (1941) in Austria, a Vienna, nel 1939, un anno dopo l'Anschluss; Il mistero del poligono (1943) in una Francia sconfitta e umiliata, a Parigi dopo il 1940, con gli occupanti tedeschi a fare da padroni. Incurante del ridicolo, in quest'ultimo romanzo, descrive le forze d'occupazione come molto tolleranti e gentili, in fondo apprezzate dai francesi, traditi dalle false teorie democratiche, e ora finalmente restituiti alla pace e alla sicurezza:

I vincitori non si mostravano esosi e pesanti, è vero. Lasciavano anzi che la vita si svolgesse come sempre, specialmente a Parigi; ma avevano dettato alcune norme inderogabili, alle quali era pericoloso trasgredire. (…) Il verminaio che brulicava attorno alle Halles ed altrove era stato epurato senza pietà fin dai primi giorni dell'occupazione. Tutto un mondo equivoco e lercio, un mondo di ladri, di ebrei, di speculatori, di teppisti, di mezzani e peggio aveva dovuto inchinarsi, per la prima volta dopo secoli di vita rigogliosa, davanti alla legge severa degli occupanti: e i campi di concentramento francesi avevano visto, una volta tanto, la melma di Parigi dietro i reticolati. Di questo i parigini si erano accorti subito, ed avevano sentito un profondo senso di riconoscenza per i tedeschi, i quali avevano permesso loro di uscire tranquillamente di casa…e tornarvi illesi e col portafogli in tasca 34.

Al di là di queste amenità, forse l'aspetto più interessante della narrativa di Natoli è la consapevolezza di vivere in tempi tumultuosi, caratterizzati dal cambiamento tecnologico e dalla velocità:

La guerra è finita da vent'anni. Una generazione nuova sostituisce quella che per quattro lunghi anni servì a insanguinare i campi dell'Europa e del mondo, per ingrassare la Terra, e permettere agli avvoltoi e agli sciacalli d'Israele di raccogliere una messe abbondante…I tempi vertiginosi nei quali viviamo non lasciano il tempo, ai giovani d'oggi, di occuparsi dei giovani di ieri. (…) Dal 1918 a oggi il mondo ha fatto più strada di quanto ne abbia fatto in cent'anni. Nuovi grandiosi avvenimenti, nuove lotte, nuove vittorie, hanno relegato nella polvere dei tempi gli avvenimenti di vent'anni fa. Questo è fatale e non vi è nulla da fare contro la marcia inesorabile del tempo 35.

A parte certi echi alla Papini (Amiamo la guerra, 1914), traspare una certa malinconia, una nostalgia per un "mondo di ieri" ormai del tutto tramontato; o perlomeno un accenno di perplessità da parte di chi appartiene alla generazione non più giovane e fatica ad adattarsi alla frenesia dei tempi nuovi, pur apprezzandoli politicamente. Ne L'uomo e la folla, un romanzo del 1941, Natoli esprime efficacemente quel senso di angoscia che prova il singolo di fronte ad una società massificata, dove a imperare, ottusamente e senza controllo, è appunto la moltitudine, una forza cieca che solo le dittature sembrano riuscire a dominare. Il traffico cittadino dei pedoni può essere allora il luogo ideale per commettere un omicidio senza essere notati:

La macchia di sangue era sparita, e la folla, sempre nuova, passava indifferente sulle tre o quattro lastre di cemento dove non più di una ora prima si era abbattuto il corpo di un uomo, ucciso tra migliaia di altri uomini… (…) La marea di gente che percorreva frettolosamente il marciapiedi lo urtava, lo sospingeva (…) centinaia di volti senza lineamenti, che si sovrapponevano e si confondevano in una ininterrotta teoria piena di sfumature 36.

La scelta di ambientare nelle capitali europee i suoi romanzi (Berlino, Londra, Vienna, Parigi…) è probabilmente motivata dalla consapevolezza, da parte dello scrittore, che il lettore italiano di gialli era abituato ad ambientazioni straniere piuttosto che nazionali. Inoltre, il genere poliziesco era nel nostro paese ancora ai primordi, e possono perciò apparire comprensibili certe ingenuità e forzature,come, ad esempio, quella di affermare che "Schurke, il grande Ispettore", grazie alla sua notorietà, "le Polizie di mezza Europa più d'una volta avevano chiamato in aiuto" 37; oppure la pedanteria di Brighenti nel riepilogare l'intera vicenda fino al punto in cui si è arrivati, almeno un paio di volte a romanzo, a usufrutto del lettore che si pensa debba essere accompagnato per mano (andando invece a discapito della tenuta narrativa e della scorrevolezza). Era un tributo alla vocazione didascalica di questo genere popolare, così come era normativo nel giallo classico all'Agatha Christie, riunire in una stanza tutti gli interessati e coinvolgerli in rivelazioni che avrebbero messo ognuno in imbarazzo, per dimostrare che chiunque dei presenti poteva avere un movente all'omicidio. Si giungeva infine a soluzione, inducendo il colpevole all'ammissione, nel momento in cui compiva un estremo quanto inutile tentativo di fuga.

Conclusioni
Una domanda, a questo punto, è d'obbligo: "Perché questi tentativi di gialli "politicizzati" fallirono?". A nostro parere non attecchirono, rimanendo sostanzialmente ignorati dal pubblico proprio perché l'elemento ideologico era predominante, e non affatto marginale. Al lettore veniva propinato, di continuo, e ribadito fino alla noia, il credo fascista o antisemita, fino a soffocare ogni tensione narrativa, ogni verosimiglianza e plausibilità nell'intreccio. Le storie, a leggerle oggi ma in fondo anche allora, appaiono veramente pretestuose, gli intrighi e gli svolgimenti piuttosto meccanici e prevedibili, o, al contrario, inutilmente macchinosi agli inizi, e in seguito di palese e frettolosa risoluzione, rispettosi in modo pedissequo dei cliché del genere. Sono inoltre francamente irritanti, e dovevano sembrarlo anche al tempo ai fruitori non fanatici, la virulenza dei toni antisemiti di cui si è detto e pure certe volgarità gratuite, come ad esempio un'annotazione di Natoli che allude ai bombardamenti nazisti sull'Inghilterra: "Mentre scrivo, gli aquilotti di Goering stanno provvedendo alla demolizione di questa decrepita e infetta zona"
38. Un altro elemento da considerare, quasi ovvio, è la cattiva qualità di queste narrazioni, l'assoluta mediocrità e nullità dei risultati artistici ottenuti: infatti, è possibile prenderli in esame e studiarli solo da un punto di vista storico e sociologico, come prodotti culturali popolari scritti in funzione propagandistica (veramente appropriato in questo caso il termine tedesco trivialliteratur ) e non sotto il profilo letterario. Non si può che essere d'accordo, ancora una volta, con le conclusioni a cui giunse Loris Rambelli nel suo famoso saggio:

Il fascismo trovò nel romanzo poliziesco uno strumento refrattario alla sua glorificazione; in un primo tempo gli permise di vivere relativamente in pace, chiedendogli come contropartita di restare neutrale e poi, in fase di recrudescenza, ritenendolo addirittura nocivo ai fini della conservazione del regime, tentò di eliminarlo. E di sradicare l'"esterofilia" di cui il giallo si faceva depositario 39.

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